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Il nome della rosa


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« E voi sarete in grado, da queste poche righe, di capire di quale libro si tratta? »

« Caro Adso, queste sembrano le parole di un testo sacro, il cui significato va al di là della lettera. Leggendole stamattina, dopo che avevamo parlato con il cellario, mi ha colpito il fatto che anche qui si fa cenno ai semplici e ai contadini, come portatori di una verità diversa da quella dei saggi. Il cellario ha lasciato capire che qualche strana complicità lo legava a Malachia. Che Malachia avesse nascosto qualche pericoloso testo ereticale che Remigio gli aveva consegnato? Allora Venanzio avrebbe letto e annotato qualche misteriosa istruzione concernente una comunità di uomini rozzi e vili in rivolta contro tutto e tutti. Ma... »

« Ma? »

« Ma due fatti stanno contro questa mia ipotesi. L’uno è che Venanzio non pareva interessato a tali questioni: era un traduttore di testi greci, non un predicatore di eresie... L’altro è che frasi come quelle dei fichi, della pietra o delle cicale non verrebbero spiegate da questa prima ipotesi... »



« Forse sono enigmi con un altro significato, » suggerii. « Oppure avete un’altra ipotesi? »

« Ce l’ho, ma è ancora confusa. Mi pare, leggendo questa pagina, di avere già letto alcune di queste parole, e mi tornano alla mente frasi quasi simili che ho visto altrove. Mi pare anzi che questo foglio parli di qualcosa di cui si è già parlato nei giorni scorsi... Ma non ricordo cosa. Devo pensarci su. Forse dovrò leggere altri libri. »

« Come mai? Per sapere cosa dice un libro ne dovete leggere altri?

« Talora si può fare così. Spesso i libri parlano di altri libri. Spesso un libro innocuo è come un seme, che fiorirà in un libro pericoloso, o all’inverso, è il frutto dolce di una radice amara. Non potresti, leggendo Alberto, sapere cosa avrebbe potuto dire Tommaso? o leggendo Tommaso sapere cosa avesse detto Averroè? »

« E’ vero, » dissi ammirato. Sino ad allora avevo pensato che ogni libro parlasse delle cose, umane o divine, che stanno fuori dai libri. Ora mi avvedevo che non di rado i libri parlano di libri, ovvero è come si parlassero fra loro. Alla luce di questa riflessione, la biblioteca mi parve ancora più inquietante. Era dunque il luogo di un lungo e secolare sussurro, di un dialogo impercettibile tra pergamena e pergamena, una cosa viva, un ricettacolo di potenze non dominabili da una mente umana, tesoro di segreti emanati da tante menti, e sopravvissuti alla morte di coloro che li avevano prodotti, o se ne erano fatti tramite.

« Ma allora, » dissi « a che serve nascondere i libri, se dai libri palesi si può risalire a quelli occulti? »

« Sull’arco dei secoli non serve a nulla. Sull’arco degli anni e dei giorni serve a qualcosa. Vedi infatti come noi ci troviamo smarriti. »

« E quindi una biblioteca non è uno strumento per distribuire la verità, ma per ritardarne l’apparizione? » chiesi stupito.

« Non sempre e non necessariamente. In questo caso lo è. »

Sesta.


Dove Adso va a cercar tartufi e trova i minoriti in arrivo, questi colloquiano a lungo con Guglielmo e Ubertino e si apprendono cose molto tristi su Giovanni Ventiduesimo.
Dopo queste considerazioni il mio maestro decise di non fare più nulla. Ho già detto che aveva talvolta di questi momenti di totale mancanza di attività, come se il ciclo incessante degli astri si fosse arrestato, ed egli con esso e con essi. Così fece quel mattino. Si distese sul pagliericcio con gli occhi aperti nel vuoto e le mani incrociate sul petto, muovendo appena le labbra come se recitasse una preghiera, ma in modo irregolare e senza devozione.

Pensai che pensasse, e risolsi di rispettare la sua meditazione. Tornai nella corte e vidi che il sole si era affievolito. Da bella e limpida che era, la mattinata (mentre il giorno stava avviandosi a consumare la sua prima metà) stava diventando umida e brumosa. Grosse nuvole muovevano da mezzanotte e stavano invadendo la sommità del pianoro coprendola di una caligine leggera. Pareva nebbia, e forse nebbia saliva anche da terra, ma a quella altezza era difficile distinguere le brume che venivano dal basso da quelle che scendevano dall’alto. Si incominciava a distinguere a fatica la mole degli edifici più lontani.

Vidi Severino che radunava i porcai e alcuni dei loro animali, con allegria. Mi disse che andavano lungo le falde del monte, e a valle, a cercare i tartufi. Io non conoscevo ancora quel frutto prelibato del sottobosco che cresceva in quella penisola, e sembrava tipico delle terre benedettine, vuoi a Norcia — nero — vuoi in quelle terre — più bianco e profumato. Severino mi spiegò cosa fosse, e quanto fosse gustoso, preparato nei modi più vari. E mi disse che era difficilissimo da trovare, perché si nascondeva sotto la terra, più segreto di un fungo, e gli unici animali capaci di scovarlo seguendo il loro olfatto erano i porci. Salvo che, come lo trovavano, volevano divorarselo, e bisognava subito allontanarli e intervenire a dissotterrarlo. Seppi più avanti che molti gentiluomini non sdegnavano darsi a quella caccia, seguendo i porci come fossero segugi nobilissimi, e seguiti a loro volta dai servi con le zappe. Ricordo anzi che più avanti negli anni un signore dei miei paesi sapendo che conoscevo l’Italia, mi chiese come mai aveva visto laggiù dei signori andare a pascolare i maiali, e io risi comprendendo che invece andavano in cerca di tartufi. Ma come io dissi a colui che questi signori ambivano a ritrovare il « tar-tufo » sotto la terra per poi mangiarselo, quello capì che io dicessi che cercavano « der Teufel », ovvero il diavolo, e si segnò devotamente guardandomi sbalordito. Poi l’equivoco si sciolse e ne ridemmo entrambi. Tale è la magìa delle umane favelle, che per umano accordo significano spesso, con suoni eguali, cose diverse.

Incuriosito dai preparativi di Severino risolsi di seguirlo, anche perché compresi che egli si dava a quella cerca per dimenticare le tristi vicende che opprimevano tutti; e io pensai che aiutando lui a dimenticare i suoi pensieri avrei forse, se non scordato, almeno tenuto a freno i miei. Né nascondo, poiché ho deciso di scrivere sempre e solo la verità, che segretamente mi seduceva l’idea che, disceso a valle, avrei forse potuto intravvedere qualcuno di cui non dico. Ma a me stesso e quasi ad alta voce asserii invece che, siccome per quel giorno si attendeva l’arrivo delle due legazioni, avrei forse potuto avvistarne una.

Man mano che si scendevano i tornanti del monte, l’aria si schiariva; non che tornasse il sole, ché la parte superiore del cielo era gravata dalle nuvole, ma le cose si distinguevano nettamente, perché la nebbia rimaneva sopra le nostre teste. Anzi, scesi che fummo di molto, mi voltai a guardare la cima del monte, e non vidi più nulla: da metà della salita in avanti, la sommità del colle, il pianoro, l’Edificio, tutto, scomparivano tra le nubi.

Il mattino del nostro arrivo, quando già eravamo tra i monti, a certi tornanti, era ancora possibile scorgere, a non più di dieci miglia e forse meno, il mare. Il nostro viaggio era stato ricco di sorprese, perché d’un tratto ci si trovava come su di una terrazza montana che dava a picco su golfi bellissimi, e dopo non molto si penetrava in gole profonde, dove montagne si elevavano tra le montagne, e l’una ottundeva all’altra la vista della costa lontana, mentre il sole penetrava a fatica in fondo alle valli. Mai come in quel luogo d’Italia avevo visto così strette e repentine interpenetrazioni di mare e monti, di litorali e paesaggi alpini, e nel vento che sibilava tra le gole si poteva intendere l’alterna lotta dei balsami marini e dei gelidi soffi rupestri.

Quel mattino invece tutto era grigio, e quasi bianco latte, e non v’erano orizzonti anche quando le gole si aprivano verso le coste lontane. Ma mi attardo in ricordi di poco interesse ai fini della vicenda che ci affanna, mio paziente lettore. Così non dirò delle alterne vicende della nostra ricerca dei « derteufel ». E dirò piuttosto della legazione dei frati minori, che avvistai per primo, correndo subito verso il monastero per avvertire Guglielmo.

Il mio maestro lasciò che i nuovi arrivati entrassero e fossero salutati dall’Abate secondo il rito. Poi andò incontro al gruppo e fu una sequenza di abbracci e di saluti fraterni.

Era già trascorsa l’ora della mensa, ma una tavola era stata imbandita per gli ospiti e l’Abate ebbe la finezza di lasciarli tra loro, e soli con Guglielmo, sottratti ai doveri della regola, liberi di nutrirsi e di scambiare al tempo stesso le loro impressioni: dato che infine si trattava, Dio mi perdoni la sgradita similitudine, come di un consiglio di guerra, da tenersi al più presto prima che arrivasse l’oste nemica, e cioè la legazione avignonese.

Inutile dire che i nuovi venuti si incontrarono subito anche con Ubertino, che tutti salutarono con la sorpresa, la gioia e la venerazione che erano dovute e alla sua lunga assenza, e ai timori che avevano circondato la sua scomparsa, e alle qualità di quel coraggioso guerriero che da decenni aveva già combattuto la loro stessa battaglia.

Dei frati che componevano il gruppo dirò poi parlando della riunione del giorno dopo. Anche perché io parlai pochissimo con loro, preso come ero dal consiglio a tre che si stabilì immantinenti tra Guglielmo, Ubertino e Michele da Cesena.

Michele doveva essere un ben strano uomo: ardentissimo nella sua passione francescana (aveva talora i gesti, gli accenti di Ubertino nei suoi momenti di rapimento mistico); molto umano e gioviale nella sua terrestre natura di uomo delle Romagne, capace di apprezzare la buona tavola e felice di ritrovarsi con gli amici; sottile ed evasivo, di colpo diventando accorto e abile come una volpe, sornione come una talpa, quando si sfioravano problemi di rapporti tra i potenti; capace di grandi risate, di fervide tensioni, di eloquenti silenzi, abile nel distogliere lo sguardo dall’interlocutore quando la domanda di quello richiedeva di mascherare, con la distrazione, il rifiuto della risposta.

Di lui ho già detto qualcosa nelle pagine precedenti. ed erano cose che avevo sentito dire, forse da persone a cui erano state dette. Ora invece capivo meglio molti dei suoi atteggiamenti contraddittori e dei repentini mutamenti di disegno politico con cui negli ultimi anni aveva stupito i suoi stessi amici e seguaci. Ministro generale dell’ordine dei frati minori, era in principio l’erede di san Francesco, di fatto l’erede dei suoi interpreti: doveva competere con la santità e la saggezza di un predecessore come Bonaventura da Bagnoregio, doveva garantire il rispetto della regola ma al tempo stesso le fortune dell’ordine, così potente e vasto, doveva prestare orecchio alle corti e alle magistrature cittadine da cui l’ordine traeva, sia pure sotto forma di elemosine, doni e lasciti, motivo di prosperità e ricchezza; e doveva nel contempo badare che il bisogno di penitenza non trascinasse fuori dall’ordine gli spirituali più accesi, disciogliendo quella splendida comunità, di cui era a capo, in una costellazione di bande d’eretici. Doveva piacere al papa, all’impero, ai frati di povera vita, a san Francesco che certo lo sorvegliava dal cielo, al popolo cristiano che lo sorvegliava da terra. Quando Giovanni aveva condannato tutti gli spirituali come eretici, Michele non aveva esitato a consegnargli cinque tra i più riottosi frati di Provenza, lasciando che il pontefice li mandasse al rogo. Ma avvertendo (e non doveva essere stata estranea l’azione di Ubertino) che molti nell’ordine simpatizzavano per i seguaci della semplicità evangelica, aveva appunto agito in modo che il capitolo di Perugia, quattro anni dopo, facesse proprie le istanze dei bruciati. Naturalmente cercando di riassorbire un bisogno, che poteva essere ereticale, nei modi e nelle istituzioni dell’ordine, e volendo che ciò che l’ordine ora voleva fosse voluto anche dal papa. Ma, mentre attendeva di convincere il papa, senza il cui consenso non avrebbe voluto procedere, non aveva disdegnato di accettare i favori dell’imperatore e dei teologi imperiali. Ancora due anni prima del giorno in cui lo vidi aveva ingiunto ai suoi frati, nel capitolo generale di Lione, di parlare della persona del papa solo con moderazione e rispetto (e questo pochi mesi dopo che il papa aveva parlato dei minoriti protestando contro « i loro latrati, i loro errori e le loro insanie »). Ma ora era a tavola, amicissimo, con persone che del papa parlavano con rispetto meno che nullo.

Del resto ho già detto. Giovanni lo voleva ad Avignone, egli voleva e non voleva andare, e l’incontro del giorno dopo avrebbe dovuto decidere sui modi e sulle garanzie di un viaggio che non avrebbe dovuto apparire come un atto di sottomissione ma neppure come un atto di sfida. Non credo che Michele avesse mai incontrato di persona Giovanni, almeno da che era papa. In ogni caso non lo vedeva da tempo, e i suoi amici si affrettavano a dipingergli a tinte molto scure la figura di quel simoniaco.

« Una cosa dovrai imparare, » gli diceva Guglielmo, « a non fidarti dei suoi giuramenti, che egli mantiene sempre alla lettera, violandoli nella sostanza. »

« Tutti sanno, » diceva Ubertino, « cosa accadde ai tempi della sua elezione... »

« Non la chiamerei elezione, bensì imposizione! » intervenne un commensale, che sentii poi chiamare come Ugo da Novocastro, dall’accento affine a quello del mio maestro. « Intanto già la morte di Clemente Quinto non è mai stata molto chiara. Il re non gli aveva più perdonato di aver promesso di processare la memoria di Bonifacio Ottavo, e poi di aver fatto di tutto per non sconfessare il suo predecessore. Come sia morto a Carpentras, nessuno sa bene. Fatto sta che quando i cardinali convengono a Carpentras per il conclave, il nuovo papa non viene fuori, perché (e giustamente) la disputa si sposta sulla scelta tra Avignone e Roma. Non so bene cosa sia successo in quei giorni, un massacro mi dicono, coi cardinali minacciati dal nipote del papa morto, i loro servi trucidati, il palazzo dato alle fiamme, i cardinali che si appellano al re, questi che dice che non ha mai voluto che il papa disertasse Roma, che pazientino, e facciano una buona scelta... Poi Filippo il Bello muore, anche lui Dio sa come... »

« O lo sa il diavolo, » disse segnandosi, imitato da tutti, Ubertino.

« O lo sa il diavolo, » ammise Ugo con un sogghigno. « Insomma, succede un altro re, sopravvive diciotto mesi, muore, muore in pochi giorni anche il suo erede appena nato, suo fratello il reggente prende il trono... »

« Ed è proprio questo Filippo Quinto che, quando era ancora conte di Poitiers, aveva rimesso insieme i cardinali che fuggivano da Carpentras, » disse Michele.

« Infatti, » continuò Ugo, « li rimette in conclave a Lione nel convento dei domenicani, giurando di difendere la loro incolumità e di non tenerli prigionieri. Però appena quelli si mettono alla sua mercé, non solo li fa rinchiudere a chiave (che sarebbe poi la giusta usanza) ma gli diminuisce i cibi di giorno in giorno sino a che non abbiano preso una decisione. E a ciascuno promette di sostenerlo nelle sue pretese al soglio. Quando poi prende il trono, i cardinali, stanchi di essere prigionieri da due anni, per timore di rimanere lì anche tutta la vita, mangiando malissimo, accettano tutto, i ghiottoni, mettendo sulla cattedra di Pietro quello gnomo ultrasettantenne... »

« Gnomo certo sì, » rise Ubertino, « e di aspetto tisicuzzo, ma più robusto e più astuto di quanto si credesse! »

« Figlio di calzolaio, » bofonchiò uno dei legati.

« Cristo era figlio di falegname! » lo rampognò Ubertino. « Non è questo il fatto. E’ un uomo colto, ha studiato legge a Montpellier e medicina a Parigi, ha saputo coltivare le sue amicizie nei modi più acconci per avere e i seggi episcopali e il cappello cardinalizio quando gli pareva opportuno, e quando è stato consigliere di Roberto il Savio a Napoli ha sbalordito molti per il suo acume. E come vescovo di Avignone ha dato tutti i consigli giusti (giusti, dico, ai fini di quella squallida impresa) a Filippo il Bello per rovinare i Templari. E dopo l’elezione è riuscito a sfuggire a un complotto di cardinali che volevano ucciderlo... Ma non è di questo che volevo dire, parlavo della sua abilità nel tradire i giuramenti senza poter essere incolpato di spergiuro. Quando fu eletto, e per essere eletto, ha promesso al cardinale Orsini che avrebbe riportato il seggio pontificio a Roma, e ha giurato sull’ostia consacrata che se non avesse mantenuto la sua promessa non sarebbe mai più salito su di un cavallo o su di un mulo. Ebbene sapete cosa ha fatto quella volpe? Quando si è fatto incoronare a Lione (contro la volontà del re, che voleva che la cerimonia avvenisse ad Avignone) ha viaggiato poi da Lione ad Avignone in battello! »

I frati risero tutti. Il papa era uno spergiuro, ma non gli si poteva negare un certo ingegno.

« E’ uno spudorato, » commentò Guglielmo. « Ugo non ha detto che non tentò neppure di nascondere la sua mala fede? Non mi hai raccontato tu Ubertino di ciò che ha detto all’Orsini il giorno del suo arrivo ad Avignone? »

« Certo, » disse Ubertino, « gli disse che il cielo di Francia era così bello che non vedeva perché dovesse mettere piede in una città piena di rovine come Roma. E che siccome il papa, come Pietro, aveva il potere di legare e di sciogliere, lui questo potere ora esercitava, e decideva di rimanere lì dove era e dove stava così bene. E come l’Orsini cercò di ricordargli che il suo dovere era di vivere sul colle vaticano, lo richiamò seccamente all’obbedienza, e troncò la discussione. Ma non è finita la storia del giuramento. Quando scese dal battello avrebbe dovuto montare una cavalla bianca, seguito dai cardinali su cavalli neri, come vuole la tradizione. E invece è andato a piedi al palazzo episcopale. Né mi risulta che davvero sia mai più montato a cavallo. E da quest’uomo, Michele, tu ti attendi che tenga fede alle garanzie che ti darà? »

Michele stette a lungo in silenzio. Poi disse: « Posso capire il desiderio del papa di rimanere ad Avignone, e non lo discuto. Ma lui non potrà discutere il nostro desiderio di povertà e la nostra interpretazione dell’esempio di Cristo. »

« Non essere ingenuo, Michele, » intervenne Guglielmo, « il vostro, il nostro desiderio, fa apparire in una luce sinistra il suo. Devi renderti conto che da secoli non era mai asceso sul trono pontificio un uomo più avido. Le meretrici di Babilonia contro cui tuonava un tempo il nostro Ubertino, i papi corrotti di cui parlavano i poeti del tuo paese come quell’Alighieri, erano agnelli mansueti e sobrii in confronto di Giovanni. E’ una gazza ladra, un usuraio ebreo, ad Avignone si fanno più traffici che a Firenze! Ho saputo della ignobile transazione col nipote di Clemente, Bertrand de Goth, quello del massacro di Carpentras (in cui tra l’altro i cardinali furono alleggeriti di tutti i loro gioielli): costui aveva messo le mani sul tesoro dello zio, che non era da poco, e a Giovanni non era sfuggito nulla di ciò che aveva rubato (nella « Cum venerabiles » elenca con precisione le monete, i vasi d’oro e d’argento, i libri, i tappeti, le pietre preziose, gli ornamenti...). Giovanni però finse di ignorare che Bertrand aveva messo le mani su più di un milione e mezzo di fiorini d’oro durante il sacco di Carpentras, e discusse di altri trentamila fiorini, che Bertrand confessava di aver avuto dallo zio per ’un proposito pio’, e cioè per una crociata. Si stabilì che Bertrand avrebbe trattenuto metà della somma per la crociata e l’altra metà sarebbe andata al soglio pontificio. Poi Bertrand non fece mai la crociata, o almeno non l’ha ancora fatta, e il papa non ha visto un fiorino... »

« Non è poi così abile, allora, » osservò Michele.

« E’ l’unica volta che si è fatto giocare in materia di danaro, » disse Ubertino. « Devi sapere bene con che razza di mercante tu abbia a che fare. In tutti gli altri casi ha mostrato una abilità diabolica nel raccogliere danaro. E’ un re Mida, quello che tocca diventa oro che affluisce nelle casse di Avignone. Ogni volta che sono entrato nei suoi appartamenti ho trovato banchieri, cambiatori di moneta, e tavole cariche d’oro, e chierici che contavano e impilavano fiorini gli uni sugli altri... E vedrai che palazzo si è fatto costruire, con ricchezze che un tempo si attribuivano solo all’imperatore di Bisanzio o al Gran Cane dei tartari. E adesso capisci perché ha emanato tutte quelle bolle contro l’idea della povertà. Ma lo sai che ha spinto i domenicani, in odio al nostro ordine, a scolpire statue di Cristo con la corona reale, la tunica di porpora e d’oro e calzari sontuosi? Ad Avignone sono stati esposti crocifissi con Gesù inchiodato per una sola mano, mentre con l’altra tocca una borsa appesa alla sua cintura, per indicare che Egli autorizza l’uso del danaro per fini di religione... »

« Oh lo spudorato! » esclamò Michele. « Ma questa è pura bestemmia! »

« Ha aggiunto, » continuò Guglielmo, « una terza corona alla tiara papale, non è vero Ubertino? »

« Certo. All’inizio del millennio papa Ildebrando ne aveva assunta una, con la scritta « Corona regni de manu Dei », l’infame Bonifacio ne aveva aggiunta di recente una seconda, scrivendovi « Diadema imperii de manu Petri », e Giovanni non ha fatto altro che perfezionare il simbolo: tre corone, il potere spirituale, quello temporale e quello ecclesiastico. Un simbolo dei re persiani, un simbolo pagano... »

C’era un frate che sino ad allora era rimasto in silenzio, occupato con molta devozione a ingoiare i buoni cibi che l’Abate aveva fatto portare in tavola. Porgeva un orecchio distratto ai vari discorsi, emettendo ogni tanto un riso sarcastico all’indirizzo del pontefice, o un grugnito di approvazione alle interiezioni di sdegno dei commensali. Ma per il resto badava a pulirsi il mento dei sughi e dei pezzi di carne che lasciava cadere dalla bocca sdentata ma vorace, e le uniche volte che aveva rivolto la parola a uno dei suoi vicini era stato per lodare la bontà di una qualche leccornia. Seppi poi che era messer Girolamo, quel vescovo di Caffa che Ubertino giorni prima credeva ormai defunto (e debbo dire che quell’idea che fosse morto da due anni circolò come notizia vera per tutta la cristianità per molto tempo, perché l’udii anche dopo; e in effetti morì pochi mesi dopo quel nostro incontro, e continuo a pensare che fosse deceduto per la gran rabbia che la riunione del giorno dopo gli avrebbe messo in corpo, che quasi avrei creduto schiattasse subito e immediatamente, tanto era fragile di corpo e bilioso di umore).

S’intromise a quel punto nel discorso, parlando con la bocca piena: « E poi sapete che l’infame ha elaborato una costituzione sulle « taxae sacrae poenitentiariae » dove specula sui peccati dei religiosi per trarne altro danaro. Se un ecclesiastico commette peccato carnale, con una monaca, con una parente, o anche con una donna qualsiasi (perché succede anche questo!) potrà essere assolto solo pagando sessantasette lire d’oro e dodici soldi. E se commette bestialità, saranno più di duecento lire, ma se l’ha commessa solo con fanciulli o animali, e non con femmine, la ammenda sarà ridotta di cento lire. E una monaca che si sia data a molti uomini, sia insieme che in momenti diversi, fuori o dentro il convento, e poi vuole diventare abbadessa, dovrà pagare centotrentun lire d’oro e quindici soldi... »

« Andiamo messer Girolamo, » protestò Ubertino, « sapete quanto poco ami il papa, ma su questo devo difenderlo! E’ una calunnia messa in giro ad Avignone, non ho mai visto questa costituzione! »

« C’è, » affermò vigorosamente Girolamo. « Neppure io l’ho vista, ma c’è. »

Ubertino scosse la testa e gli altri tacquero. Mi avvidi che erano abituati a non prendere troppo sul serio messer Girolamo, che l’altro giorno Guglielmo aveva definito uno sciocco. Guglielmo in ogni caso cercò di riprendere la conversazione: « In ogni caso, vero o falso che sia, questa voce ci dice di quale sia il clima morale di Avignone, dove chiunque, sfruttati e sfruttatori, sanno di vivere più in un mercato che nella corte di un rappresentante di Cristo. Quando Giovanni è salito in trono si parlava di un tesoro di settantamila fiorini d’oro, e ora c’è chi dice che ne abbia ammassati più di dieci milioni. »

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