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Il nome della rosa


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« La bellula? »

« Oc! Bestiola parvissima est, più lunga alguna cosa che ’l topo, et odiala ’l topo muchissimo. E assì la serpe et la botta. Et quando loro la mordono, la bellula corre alla fenicula o a la circerbita et ne dentecchia, et redet ad bellum. Et dicunt che ingenera per li oculi, ma li più dicono ch’elli dicono falso. »

Gli chiesi cosa facesse con un basilisco e disse che erano affari suoi. Gli dissi, ormai morso dalla curiosità, che in quei giorni, con tutti quei morti, non c’erano più affari segreti, e che ne avrei parlato a Guglielmo. Allora Salvatore mi pregò ardentemente di tacere, aprì il fagotto e mi mostrò un gatto di pelo nero. Mi tirò vicino a sé e mi disse con un sorriso osceno che non voleva più che il cellario o io, perché eravamo l’uno potente e l’altro giovane e bello, potessimo avere l’amore delle ragazze del villaggio, e lui no perché era brutto e poveretto. Che conosceva una magìa portentosissima per far cadere ogni donna presa d’amore. Bisognava uccidere un gatto nero e cavargli gli occhi, poi metterli dentro due uova di gallina nera, un occhio in un uovo, un occhio nell’altro (e mi mostrò due uova che assicurò aver tratto dalle galline giuste). Poi occorreva mettere le uova a marcire dentro un mucchio di sterco di cavallo (e ne aveva approntato uno proprio in un angolino dell’orto dove non passava mai nessuno), e di lì ne sarebbe nato, per ciascun uovo, un diavoletto, che poi si sarebbe messo al suo servizio procurandogli tutte le delizie di questo mondo. Ma ahimè, mi disse, perché la magìa riuscisse occorreva che la donna, di cui voleva l’amore, sputasse sulle uova prima che fossero seppellite nello sterco, e quel problema lo angustiava, perché bisognava avere accanto, quella notte, la donna in questione, e farle fare l’ufficio suo senza che lei sapesse a cosa serviva.

Fui preso da subita vampa, al viso, o alle viscere, o in tutto il corpo, e chiesi con un filo di voce se quella notte avrebbe portato nella cinta la ragazza della notte avanti. Lui rise, schernendomi, e disse che ero proprio in preda a una gran foia (io dissi di no, che chiedevo per pura curiosità), e poi mi disse che al villaggio di donne ce n’erano tante, e che ne avrebbe portata su un’altra, più bella ancora di quella che piaceva a me. Io supposi che mi mentisse per allontanarmi da lui. E d’altra parte che avrei potuto fare? Seguirlo per tutta la notte quando Guglielmo mi attendeva per ben altre imprese? E tornare a rivedere colei (se pure di essa si trattava) verso cui i miei appetiti mi spingevano mentre la mia ragione me ne distoglieva — e che non avrei dovuto vedere mai più anche se desideravo sempre vederla ancora? Certo no. E quindi convinsi me stesso che Salvatore diceva il vero, per quanto riguardava la donna. O che forse mentiva su tutto, che la magìa di cui parlava era una fantasia della sua mente ingenua e superstiziosa, e che non ne avrebbe fatto nulla.

Mi irritai con lui, lo trattai rudemente, gli dissi che per quella notte avrebbe fatto meglio ad andare a dormire, perché gli arcieri circolavano nella cinta. Egli rispose che conosceva l’abbazia meglio degli arcieri, e che con quella nebbia nessuno avrebbe visto nessuno. Anzi, mi disse, ora io scappo, e neppure tu mi vedrai più, anche se fossi lì a due passi a sollazzarmi con la ragazza che desideri. Lui si espresse con altre parole, assai più ignobili, ma questo era il senso di quanto diceva. Mi allontanai sdegnato, perché proprio non era da me, nobile e novizio, mettermi in certame con quella canaglia.

Raggiunsi Guglielmo e facemmo quello che si doveva. Cioè ci disponemmo a seguir compieta, indietro nella navata, in modo che quando l’ufficio finì eravamo pronti per intraprendere il nostro secondo viaggio (terzo per me) nelle viscere del labirinto.

Dopo compieta.

Dove si visita di nuovo il labirinto, si arriva alla soglia del fìnis Africae ma non ci si può entrare perché non si sa cosa siano il primo e il settimo dei quattro, e infine Adso ha una ricaduta, peraltro assai dotta, nella sua malattia d’amore.


La visita in biblioteca ci portò via lunghe ore di lavoro. A parole il controllo che dovevamo fare era facile, ma procedere al lume della lucerna, leggere le scritte, segnare sulla mappa i varchi e le pareti piene, registrare le iniziali, compiere i vari percorsi che il gioco delle aperture e degli sbarramenti ci consentivano, fu cosa assai lunga. E noiosa.

Faceva molto freddo. La notte non era ventosa e non si udivano quei sibili sottili che ci avevano impressionato la prima sera, ma dalle feritoie penetrava un’aria umida e gelida. Avevamo messo dei guanti di lana per poter toccare i volumi senza che le mani si intirizzissero. Ma erano appunto di quelli che si usavano per scrivere d’inverno, con la punta delle dita scoperte, e talora dovevamo avvicinare le mani alla fiamma, o metterle nel petto, o batterle l’una contro l’altra, saltellando intirizziti.

Per questo non compimmo tutta l’opera di seguito. Ci fermavamo a curiosare negli armaria, e ora che Guglielmo — coi suoi nuovi vetri sul naso — poteva attardarsi a leggere i libri, a ogni titolo che scopriva prorompeva in esclamazioni di allegrezza, o perché conosceva l’opera, o perché da tempo la cercava o infine perché non l’aveva mai sentita menzionare ed era oltremodo eccitato e incuriosito. Insomma, ogni libro era per lui come un animale favoloso che egli incontrasse in una terra sconosciuta. E mentre lui sfogliava un manoscritto, mi ingiungeva di cercarne altri.

« Guarda cosa c’è in quell’armadio! »

E io, compitando e spostando volumi: « ’Historia anglorum’ di Beda... E sempre di Beda ’De aedificatione templi’, ’De tabernaculo’, ’De temporibus et computo et chronica et circuli Dionysi’, ’Ortographia’, ’De ratione metrorum’, ’Vita Sancti Cuthberti’, ’Ars metrica’... »

« E’ naturale, tutte le opere del Venerabile... E guarda questi! ’De rhetorica cognatione’, ’Locorum rhetoricorum distinctio’, e qui tanti grammatici, Prisciano, Onorato, Donato, Massimo, Vittorino, Eutiche, Foca, Asper... Strano, pensavo a tutta prima che qui ci fossero autori dell’Anglia... Guardiamo più sotto... »

« ’Hisperica... famina’. Cos’è? »

« Un poema ibernico. Ascolta:


Hoc spumans mundanas obvallat Pelagus oras

terrestres amniosis flucribus cudit margines.

Saxeas undosis molibus irruit avionias.

Infima bomboso vertice miscet glareas

asprifero spergit spumas sulco,

sonoreis frequenter quaritur flabris...


Io non capivo il senso, ma Guglielmo leggeva facendo rotolare le parole nella bocca in modo tale che pareva di udire il suono delle onde e della spuma marina.

« E questo? E’ Aldhelm di Malmesbury, sentite questa pagina: ’Primitus pantorum procerum poematorum pio potissimum paternoque presertim privilegio panegiricum poemataque passim prosatori sub polo promulgatas...’ Le parole cominciano tutte con la stessa lettera! »

« Gli uomini delle mie isole sono tutti un poco pazzi, » diceva Guglielmo con orgoglio. « Guardiamo nell’altro armadio. »

« Virgilio. »

« Come mai qui? Virgilio cosa? Le ’Georgiche’? »

« No. ’Epitomi’. Non ne avevo mai sentito parlare. »

« Ma non è il Marone! E’ Virgilio di Tolosa, il retore, sei secoli dopo la nascita di Nostro Signore. Fu reputato un gran saggio... »

« Qui dice che le arti sono poema, rethoria, grama, leporia, dialecta, geometria... Ma che lingua parla? »

« Latino, ma un latino di sua invenzione, che egli reputava assai più bello. Leggi qui: dice che l’astronomia studia i segni dello zodiaco che sono mon, man, tonte, piron, dameth, perfellea, belgalic, margaleth, lutamiron, taminon e raphalut. »

« Era matto? »

« Non lo so, non era delle mie isole. Senti ancora, dice che ci sono dodici modi di designare il fuoco, ignis, coquihabin (quia incocta coquendi habet dictionem), ardo, calax ex calore, fragon ex fragore flammae, rusin de rubore, fumaton, ustrax de urendo, vitius quia pene mortua membra suo vivificat, siluleus, quod de silice siliat, unde et silex non recte dicitur, nisi ex qua scintilla silit. E aeneon, de Aenea deo, qui in eo habitat, sive a quo elementis flatus fertur. »

« Ma non c’è nessuno che parla così! »

« Fortunatamente. Ma erano tempi in cui, per dimenticare un mondo cattivo, i grammatici si dilettavano di astruse questioni. Mi dissero che a quell’epoca per quindici giorni e quindici notti i retori Gabundus e Terentius discussero sul vocativo di ’ego’, e infine vennero alle armi « 

« Ma anche questo, sentite... » avevo afferrato un libro meravigliosamente miniato con labirinti vegetali dai cui viticci si affacciavano scimmie e serpenti. « Sentite che parole: cantamen, collamen, gongelamen, stemiamen, plasmamen, sonerus, alboreus, gaudifluus, glaucicomus... »

« Le mie isole, » disse di nuovo con tenerezza Guglielmo. « Non essere severo con quei monaci della lontana Hibernia, forse, se esiste questa abbazia, e se parliamo ancora di sacro romano impero, lo dobbiamo a loro. A quel tempo il resto dell’Europa era ridotto a un ammasso di rovine, un giorno dichiararono invalidi i battesimi impartiti da alcuni preti nelle Gallie perché vi si battezzava « in nomine patris et filiae », e non perché praticassero una nuova eresia e considerassero Gesù una donna, ma perché non sapevano più il latino. »

« Come Salvatore? »

« Più o meno. I pirati dell’estremo nord arrivavano lungo i fiumi a saccheggiare Roma. I templi pagani cadevano in rovina e quelli cristiani non esistevano ancora. E furono solo i monaci dell’Hibernia che nei loro monasteri scrissero e lessero, lessero e scrissero, e miniarono, e poi si gettarono su navicelle fatte di pelle d’animale e navigarono verso queste terre e le evangelizzarono come foste infedeli, capisci? Sei stato a Bobbio, è stato fondato da san Colombano, uno di costoro. E dunque lasciali stare se inventavano un latino nuovo, visto che in Europa non si sapeva più quello vecchio. Furono uomini grandi. San Brandano arrivò sino alle isole Fortunate, e costeggiò le coste dell’inferno dove vide Giuda incatenato su uno scoglio, e un giorno approdò su un’isola e vi scese, ed era un mostro marino. Naturalmente erano pazzi, » ripeté con soddisfazione.

« Le loro immagini sono... da non credere ai miei occhi! E quanti colori! » dissi, beandomi.

« In una terra che di colori ne ha pochi, un po’ di azzurro e tanto verde. Ma non stiamo a discutere dei monaci hiberni. Quello che voglio sapere è perché sono qui con gli angli e con grammatici di altri paesi. Guarda sulla tua mappa, dove dovremmo essere? »

« Nelle stanze del torrione occidentale. Ho trascritto anche i cartigli. Dunque, uscendo dalla stanza cieca si entra nella sala eptagonale e c’è un solo passaggio a una sola stanza del torrione, la lettera in rosso è H. Poi si passa di stanza in stanza facendo il giro del torrione e si torna alla stanza cieca. La sequenza delle lettere dà... avete ragione! HIBERNI!

« HIBERNIA, se dalla stanza cieca torni nella eptagonale, che ha come tutte le altre tre la A di Apocalypsis. Perciò vi sono le opere degli autori dell’ultima Thule, e anche i grammatici e i retori, perché gli ordinatori della biblioteca han pensato che un grammatico deve stare coi grammatici hiberni, anche se è di Tolosa. E’ un criterio. Vedi che cominciamo a capire qualcosa? »

« Ma nelle stanze del torrione orientale da cui siamo entrati abbiamo letto PONS... Cosa significa? »

« Leggi bene la tua mappa, continua a leggere le lettere delle sale che seguono per ordine di accesso. »

FONS ADAEU...

« No, Fons Adae, la U è la seconda stanza cieca orientale, la ricordo, forse si inserisce in un’altra sequenza. E cosa abbiamo trovato al Fons Adae, e cioè nel paradiso terrestre (ricordati che ivi è la stanza con l’altare che dà verso il levar del sole)? »

« C’erano tante bibbie, e commenti alla bibbia, solo libri di scritture sacre.

« E dunque vedi, la parola di Dio in corrispondenza al paradiso terrestre, che come tutti dicono è lontano verso oriente. E qui a occidente l’Hibernia. »

« Dunque il tracciato della biblioteca riproduce la mappa dell’universo mondo? »

« E’ probabile. E i libri vi sono collocati secondo i paesi di provenienza, o il luogo dove nacquero i loro autori o, come in questo caso, il luogo dove avrebbero dovuto nascere. I bibliotecari si son detti che Virgilio il grammatico è nato per sbaglio a Tolosa e avrebbe dovuto nascere nelle isole occidentali. Hanno risistemato gli errori della natura.

Proseguimmo il nostro cammino. Passammo per una sequenza di sale ricche di splendide Apocalissi, e una di queste era la stanza dove avevo avuto le visioni. Anzi, da lontano vedemmo di nuovo il lume, Guglielmo si turò il naso e corse a spegnerlo, sputando sulle ceneri. E ad ogni buon conto traversammo la stanza in fretta, ma ricordavo che vi avevo visto la bellissima Apocalisse multicolore con la mulier amicta sole e il drago. Ricostruimmo la sequenza di queste sale a partire dall’ultima a cui accedemmo e che aveva come iniziale in rosso una Y. La lettura all’indietro diede la parola YSPANIA, ma l’ultima A era la stessa su cui terminava HIBERNIA. Segno, disse Guglielmo, che rimanevano delle stanze in cui si raccoglievano opere di carattere misto.

In ogni caso la zona denominata YSPANIA ci parve popolata di molti codici dell’Apocalisse, tutti di bellissima fattura, che Guglielmo riconobbe come arte ispanica. Rilevammo che la biblioteca aveva forse la più ampia raccolta di copie del libro dell’apostolo che esistesse nella cristianità, e una quantità immensa di commenti su quel testo. Volumi enormi erano dedicati al commentario sull’Apocalisse di Beato di Liébana, e il testo era più o meno sempre lo stesso, ma trovammo una fantastica varietà di variazioni nelle immagini e Guglielmo riconobbe la menzione di alcuni tra coloro che egli riteneva tra i massimi miniatori del regno delle Asturie, Magius, Facundus e altri.

Facendo queste e altre osservazioni pervenimmo al torrione meridionale, nei cui pressi eravamo già passati la sera precedente. La stanza S di YSPANIA — senza finestre — immetteva in una stanza E e via via girando le cinque stanze del torrione arrivammo all’ultima, senza altri varchi, che recava una L in rosso. Rileggemmo al contrario e trovammo LEONES.

« Leones, meridione, nella nostra mappa siamo in Africa, hic sunt leones. E questo spiega perché vi abbiamo trovato tanti testi di autori infedeli. »

« E altri ve ne sono, » dissi frugando negli armadi. « ’Canone’ di Avicenna, e questo bellissimo codice in calligrafia che non conosco... »

« A giudicare dalle decorazioni dovrebbe essere un corano, ma purtroppo non conosco l’arabo. »

« Il corano, la bibbia degli infedeli, un libro perverso... »

« Un libro che contiene una saggezza diversa dalla nostra. Ma comprendi perché lo abbiano posto qui, dove stanno i leoni, i mostri. Ecco perché vi abbiamo visto quel libro sulle bestie mostruose dove hai trovato anche l’unicorno. Questa zona detta LEONES contiene quelli che per i costruttori della biblioteca erano i libri della menzogna. Cosa c’è laggiù? »

« Sono in latino, ma dall’arabo. Ayyub al Ruhawi, un trattato sull’idrofobia canina. E questo è un libro dei tesori. E questo il ’De aspectibus’ di Alhazen... »

« Vedi, hanno posto tra i mostri e le menzogne anche opere di scienza da cui i cristiani hanno tanto da imparare. Così si pensava ai tempi in cui la biblioteca fu costituita... »

« Ma perché hanno posto tra le falsità anche un libro con l’unicorno? » domandai.

« Evidentemente i fondatori della biblioteca avevano strane idee. Avran ritenuto che questo libro che parla di bestie fantastiche e che vivono in paesi lontani facesse parte del repertorio di menzogne diffuso dagli infedeli... »

« Ma l’unicorno è una menzogna? E’ un animale dolcissimo e altamente simbolico. Figura di Cristo e della castità, esso può essere catturato solo ponendo una vergine nel bosco, in modo che l’animale sentendone l’odore castissimo vada ad adagiarle il capo in grembo, offrendosi preda ai lacciuoli dei cacciatori. »

« Così si dice, Adso. Ma molti inclinano a ritenere che sia una invenzione favolistica dei pagani. »

« Che delusione, » dissi. « Mi sarebbe piaciuto incontrarne uno attraversando un bosco. Altrimenti che piacere c’è ad attraversare un bosco? »

« Non è detto che non esista. Forse è diverso da come lo rappresentano questi libri. Un viaggiatore veneziano andò in terre molto lontane, assai vicine al fons paradisi di cui dicono le mappe, e vide unicorni. Ma li trovò rozzi e sgraziati, e bruttissimi e neri. Credo abbia visto delle bestie vere con un corno sulla fronte. Furono probabilmente le stesse che i maestri della sapienza antica, mai del tutto erronea, che ricevettero da Dio l’opportunità di vedere cose che noi non abbiamo visto, ci tramandarono con una prima descrizione fedele. Poi questa descrizione, viaggiando da auctoritas ad auctoritas, si trasformò per successive composizioni della fantasia, e gli unicorni divennero animali leggiadri e bianchi e mansueti. Per cui se saprai che in un bosco vive un unicorno, non andarci con una vergine, perché l’animale potrebbe essere più simile a quello del testimone veneziano che a quello di questo libro. »

« Ma come avvenne che i maestri della sapienza antica ebbero da Dio la rivelazione sulla vera natura dell’unicorno? »

« Non la rivelazione, ma l’esperienza. Ebbero la ventura di nascere in terre in cui vivevano unicorni o in tempi in cui gli unicorni vivevano in queste stesse terre. »

« Ma allora come possiamo fidarci della sapienza antica, di cui voi ricercate sempre la traccia, se essa ci è trasmessa da libri mendaci che la hanno interpretata con tanta licenza? »

« I libri non sono fatti per crederci, ma per essere sottoposti a indagine. Di fronte a un libro non dobbiamo chiederci cosa dica ma cosa vuole dire, idea che i vecchi commentatori dei libri sacri ebbero chiarissima. L’unicorno così come ne parlano questi libri cela una verità morale, o allegorica, o anagogica, che rimane vera, come rimane vera l’idea che la castità sia una nobile virtù. Ma quanto alla verità letterale che sostiene le altre tre, rimane da vedere da quale dato di esperienza originaria è nata la lettera. La lettera deve essere discussa, anche se il sovrasenso rimane buono. In un libro sta scritto che il diamante si taglia solo col sangue di capro. Il mio grande maestro Ruggiero Bacone disse che non era vero, semplicemente perché lui ci aveva provato, e non c’era riuscito. Ma se il rapporto tra diamante e sangue caprino avesse avuto un senso superiore, questo rimarrebbe intatto. »

« Allora si possono dire verità superiori mentendo quanto alla lettera, » dissi. « E però mi dispiace ancora che l’unicorno così com’è non esista, o non sia esistito, o non possa esistere un giorno.

« Non ci è lecito porre limiti all’onnipotenza divina, e se Dio volesse potrebbero esistere anche gli unicorni. Ma consolati, essi esistono in questi libri, i quali se non parlano dell’essere reale parlano dell’essere possibile. »

« Ma bisogna dunque leggere i libri senza far ricorso alla fede, che è virtù teologale? »

« Rimangono altre due virtù teologali. La speranza che il possibile sia. E la carità, verso chi ha creduto in buona fede che il possibile fosse. »

« Ma cosa serve a voi l’unicorno se il vostro intelletto non vi crede? »

« Serve come mi è servita la traccia dei piedi di Venanzio sulla neve, trascinato al tino dei maiali. L’unicorno dei libri è come una impronta. Se vi è l’impronta deve esserci stato qualcosa di cui è impronta. »

« Ma diverso dall’impronta, mi dite. »

« Certo. Non sempre un’impronta ha la stessa forma del corpo che l’ha impressa e non sempre nasce dalla pressione di un corpo. Talora riproduce l’impressione che un corpo ha lasciato nella nostra mente, è impronta di una idea. L’idea è segno delle cose, e l’immagine è segno dell’idea, segno di un segno. Ma dall’immagine ricostruisco, se non il corpo, l’idea che altri ne aveva. »

« E questo vi basta? »

« No, perché la vera scienza non deve accontentarsi delle idee, che sono appunto segni, ma deve ritrovare le cose nella loro verità singolare. E dunque mi piacerebbe risalire da questa impronta di una impronta all’unicorno individuo che sta all’inizio della catena. Così come mi piacerebbe risalire dai segni vaghi lasciati dall’assassino di Venanzio (segni che potrebbero rimandare a molti) a un individuo unico, l’assassino stesso. Ma non sempre è possibile in breve tempo, e senza la mediazione di altri segni. »

« Ma allora posso sempre e solo parlare di qualcosa che mi parla di qualcosa d’altro e via di seguito, ma il qualcosa finale, quello vero, non c’è mai? »

« Forse c’è, è l’unicorno individuo. E non preoccuparti, un giorno o l’altro lo incontrerai, per nero e brutto che sia. »

« Unicorni, leoni, autori arabi e mori in genere, » dissi a quel punto, « senza dubbio questa è l’Africa di cui parlavano i monaci. »

« Senza dubbio è questa. E se è questa dovremmo trovare i poeti africani a cui accennava Pacifico da Tivoli. »

E infatti, rifacendo il cammino a ritroso e tornando nella stanza L, trovai in un armadio una raccolta di libri di Floro, Frontone, Apuleio, Marziano Capella e Fulgenzio.

« Quindi è qui che Berengario diceva che avrebbe dovuto esserci la spiegazione di un certo segreto, » dissi.

« Quasi qui. Egli usò l’espressione ’finis Africae’, ed è a questa espressione che Malachia si adontò tanto. Il finis potrebbe essere quest’ultima stanza, oppure... » ebbe una esclamazione: « Per le sette chiese di Clonmacnois! Non hai notato nulla? »

« Cosa? »

« Torniamo indietro, alla stanza S da cui siamo partiti! »

Tornammo alla prima stanza cieca dove il versetto diceva: « Super thronos viginti quatuor ». Essa aveva quattro aperture. Una dava sulla stanza Y, con finestra sull’ottagono. L’altra dava sulla stanza P che continuava, lungo la facciata esterna, la sequenza YSPANIA. Quella verso il torrione immetteva nella stanza E che avevamo appena percorso. Poi c’era una parete piena e infine un’apertura che immetteva in una seconda stanza cieca con l’iniziale U. La stanza S era quella dello specchio, e fortuna che esso si trovava sulla parete immediatamente alla mia destra, altrimenti di nuovo sarei stato preso da paura.

Guardando bene la mappa mi resi conto della singolarità di quella stanza. Come tutte le altre stanze cieche degli altri tre torrioni avrebbe dovuto immettere alla stanza eptagonale centrale. Se non lo faceva, l’ingresso all’eptagono avrebbe dovuto aprirsi nella stanza cieca adiacente, la U. Invece questa, che immetteva per un’apertura a una stanza T con finestra sull’ottagono interno, e per l’altra si collegava alla stanza S, aveva le altre tre pareti piene e occupate da armadi. Guardandoci intorno rilevammo quello che ormai era evidente anche dalla mappa: per ragioni di logica oltre che di rigorosa simmetria, quel torrione doveva avere la sua stanza eptagonale, ma essa non c’era.

« Non c’è, » dissi.

« Non è che non ci sia. Se non ci fosse, le altre stanze sarebbero più grandi, mentre sono più o meno del formato di quelle degli altri lati. C’è, ma non ci si arriva. »

« E’ murata? »

« Probabilmente. Ed ecco il finis Africae, ecco il luogo intorno a cui si aggiravano quei curiosi che sono morti. E’ murata, ma non è detto che non vi sia un passaggio. Anzi, sicuramente c’è, e Venanzio lo aveva trovato, o ne aveva avuto la descrizione da Adelmo, e questi da Berengario. Rileggiamo i suoi appunti. »

Trasse dal saio la carta di Venanzio e rilesse: « La mano sopra l’idolo opera sul primo e sul settimo dei quattro. » Si guardò intorno: « Ma certo! L’idolum è l’immagine dello specchio! Venanzio pensava in greco e in quella lingua, più ancora che nella nostra, ’eidolon’ è sia immagine che spettro, e lo specchio ci rinvia la nostra immagine deformata che noi stessi, l’altra notte, abbiamo scambiato con uno spettro! Ma cosa saranno allora i quattro ’supra speculum’? Qualcosa sopra la superficie riflettente? Ma allora dovremmo porci da un certo punto di vista in modo da poter scorgere qualcosa che si riflette nello specchio e che corrisponde alla descrizione data da Venanzio... »

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