Ana səhifə

Il nome della rosa


Yüklə 3.63 Mb.
səhifə32/88
tarix25.06.2016
ölçüsü3.63 Mb.
1   ...   28   29   30   31   32   33   34   35   ...   88

I presenti non osarono contestare questa dotta dimostrazione. Per cui, ne concluse Guglielmo, si vede bene come la legiferazione sulle cose di questa terra, e quindi sulle cose delle città e dei regni, non ha nulla a che vedere con la custodia e l’amministrazione della parola divina, privilegio inalienabile della gerarchia ecclesiastica. Infelici anzi, disse Guglielmo, gli infedeli, che non hanno simile autorità che interpreti per loro la parola divina (e tutti commiserarono gli infedeli). Ma possiamo per questo dire, forse, che gli infedeli non abbiano la tendenza a fare leggi e ad amministrare le loro cose mediante governi, re, imperatori o soldani e califfi che dir si voglia? E si poteva negare che molti imperatori romani avessero esercitato il potere temporale con saggezza, si pensasse a Traiano? E chi ha dato, a pagani e a infedeli, questa capacità naturale di legiferare e di vivere in comunità politiche? Forse le loro divinità bugiarde che necessariamente non esistono (o non esistono necessariamente, comunque si voglia intendere la negazione di questa modalità)? Certo no. Non poteva che avergliela conferita il Dio degli eserciti, il Dio di Israele, padre di nostro signore Gesù Cristo... Mirabile prova della bontà divina che ha conferito la capacità di giudicare sulle cose politiche anche a chi disconosce l’autorità del romano pontefice e non professa gli stessi sacri, dolci e terribili misteri del popolo cristiano! Ma quale più bella dimostrazione, se non questa, del fatto che il dominio temporale e la giurisdizione secolare nulla hanno a che vedere con la chiesa e con la legge di Cristo Gesù, e furono ordinati da Dio al di fuori di ogni conferma ecclesiastica e prima persino che sorgesse la nostra santa religione?

Tossì di nuovo, ma questa volta non da solo. Molti degli astanti si agitavano sui loro scranni e si raschiavano la gola. Vidi il cardinale passarsi la lingua sulle labbra e fare un gesto, ansioso ma cortese, per invitare Guglielmo a venire a! dunque. E Guglielmo affrontò quelle che ora parevano a tutti, anche a chi non le condivideva, le conclusioni forse spiacevoli di quell’inoppugnabile discorso. Disse allora Guglielmo che le sue deduzioni gli parevano sostenute dall’esempio stesso del Cristo, il quale non venne in questo mondo per comandare, ma per sottomettersi secondo le condizioni che nel mondo trovava, almeno per quanto riguardava le leggi di Cesare. Egli non volle che gli apostoli avessero comando e dominio, e perciò sembrava cosa saggia che i successori degli apostoli dovessero essere sollevati da qualsiasi potere mondano e coattivo. Se il pontefice, i vescovi e i preti non fossero sottomessi al potere mondano e coattivo del principe, l’autorità del principe ne verrebbe inficiata, e si inficerebbe con questo un ordine che. come si era dimostrato prima, era stato disposto da Dio. Si debbono certo considerare dei casi molto delicati — disse Guglielmo — come quello degli eretici, sulla cui eresia solo la chiesa, custode della verità, può pronunciarsi, e tuttavia solo il braccio secolare può agire. Quando la chiesa individua degli eretici dovrà certo segnalarli al principe, il quale è bene sia informato delle condizioni dei suoi cittadini. Ma che dovrà fare il principe con un eretico? Condannarlo in nome di quella verità divina di cui non è custode? Il principe può e deve condannare l’eretico se la sua azione nuoce alla convivenza di tutti, se cioè l’eretico afferma la sua eresia uccidendo o impedendo coloro che non la condividono. Ma a quel punto si ferma il potere del principe, perché nessuno su questa terra può essere costretto coi supplizi a seguire i precetti del vangelo, altrimenti dove finirebbe quella libera volontà sull’esercizio della quale ciascuno verrà poi giudicato nell’altro mondo? La chiesa può e deve avvertire l’eretico che esso sta uscendo dalla comunità dei fedeli, ma non può giudicarlo in terra e obbligarlo contro sua voglia. Se Cristo avesse voluto che i suoi sacerdoti ottenessero potere coattivo, avrebbe stabilito precisi precetti come fece Mosè con la legge antica. Non lo fece. Dunque non lo volle. O si intende suggerire l’idea che egli lo volesse, ma gli fosse mancato il tempo o la capacità di dirlo, in tre anni di predicazione? Ma era giusto che non lo volesse, perché se lo avesse voluto, allora il papa avrebbe potuto imporre la sua volontà al re, e il cristianesimo non sarebbe più legge di libertà, ma intollerabile schiavitù.

Tutto questo, aggiunse Guglielmo con volto ilare, non è di limitazione ai poteri del sommo pontefice, ma anzi di esaltazione della sua missione: perché il servo dei servi di Dio sta su questa terra per servire e non per essere servito. E, infine, sarebbe per lo meno bizzarro se il papa avesse giurisdizione sulle cose dell’impero e non sugli altri regni della terra. Come è noto, quello che il papa dice sulle cose divine vale per i sudditi del re di Francia come per quelli del re d’Inghilterra, ma deve valere anche per i sudditi del Gran Cane o del soldano degli infedeli, ché infedeli appunto sono detti perché non sono fedeli a questa bella verità. E dunque se il papa assumesse di aver giurisdizione temporale — in quanto papa — sulle sole cose dell’impero, potrebbe lasciar sospettare che, identificandosi la giurisdizione temporale con quella spirituale, perciostesso egli non solo non avrebbe giurisdizione spirituale sui saraceni o sui tartari, ma neppure sui francesi e gli inglesi — ciò che sarebbe una delittuosa bestemmia. Ecco la ragione, concludeva il mio maestro, per cui gli sembrava giusto suggerire che la chiesa di Avignone facesse ingiuria all’umanità intera asserendo che le spettava di approvare o sospendere colui che era stato eletto imperatore dei romani. Il papa non ha sull’impero diritti maggiori che sugli altri regni, e siccome non sono soggetti all’approvazione del papa né il re di Francia né il soldano, non si vede una buona ragione perché debba esservi soggetto l’imperatore dei tedeschi e degli italiani. Tale soggezione non è di diritto divino, perché le scritture non ne parlano. Non è sancita dal diritto delle genti, in virtù delle ragioni sopra addotte. Quanto ai rapporti con la disputa della povertà, disse infine Guglielmo, le sue modeste opinioni, elaborate in forma di conversevoli suggerimenti da lui e da alcuni come Marsilio da Padova e Giovanni da Gianduno, portavano alle seguenti conclusioni: se i francescani volevano rimanere poveri, il papa non poteva né doveva opporsi a un desiderio tanto virtuoso. Certo che se l’ipotesi della povertà di Cristo fosse stata provata, non solo ciò avrebbe aiutato i minoriti, ma avrebbe rafforzato l’idea che Gesù non avesse voluto per sé alcuna giurisdizione terrena. Ma aveva udito quella mattina persone assai sagge asserire che non si poteva provare che Gesù fosse stato povero. Onde gli pareva più conveniente rovesciare la dimostrazione. Poiché nessuno aveva asserito, e avrebbe potuto asserire, che Gesù aveva richiesto per sé e per i suoi alcuna giurisdizione terrena, questo distacco di Gesù dalle cose temporali gli pareva un sufficiente indizio per invitare a ritenere, senza peccare, che Gesù avesse altresì prediletto la povertà.

Guglielmo aveva parlato in tono così dimesso, aveva espresso le sue certezze in modo tanto dubitativo, che nessuno dei presenti aveva potuto alzarsi per rintuzzarlo. Ciò non vuol dire che tutti fossero convinti di ciò che aveva detto. Non solo gli avignonesi ora si agitavano coi visi corrucciati e sussurrandosi commenti tra di loro, ma lo stesso Abate pareva molto sfavorevolmente impressionato da quelle parole, come se pensasse che non era quello il modo in cui aveva vagheggiato i rapporti tra il suo ordine e l’impero. E quanto ai minoriti, Michele da Cesena era perplesso, Girolamo esterrefatto, Ubertino pensieroso.

Il silenzio fu rotto dal cardinal del Poggetto, sempre sorridente e disteso, che con buona grazia domandò a Guglielmo se sarebbe andato ad Avignone per dire quelle stesse cose a messere il papa. Guglielmo domandò il parere del cardinale, questi disse che messere il papa aveva udito pronunciare molte opinioni discutibili in vita sua ed era uomo amorevolissimo con tutti i suoi figli, ma che sicuramente queste proposizioni lo avrebbero addolorato molto.

Intervenne Bernardo Gui, che sino ad allora non aveva aperto bocca: « Io sarei molto lieto se frate Guglielmo, così abile ed eloquente nell’esporre le proprie idee, venisse a sottoporle al giudizio del pontefice... »

« Mi avete convinto, signor Bernardo. » disse Guglielmo. « Non verrò. » Poi, rivolgendosi al cardinale, in tono di scusa: « Sapete, questa flussione che mi sta prendendo al petto mi sconsiglia di intraprendere un viaggio così lungo in questa stagione... »

« Ma allora perché avete parlato tanto a lungo? » domandò il cardinale.

« Per testimoniare della verità, » disse Guglielmo umilmente. « La verità ci farà liberi. »

« Eh no! » sbottò a questo punto Giovanni Dalbena. « Qui non si tratta della verità che ci fa liberi, ma della eccessiva libertà che vuole farsi vera! »

« Anche questo è possibile, » ammise con dolcezza Guglielmo.

Avvertii per subitanea intuizione che stava per scoppiare una tempesta di cuori e di lingue ben più furiosa della prima. Ma non avvenne nulla. Mentre ancora Dalbena parlava, il capitano degli arcieri era entrato ed era andato a sussurrare qualcosa nell’orecchio di Bernardo. Il quale si alzò di colpo e con la mano chiese udienza.

« Fratelli, » disse, « può darsi che questa profittevole discussione possa venir ripresa, ma ora un evento di immensa gravità ci obbliga a sospendere i nostri lavori, col permesso dell’Abate. Forse ho colmato, senza volerlo, le attese dell’Abate stesso, che sperava di scoprire il colpevole dei molti delitti dei giorni scorsi. Quell’uomo è ora in mia mano. Ma ahimè, è stato preso troppo tardi, ancora una volta... Qualcosa è successo laggiù... » e indicava vagamente l’esterno. Attraversò rapidamente la sala e uscì, seguito da molti, Guglielmo tra i primi e io con lui.

Il mio maestro mi guardò e mi disse: « Temo che sia accaduto qualcosa a Severino.

Sesta.


Dove si trova Severino assassinato e non si trova più il libro che lui aveva trovato.
Attraversammo la spianata di passo rapido e angosciati. Il capitano degli arcieri ci conduceva verso l’ospedale e come vi giungemmo intravvedemmo nel grigiore denso un agitarsi di ombre: erano monaci e famigli che accorrevano, erano arcieri che stavano davanti alla porta e impedivano l’accesso.

« Quegli armati erano stati inviati da me per cercare un uomo che poteva far luce su tanti misteri, » disse Bernardo.

« Il fratello erborista? » chiese stupefatto l’Abate.

« No, ora vedrete, » disse Bernardo facendosi strada all’interno.

Penetrammo nel laboratorio di Severino e qui una vista penosa si offrì ai nostri occhi. Lo sventurato erborista giaceva cadavere in un lago di sangue, con la testa spaccata. Intorno, gli scaffali parevano esser stati devastati dalla tempesta: ampolle, bottiglie, libri, documenti giacevano qua e là in gran disordine e rovina. Accanto al corpo stava una sfera armillare, grande almeno due volte il capo di un uomo; di metallo finemente lavorato, sormontata da una croce d’oro e imperniata su un corto treppiede decorato. Altre volte l’avevo notata sul tavolo a sinistra dell’ingresso.

Dall’altro capo della stanza due arcieri tenevano stretto il cellario che si divincolava protestandosi innocente e che aumentò i suoi clamori quando vide entrare l’Abate. « Signore, » gridava, « le apparenze sono contro di me! Sono entrato quando Severino era già morto e mi han trovato mentre stavo osservando senza parole questa strage! »

Il capo degli arcieri si appressò a Bernardo, e ottenutane licenza gli fece un rapporto, davanti a tutti. Gli arcieri avevano ricevuto l’ordine di trovare il cellario e di arrestarlo, e da più di due ore lo cercavano per l’abbazia. Doveva trattarsi, pensai, della disposizione data da Bernardo prima di entrare nel capitolo, e i soldati, stranieri in quel luogo, avevano probabilmente condotto le loro ricerche nei posti sbagliati, senza avvedersi che il cellario, ignaro ancora del suo fato, stava con altri nel nartece; e d’altra parte la nebbia aveva reso più ardua la loro caccia. In ogni caso, dalle parole del capitano, si arguiva che quando Remigio, dopo che io lo avevo lasciato, era andato verso le cucine, qualcuno lo aveva visto e ne aveva avvertito gli arcieri, i quali erano giunti all’Edificio quando Remigio se ne era di nuovo allontanato, e da pochissimo, perché c’era in cucina Jorge che asseriva di avergli appena parlato. Gli arcieri avevano allora esplorato il pianoro nella direzione degli orti e qui, emerso dalla nebbia come un fantasma, avevano trovato il vecchio Alinardo, che si era quasi smarrito. Proprio Alinardo aveva detto di aver visto il cellario, poco prima, entrare nell’ospedale. Gli arcieri erano andati colà trovando la porta aperta. Entrati, avevano trovato Severino esanime e il cellario che forsennatamente stava rovistando tra gli scaffali, buttando tutto a terra, come se stesse cercando qualcosa. Era facile capire cosa fosse successo, concludeva il capitano. Remigio era entrato, si era gettato sull’erborista, lo aveva ucciso, e stava poi cercando ciò per cui aveva ucciso.

Un arciere sollevò da terra la sfera armillare e la porse a Bernardo. L’elegante architettura di cerchi di rame e d’argento, tenuta insieme da una più robusta intelaiatura di anelli di bronzo, impugnata per lo stelo del treppiede, era stata vibrata con forza sul cranio della vittima, sì che nell’impatto molti dei cerchi più sottili si erano spezzati o schiacciati da un lato. E che quello fosse il lato abbattuto sul capo di Severino lo rivelavano le tracce di sangue e persino i grumi di capelli e le immonde sbavature di materia cerebrale.

Guglielmo si chinò su Severino per constatarne la morte. Gli occhi del poveretto, velati dal sangue scorso a fiumi dal capo, erano sbarrati e mi chiesi se fosse mai stato possibile leggere nella pupilla irrigidita, come si racconta sia avvenuto in altri casi, l’immagine dell’assassino, ultimo vestigio delle percezioni della vittima. Vidi che Guglielmo cercava le mani del morto, per controllare se avesse delle macchie nere sulle dita, anche se in quel caso la causa della morte era ben altrimenti evidente: ma Severino indossava quelli stessi guanti di pelle, con cui certe volte l’avevo visto maneggiare erbe pericolose, ramarri, ignoti insetti.

Frattanto Bernardo Gui si rivolgeva al cellario: « Remigio da Varagine, è questo il tuo nome, vero? Ti avevo fatto cercare dai miei uomini in base ad altre accuse e per confermare altri sospetti. Ora vedo che avevo agito rettamente benché, me lo rimprovero, con troppo ritardo. Signore, » disse all’Abate, « mi ritengo quasi responsabile di quest’ultimo crimine, perché sin da stamane sapevo che occorreva assicurare alla giustizia quest’uomo, dopo aver ascoltato le rivelazioni di quell’altro sciagurato arrestato questa notte. Ma avete visto anche voi, durante la mattina sono stato preso da altri doveri e i miei uomini hanno fatto del loro meglio... »

Mentre parlava, a voce alta perché tutti gli astanti udissero (e la stanza si era nel frattempo affollata, con gente che si intrufolava in ogni canto, guardando le cose sparse e distrutte. additandosi il cadavere e commentando sottovoce il gran crimine), scorsi tra la piccola folla Malachia, che osservava cupamente la scena. Lo scorse anche il cellario. che proprio allora stava per essere trascinato fuori. Si strappò dalla stretta degli arcieri e si buttò sul confratello, afferrandolo per la veste e parlandogli brevemente e disperatamente viso contro viso, sino a che gli arcieri non lo ripresero. Ma, condotto via con rudezza, si voltò ancora verso Malachia gridandogli: « Giura, e io giuro! »

Malachia non rispose subito, come se cercasse le parole adatte. Poi mentre il cellario già stava oltrepassando a forza la soglia, gli disse: « Non farò nulla contro di te. »

Guglielmo e io ci guardammo, chiedendoci cosa significasse questa scena. Anche Bernardo l’aveva osservata, ma non ne parve turbato, anzi sorrise a Malachia come per approvare le sue parole, e suggellare con lui una sinistra complicità. Poi annunciò che subito dopo il pasto si sarebbe riunito nel capitolo un primo tribunale per istruire pubblicamente quell’inchiesta. E uscì ordinando di condurre il cellario nelle fucine, senza lasciarlo parlare con Salvatore.

In quel momento ci sentimmo chiamare da Bencio, alle nostre spalle: « Io sono entrato subito dopo di voi, » disse in un sussurro, « quando la stanza era ancora semivuota, e Malachia non c’era. »

« Sarà entrato dopo, » disse Guglielmo.

« No, » assicurò Bencio, « ero presso alla porta, ho visto chi entrava. Vi dico, Malachia era già dentro... prima.’

« Prima di quando? »

« Prima che vi entrasse il cellario. Non posso giurarlo, ma credo che sia uscito da quella tenda, quando qui eravamo già in molti, » e accennò a un ampio tendaggio che proteggeva un letto su cui di solito Severino metteva a riposare chi aveva appena subito una medicazione.

« Vuoi insinuare che sia stato lui a uccidere Severino e che si sia ritirato là dietro quando è entrato il cellario? » chiese Guglielmo.

« Oppure che da la dietro abbia assistito a quanto è avvenuto qui. Perché altrimenti il cellario gli avrebbe implorato di non nuocergli promettendo in cambio di non nuocere a lui? »

« E’ possibile, » disse Guglielmo. « In ogni caso qui c’era un libro e dovrebbe esserci ancora, perché sia il cellario che Malachia sono usciti a mani vuote. Guglielmo sapeva dal mio rapporto che Bencio sapeva: e in quel momento aveva bisogno di aiuto. Si avvicinò all’Abate che osservava tristemente il cadavere di Severino e lo pregò di far uscire tutti, perché voleva esaminare meglio il luogo. L’Abate acconsentì ed uscì egli stesso, non senza lanciare a Guglielmo uno sguardo di scetticismo, come se gli rimproverasse di arrivare sempre in ritardo. Malachia cercò di restare adducendo varie ragioni, del tutto vaghe: Guglielmo gli fece osservare che quella non era la biblioteca e in quel luogo non poteva accampare diritti. Fu cortese ma inflessibile, e si vendicò di quando Malachia non gli aveva consentito di esaminare il tavolo di Venanzio.
Quando rimanemmo in tre, Guglielmo liberò uno dei tavoli dai cocci e dalle carte che lo occupavano, e mi disse di passargli uno dopo l’altro i libri della raccolta di Severino. Piccola raccolta, paragonata a quella grandissima del labirinto, ma si trattava pur sempre di decine e decine di volumi di varia grandezza, che prima stavano in bell’ordine sugli scaffali e ora giacevano in disordine per terra, tra vari altri oggetti, e già sconvolti dalle mani frettolose del cellario, alcuni anzi strappati, come se quello non un libro cercasse, ma qualcosa che doveva stare tra le pagine di un libro. Certuni erano stati lacerati con violenza, separati dalla loro rilegatura. Raccoglierli, esaminarne rapidamente la natura e riporli a catasta sul tavolo fu impresa non da poco, e condotta in fretta, perché l’Abate ci aveva concesso poco tempo, dato che dovevano poi entrare dei monaci a ricomporre il corpo straziato di Severino e a disporlo per la sepoltura. E si trattava anche di andare a cercare in giro, sotto i tavoli, dietro agli scaffali e agli armadi, se qualcosa fosse sfuggito a una prima ispezione. Guglielmo non volle che Bencio mi aiutasse e gli consentì solo di stare a guardia della porta. Malgrado gli ordini dell’Abate molti premevano per entrare, famigli atterriti dalla notizia, monaci piangenti il loro confratello, novizi arrivati con drappi candidi e bacinelle d’acqua per lavare e avvolgere il cadavere...

Si doveva dunque procedere svelti. Io afferravo i libri, li porgevo a Guglielmo che li esaminava e li poneva sul tavolo. Poi ci rendemmo conto che il lavoro era lungo e procedemmo insieme, cioè io raccattavo un libro, lo ricomponevo se era scomposto, ne leggevo il titolo, lo posavo. E in molti casi si trattava di fogli sparsi.

« ’De plantis libri tres’, maledizione non è questo, » diceva Guglielmo e buttava il libro sul tavolo.

« ’Thesaurus herbarum’, « dicevo io, e Guglielmo: « Lascia stare, cerchiamo un libro greco! »

« Questo? » chiedevo io mostrandogli un’opera dalle pagine coperte di caratteri astrusi. E Guglielmo: « No, questo è arabo, sciocco! Aveva ragione Bacone che il primo dovere del sapiente è studiare le lingue! »

« Ma l’arabo non lo sapete neppure voi! » ribattevo piccato, al che Guglielmo mi rispondeva: « Ma almeno capisco quando è arabo! » E io arrossivo perché udivo Bencio ridere alle mie spalle.

I libri erano molti, e molti di più gli appunti, i rotoli con disegni della volta celeste, i cataloghi di piante strane, manoscritti probabilmente dal defunto su fogli sparsi. Lavorammo a lungo, esplorammo il laboratorio per ogni dove, Guglielmo giunse persino, con grande freddezza, a rimuovere il cadavere per vedere se non vi fosse qualcosa sotto, e gli frugò nella veste. Nulla.

« E’ indispensabile, » disse Guglielmo. « Severino si è chiuso qui dentro con un libro. Il cellario non lo aveva... »

« Non lo avrà mica nascosto nella veste? » domandai.

« No, il libro che ho visto l’altra mattina sotto il tavolo di Venanzio era grande, ce ne saremmo accorti. »

« Come era rilegato? » domandai.

« Non lo so. Giaceva aperto e l’ho visto solo per pochi secondi, appena per rendermi conto che era in greco, ma non ricordo altro. Continuiamo: il cellario non l’ha preso, e Malachia neppure, credo. »

« Assolutamente no, » confermò Bencio, « quando il cellario lo ha afferrato per il petto si è visto che non poteva averlo sotto lo scapolare. »

« Bene. Cioè, male. Se il libro non è in questa stanza è evidente che qualcun altro, oltre Malachia e il cellario, era entrato prima. »

« Cioè una terza persona che ha ucciso Severino? »

« Troppa gente, » disse Guglielmo.

« D’altra parte, » dissi, « chi poteva sapere che il libro era qui? »

« Jorge, per esempio, se ci ha uditi. »

« Sì, » dissi, « ma Jorge non avrebbe potuto uccidere un uomo robusto come Severino, e con tanta violenza. »

« Certamente no. Inoltre tu l’hai visto dirigersi verso l’Edificio, e gli arcieri lo hanno trovato in cucina poco prima di trovare il cellario. Quindi non avrebbe avuto tempo di venire qui e poi di tornare in cucina. Calcola che, anche se si muove con disinvoltura, deve tuttavia procedere costeggiando i muri e non avrebbe potuto attraversare gli orti, e di corsa... »

« Lasciatemi ragionare con la mia testa, » dissi, io che ormai ambivo a emulare il mio maestro. « Dunque Jorge non può essere stato. Alinardo girava nei pressi, ma anch’egli si regge a malapena sulle gambe, e non può aver sopraffatto Severino. Il cellario è stato qui, ma il tempo intercorso tra la sua uscita dalle cucine e l’arrivo degli arcieri è stato così breve che mi pare difficile che abbia potuto farsi aprire da Severino, affrontarlo, ucciderlo e poi combinare tutto questo pandemonio. Malachia potrebbe aver preceduto tutti: Jorge vi ha udito nel nartece, è andato nello scriptorium a informare Malachia che un libro della biblioteca stava presso Severino. Malachia viene qui, convince Severino ad aprirgli, lo uccide, Dio sa perché. Ma se cercava il libro avrebbe dovuto riconoscerlo senza rovistare così, perché è lui il bibliotecario! Allora chi rimane? »

« Bencio, » disse Guglielmo.

Bencio negò vigorosamente scuotendo il capo: « No frate Guglielmo, voi sapete che ero arso dalla curiosità. Ma se fossi entrato qui e avessi potuto uscire col libro, adesso non sarei a tenervi compagnia, ma da qualche altra parte a esaminare il mio tesoro... »

« Una prova quasi convincente, » sorrise Guglielmo. « Però neppure tu sai come è fatto il libro. Potresti aver ucciso e ora saresti qui a cercare di identificarlo. »

Bencio arrossì violentemente. « Io non sono un assassino! » protestò.

« Nessuno lo è, prima di commettere il primo delitto, » disse filosoficamente Guglielmo. « In ogni caso il libro non c’è, e questa è una prova sufficiente del fatto che tu non lo hai lasciato qui. E mi pare ragionevole che, se lo avessi preso prima, saresti sgattaiolato fuori durante la confusione. »

1   ...   28   29   30   31   32   33   34   35   ...   88


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət