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Il nome della rosa


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Fu immesso in tali sensazioni di inenarrabile gaudio interiore, che mi assopii.
Riaprii gli occhi alquanto dopo e la luce della notte, forse a causa di una nube, si era molto affievolita. Allungai la mano al mio fianco e non sentii più il corpo della fanciulla. Volsi il capo: non c’era più.

L’assenza dell’oggetto che aveva scatenato il mio desiderio e saziata la mia sete, mi fece avvertire di un tratto e la vanità di quel desiderio e la perversità di quella sete. Omne animal triste post coitum. Presi coscienza del fatto che avevo peccato. Ora, dopo anni e anni di distanza, mentre ancora piango amaramente il mio fallo, non posso dimenticare che quella sera io avevo provato grande gaudio e farei torto all’Altissimo, che ha creato tutte le cose in bontà e bellezza, se non ammettessi che anche in quella vicenda di due peccatori avvenne qualcosa che in sé, naturaliter, era buono e bello. Ma forse è la mia vecchiezza attuale, che mi fa sentire colpevolmente come bello e buono tutto ciò che fu della mia giovinezza. Mentre dovrei volgere il mio pensiero alla morte, che si appressa. Allora, giovane, non pensai alla morte, ma vivacemente e sinceramente, piansi per il mio peccato.

Mi alzai tremando, anche perché ero stato a lungo sulle pietre gelide della cucina e il corpo mi si era intirizzito. Mi rivestii, quasi febbricitando. Scorsi allora in un canto l’involto che la ragazza aveva abbandonato nel fuggire. Mi chinai a esaminare l’oggetto: era una sorta di pacco fatto di tela arrotolata, che sembrava venire dalle cucine. Lo svolsi, e sul momento non capii cosa vi fosse dentro, sia a causa della poca luce che della forma informe del suo contenuto. Poi compresi: tra grumi di sangue e brandelli di carne più flaccida e biancastra, stava davanti ai miei occhi, morto ma ancora palpitante della vita gelatinosa delle viscere morte, solcato da nervature livide, un cuore, di grandi dimensioni.

Un velo oscuro mi scese sugli occhi, una saliva acidula mi salì alla bocca. Lanciai un urlo e caddi come cade un corpo morto.

Notte.

Dove Adso sconvolto si confessa con Guglielmo e medita sulla funzione della donna nel piano della creazione, poi però scopre il cadavere di un uomo.


Mi riebbi che qualcuno mi bagnava il volto. Era frate Guglielmo, che recava un lume, e mi aveva messo qualcosa sotto il capo.

« Cosa è successo, Adso, » mi chiese, « che giri di notte a rubar frattaglie in cucina? »

In breve, Guglielmo si era svegliato, mi aveva cercato non so più per quale ragione, non trovandomi aveva sospettato che fossi andato a far qualche bravata in biblioteca. Avvicinandosi all’Edificio dalla parte della cucina, aveva visto un’ombra che usciva dalla porta verso l’orto (era la ragazza che si stava allontanando, forse perché aveva udito qualcuno che si appressava). Aveva cercato di capire chi fosse e di seguirla, ma essa (ovvero quella che per lui era un’ombra) si era allontanata verso il muro di cinta e poi era scomparsa. Allora Guglielmo — dopo un’esplorazione nei dintorni — era entrato nella cucina e lì mi aveva trovato svenuto.

Quando gli accennai, ancora terrorizzato, all’involto col cuore, farfugliando di un nuovo delitto, si mise a ridere: « Adso, ma quale uomo avrebbe un cuore così grosso? E’ un cuore di vacca, o di bue, hanno giusto ammazzato un animale quest’oggi! Piuttosto, come si trova tra le tue mani? »

A quel punto, oppresso dai rimorsi, oltre che stordito dalla gran paura, scoppiai in un pianto dirotto e chiesi che mi amministrasse il sacramento della confessione. Il che fece, e io gli raccontai tutto senza celargli nulla.

Frate Guglielmo mi ascoltò con grande serietà, ma con un’ombra di indulgenza. Quando ebbi finito si fece serio in viso e mi disse:

« Adso, tu hai peccato, è certo, e contro il comandamento che ti impone di non fornicare, e contro i tuoi doveri di novizio. A tua discolpa, sta il fatto che ti sei trovato in una di quelle situazioni in cui si sarebbe dannato anche un padre nel deserto. E sulla donna come fomite di tentazione hanno già parlato abbastanza le scritture. Della donna dice l’Ecclesiaste che la sua conversazione è come fuoco ardente, e i Proverbi dicono che essa s’impadronisce dell’anima preziosa dell’uomo e i più forti sono stati rovinati da essa. E dice ancora l’Ecclesiaste: scoprii che più amara della morte è la donna, che è come il laccio dei cacciatori, il suo cuore è come una rete, le sue mani sono funi. E altri hanno detto che essa è vascello del demonio. Questo appurato, caro Adso, io non riesco a convincermi che Dio abbia voluto introdurre nella creazione un essere così immondo senza dotarlo di qualche virtù. E non posso non riflettere sul fatto che Egli le ha concesso molti privilegi e motivi di pregio, di cui tre almeno grandissimi. Infatti ha creato l’uomo in questo mondo vile, e dal fango, e la donna in un secondo tempo, in paradiso e da nobile umana materia. E non l’ha formata dai piedi o dalle interiora del corpo di Adamo, ma dalla costola. In secondo luogo il Signore, che può tutto, avrebbe potuto incarnarsi direttamente in un uomo in qualche modo miracoloso, e scelse invece di abitare nel ventre di una donna, segno che non era così immonda. E quando apparve dopo la resurrezione, apparve a una donna. E infine, nella gloria celeste nessun uomo sarà re in quella patria, e ne sarà invece regina una donna che non ha mai peccato. Se dunque il Signore ha avuto tante attenzioni per Eva stessa e per le sue figlie, è così anormale che anche noi ci sentiamo attratti dalle grazie e dalla nobiltà di quel sesso? Quello che voglio dirti, Adso, è che certo non devi farlo più, ma che non è così mostruoso che tu sia stato tentato di farlo. E d’altra parte che un monaco, almeno una volta nella sua vita, abbia avuto esperienza della passione carnale, in modo da poter essere un giorno indulgente e comprensivo coi peccatori a cui darà consiglio e conforto... ebbene, caro Adso, è cosa da non auspicare prima che avvenga, ma neppure da vituperare troppo dopo che sia avvenuta. E quindi va con Dio e non parliamone più. Ma piuttosto, per non stare a meditare troppo su qualcosa che sarà meglio dimenticare, se ci riuscirai, » e mi parve che a questo punto la sua voce si affievolisse come per qualche interna commozione, « chiediamoci piuttosto il senso di quanto è accaduto questa notte. Chi era questa ragazza e con chi aveva convegno? »

« Questo proprio non lo so, e non ho visto l’uomo che era con lei, » dissi.

« Bene, ma possiamo dedurre chi fosse da molti certissimi indizi. Anzitutto era un uomo brutto e vecchio, con cui una fanciulla non va volentieri, specie se è bella come tu la dici, anche se mi pare, caro il mio lupacchiotto, che tu fossi propenso a trovare squisito ogni cibo. »

« Perché brutto e vecchio? »

« Perché la fanciulla non andava da lui per amore, ma per un pacco di rognoni. Certamente era una ragazza del villaggio che, forse non per la prima volta, si concede a qualche monaco lussurioso per fame, e ne ha come guiderdone qualcosa da mettere sotto i denti lei e la sua famiglia. »

« Una meretrice! » dissi inorridito.

« Una contadina povera, Adso. Magari coi fratellini da nutrire. E che, potendo, si darebbe per amore e non per lucro. Come ha fatto stasera. Infatti mi dici che ti ha trovato giovane e bello, e ti ha dato gratis e per amor tuo ciò che ad altri avrebbe dato invece per un cuore di bue e qualche pezzo di polmone. E si è sentita così virtuosa per il dono gratuito che ha fatto di sé, e sollevata, che è fuggita senza prendere nulla in cambio. Ecco perché penso che l’altro, al quale ti ha comparato, non fosse né giovane né bello. »

Confesso che, benché il mio pentimento fosse vivissimo, quella spiegazione mi riempì di dolcissimo orgoglio, ma tacqui e lasciai continuare il mio maestro.

« Questo vecchiaccio brutto doveva avere la possibilità di scendere al villaggio e aver contatti coi contadini, per qualche motivo connesso al suo ufficio. Doveva conoscere il modo di fare entrare e uscire gente dalla cinta, e sapere che in cucina ci sarebbero state quelle frattaglie (e magari domani si sarebbe detto che, la porta restata aperta, un cane era entrato e se le era mangiate). E infine doveva avere un certo senso dell’economia, e un certo interesse a che la cucina non fosse deprivata di derrate più preziose, altrimenti le avrebbe dato una bistecca o un’altra parte più prelibata. E allora vedi che l’immagine del nostro sconosciuto si disegna con molta chiarezza e che tutte queste proprietà, o accidenti, ben si convengono a una sostanza che non avrei timore di definire come il nostro cellario, Remigio da Varagine. O, se mi sbagliassi, come il nostro misterioso Salvatore. Il quale tra l’altro, essendo di queste parti, sa parlare assai bene con le genti del posto e sa come convincere una fanciulla a fare quel che voleva farle fare, se tu non fossi arrivato.

« E’ certo così, » dissi convinto, « ma cosa ci serve ora saperlo? »

« Niente. E tutto, » disse Guglielmo. « La storia può avere o non avere a che fare coi delitti di cui ci occupiamo. D’altra parte se il cellario è stato dolciniano, questo spiega quello e viceversa. E sappiamo ora infine che questa abbazia, di notte, è luogo di molte ed errabonde vicende. E chissà che il nostro cellario, o Salvatore, che la percorrono al buio con tanta disinvoltura, non sappiano in ogni caso più cose di quelle che non dicono.

« Ma le diranno a noi? »

« No, se ci comporteremo in modo compassionevole, ignorando i loro peccati. Ma se proprio dovessimo sapere qualcosa, avremmo in mano un modo di persuaderli a parlare. In altre parole, se ce ne sarà bisogno, il cellario o Salvatore sono nostri, e Dio ci perdonerà questa prevaricazione, visto che perdona tante altre cose, » disse, e mi guardò con malizia, né io ebbi animo di fare osservazioni sulla liceità di quei suoi propositi.

« Ed ora dovremmo andare a letto, perché tra un’ora è mattutino. Ma ti vedo ancora agitato, mio povero Adso, ancora timoroso del tuo peccato... Non c’è nulla come una buona sosta in chiesa per distenderti l’animo. Io ti ho assolto, ma non si sa mai. Vai a chiedere conferma al Signore. » E mi diede una manata piuttosto energica sul capo, forse come prova di paterno e virile affetto, forse come indulgente penitenza. O forse (come colpevolmente pensai in quel momento) per una sorta di bonaria invidia, da uomo assetato di esperienze nuove e vivaci come era.

Ci avviammo verso la chiesa, uscendo per la nostra via consueta, che percorsi in fretta chiudendo gli occhi, perché tutte quelle ossa mi ricordavano con troppa evidenza, quella notte, come anch’io fossi polvere e quanto dissennato fosse stato l’orgoglio della mia carne.

Giunti nella navata vedemmo un’ombra davanti all’altar maggiore. Credevo fosse ancora Ubertino. Invece era Alinardo, che a tutta prima non ci riconobbe. Disse che ormai era incapace di dormire, e aveva deciso di passare la notte pregando per quel giovane monaco scomparso (non ne ricordava neppure il nome). Pregava per la sua anima, se fosse morto, per il suo corpo, se giacesse infermo e solo da qualche parte.

« Troppi morti, » disse, « troppi morti... Ma era scritto nel libro dell’apostolo. Con la prima tromba venne la grandine, con la seconda la terza parte del mare divenne sangue, e uno lo avete trovato nella grandine, l’altro nel sangue... La terza tromba avverte che una stella ardente cadrà nella terza parte dei fiumi e delle fonti. Così vi dico, è scomparso il nostro terzo fratello. E temete per il quarto, perché sarà colpita la terza parte del sole, e della luna e delle stelle, così che sarà buio quasi completo... »

Mentre uscivamo dal transetto, Guglielmo si chiese se nelle parole del vegliardo non vi fosse qualcosa di vero.

« Ma, » gli feci osservare, « questo presupporrebbe che una sola mente diabolica, usando l’Apocalisse come guida, avesse predisposto le tre scomparse, ammesso che anche Berengario sia morto. Invece sappiamo che quella di Adelmo fu dovuta alla sua volontà... »

« E’ vero, » disse Guglielmo, « ma la stessa mente diabolica, o malata, potrebbe avere tratto ispirazione dalla morte di Adelmo per organizzare in modo simbolico le altre due. E se così fosse, Berengario dovrebbe trovarsi in un fiume o in una fonte. E non ci sono fiumi e fonti all’abbazia, almeno non tali che qualcuno ci possa annegare o vi possa essere annegato...

« Ci sono solo dei bagni, » osservai quasi per caso.

« Adso! » disse Guglielmo, « sai che questa può essere un’idea? I balnea! »

« Ma vi avranno già guardato... »

« Ho visto i servi stamane quando facevano le loro ricerche, hanno aperto la porta della costruzione dei balnea e han dato un’occhiata intorno, senza frugare, non si attendevano ancora di dover cercare qualcosa di ben nascosto, si aspettavano un cadavere che giacesse teatralmente da qualche parte, come il cadavere di Venanzio nell’orcio... Andiamo a dare un’occhiata, tanto fa ancora buio e mi pare che la nostra lucerna arda ancora con gusto. »

Così facemmo, e aprimmo senza difficoltà la porta della costruzione dei balnea, a ridosso dell’ospedale.

Riparate l’una dall’altra mediante ampie tende, stavano delle vasche, non ricordo quante. I monaci le usavano per la loro igiene, quando la regola ne fissava il giorno, e Severino li usava per ragioni terapeutiche, perché nulla come un bagno può calmare il corpo e la mente. Un camino in un angolo permetteva facilmente di scaldare l’acqua. Lo trovammo sporco di cenere fresca, e vi giaceva davanti un gran calderone rovesciato. L’acqua era attingibile da una fonte in un angolo.

Guardammo nelle prime vasche, che erano vuote. Solo l’ultima, celata da una tenda tirata, era piena e accanto vi giaceva, ammucchiata, una veste. A prima vista, alla luce della nostra lampada, la superficie del liquido ci apparve calma: ma come il lume vi batté sopra vi intravedemmo sul fondo, esanime, un corpo umano, nudo. Lo tirammo lentamente fuori: era Berengario. E questo, disse Guglielmo, aveva veramente il volto di un annega[o. Le fattezze del viso erano gonfie. Il corpo, bianco e molle, privo di peli, pareva quello di una donna, salvo lo spettacolo osceno delle flaccide pudenda. Arrossii, poi ebbi un brivido. Mi segnai, mentre Guglielmo benediceva il cadavere.

QUARTO GIORNO.


Laudi.

Dove Guglielmo e Severino esaminano il cadavere di Berengario, scoprono che ha la lingua nera, cosa singolare per un annegato. Poi discutono di veleni dolorosissimi e di un furto remoto.


Non mi attarderò a dire di come informammo l’Abate, di come tutta l’abbazia si risvegliò prima dell’ora canonica, delle grida di orrore, dello spavento e del dolore che si vedevano sul viso di ciascuno, di come la notizia si propagò a tutto il popolo del pianoro, coi servi che si segnavano e pronunciavano scongiuri. Non so se quella mattina si svolse il primo ufficio secondo le regole, e chi vi prese parte. Io seguii Guglielmo e Severino che fecero avvolgere il corpo di Berengario e ordinarono di distenderlo su un tavolo nell’ospedale.

Allontanatisi l’Abate e gli altri monaci, l’erborista e il mio maestro osservarono a lungo il cadavere, con la freddezza degli uomini di medicina.

« E’ morto annegato, » disse Severino. « non vi è dubbio. Il viso è gonfio, il ventre è teso... »

« Ma non è stato annegato da altri, » osservò Guglielmo, « altrimenti si sarebbe ribellato alla violenza dell’omicida, e avremmo trovato tracce d’acqua sparsa intorno alla vasca. E invece tutto era ordinato e pulito, come se Berengario avesse scaldato l’acqua, riempito il bagno e vi si fosse adagiato di propria volontà. »

« Questo non mi stupisce, » disse Severino. « Berengario soffriva di convulsioni, e io stesso gli avevo detto più volte che i bagni tiepidi servono a calmare l’eccitazione del corpo e dello spirito. Varie volte mi aveva chiesto licenza di accedere ai balnea. Così potrebbe avere fatto questa notte... »

« L’altra notte, » osservò Guglielmo, « perché questo corpo — lo vedi — è restato nell’acqua almeno un giorno...

« E’ possibile che sia stato l’altra notte, » convenne Severino. Guglielmo lo mise parzialmente al corrente degli avvenimenti della notte prima. Non gli disse che eravamo stati furtivamente nello scriptorium ma, celandogli varie circostanze, gli disse che avevamo inseguito una figura misteriosa che ci aveva sottratto un libro. Severino capì che Guglielmo gli diceva solo una parte della verità, ma non fece altre domande. Osservò che l’agitazione di Berengario, se era lui il ladro misterioso, poteva averlo indotto a cercare la tranquillità in un bagno ristoratore. Berengario, osservò, era di natura molto sensibile, talora una contrarietà o un’emozione gli provocavano tremori, sudori freddi, sbarrava gli occhi e cadeva per terra sputando una bava biancastra.

« In ogni caso, » disse Guglielmo, « prima di venire qui è stato da qualche altra parte, perché non ho visto nei balnea il libro che ha rubato. »

« Sì, » confermai con una certa fierezza, « ho sollevato la sua veste che giaceva accanto alla vasca, e non ho trovato tracce di alcun oggetto voluminoso. »

« Bravo, » mi sorrise Guglielmo. « Dunque è stato da qualche altra parte, poi ammettiamo pure che per calmare la propria agitazione, e forse per sottrarsi alle nostre ricerche, si sia infilato nei balnea e si sia immerso nell’acqua. Severino, ritieni che il male di cui soffriva fosse sufficiente a fargli perdere i sensi e a farlo annegare? »

« Potrebbe essere, » osservò dubbioso Severino. « D’altra parte se tutto è accaduto due notti fa, avrebbe potuto esserci dell’acqua intorno alla vasca, che poi è asciugata. Così non possiamo escludere che sia stato annegato a viva forza. »

« No, » disse Guglielmo. « Hai mai visto un assassinato che, prima di farsi annegare, si toglie gli abiti? » Severino scosse la testa, come se quell’argomento non avesse più gran valore. Da qualche istante stava esaminando le mani del cadavere: « Ecco una cosa curiosa... » disse.

« Quale? »

« L’altro giorno ho osservato le mani di Venanzio, quando il corpo è stato ripulito dal sangue, e ho notato un particolare a cui non avevo dato molta importanza. I polpastrelli di due dita della mano destra di Venanzio erano scuri, come anneriti da una sostanza bruna. Esattamente, vedi?, come ora i polpastrelli di due dita di Berengario. Anzi, qui abbiamo anche qualche traccia sul terzo dito. Allora avevo pensato che Venanzio avesse toccato degli inchiostri nello scriptorium...

« Molto interessante, » osservò Guglielmo pensieroso, avvicinando gli occhi alle dita di Berengario. L’alba stava sorgendo, la luce all’interno era ancora fioca, il mio maestro soffriva evidentemente della mancanza delle sue lenti. « Molto interessante, » ripeté. « L’indice e il pollice sono scuri sui polpastrelli, il medio solo sulla parte interna, e debolmente. Ma ci sono tracce più deboli anche sulla mano sinistra, almeno sull’indice e sul pollice. »

« Se fosse solo la mano destra, sarebbero le dita di chi afferra qualcosa di piccolo, o di lungo e sottile... »

« Come uno stilo. O un cibo. O un insetto. O un serpente. O un ostensorio. O un bastone. Troppe cose. Ma se ci sono segni anche sull’altra mano potrebbe essere anche una coppa, la destra la tiene salda e la sinistra collabora con minor forza... »

Severino ora sfregava leggermente le dita del morto, ma il colore bruno non scompariva. Notai che si era messo un paio di guanti. che probabilmente usava quando maneggiava sostanze velenose. Annusava, ma senza trarne alcuna sensazione. « Potrei citarti molte sostanze vegetali (e anche minerali) che provocano tracce di questo tipo. Alcune letali, altre no. I miniatori hanno talora le dita sporche di polvere d’oro... »

« Adelmo faceva il miniatore, » disse Guglielmo. « Immagino che di fronte al suo corpo sfracellato tu non abbia pensato a esaminargli le dita. Ma costoro potrebbero aver toccato qualcosa che era appartenuto ad Adelmo. »

« Proprio non so, » disse Severino. « Due morti, entrambi con le dita nere. Cosa ne deduci? »

« Non ne deduco nulla: nihil sequitur geminis ex particularibus unquam. Bisognerebbe ricondurre entrambi i casi a una regola. Per esempio: esiste una sostanza che annerisce le dita di chi la tocca... »

Terminai trionfante il sillogismo: « ... Venanzio e Berengario hanno le dita annerite, ergo hanno toccato questa sostanza! »

« Bravo Adso, » disse Guglielmo, « peccato che il tuo sillogismo non sia valido, perché aut semel aut iterum medium generaliter esto, e in questo sillogismo il termine medio non appare mai come generale. Segno che abbiamo scelto male la premessa maggiore. Non dovevo dire: tutti coloro che toccano una certa sostanza hanno le dita nere, perché potrebbero esserci anche persone con le dita nere e che non han toccato la sostanza. Dovevo dire: tutti coloro e solo tutti coloro che han le dita nere hanno certamente toccato una data sostanza. Venanzio e Berengario, eccetera. Col che avremmo un Darii, un ottimo terzo sillogismo di prima figura. »

« Allora abbiamo la risposta! » dissi tutto contento.

« Ahimè Adso, come ti fidi dei sillogismi! Abbiamo solo e di nuovo la domanda. Cioè abbiamo fatto l’ipotesi che Venanzio e Berengario abbiano toccato la stessa cosa, ipotesi senz’altro ragionevole. Ma una volta che abbiamo immaginato una sostanza che, sola tra tutte, provoca questo risultato (il che è ancora da appurare) non sappiamo quale sia e dove coloro l’abbian trovata, e perché l’abbian toccata. E bada bene, non sappiamo neppure se è poi la sostanza che han toccato, quella che li ha condotti a morte. Immagina che un folle volesse uccidere tutti coloro che toccano della polvere d’oro. Diremmo che è la polvere d’oro che uccide? »

Rimasi turbato. Avevo sempre creduto che la logica fosse un’arma universale, e mi accorgevo ora di come la sua validità dipendesse dal modo in cui la si usava. D’altra parte, frequentando il mio maestro mi ero reso conto, e sempre più me ne resi conto nei giorni che seguirono, che la logica poteva servire a molto a condizione di entrarci dentro e poi di uscirne.

Severino, che certo non era un buon logico, frattanto rifletteva secondo la propria esperienza: « L’universo dei veleni è vario come vari sono i misteri della natura, » disse. Indicò una serie di vasi e ampolle che già una volta avevamo ammirato, disposti in bell’ordine negli scaffali lungo i muri, insieme a molti volumi. « Come ti ho già detto, molte di queste erbe, dovutamente composte e dosate, potrebbero dar luogo a bevande e a unguenti mortali. Ecco laggiù, datura stramonium, belladonna, cicuta: possono dare la sonnolenza, l’eccitazione, o entrambe; somministrate con cautela sono ottimi medicamenti, in dosi eccessive portano alla morte. »

« Ma nessuna di queste sostanze lascerebbe segni sulle dita? »

« Nessuna, credo. Poi ci sono sostanze che diventano pericolose solo se ingerite e altre che agiscono invece sulla pelle. L’elleboro bianco può provocare vomiti in chi l’afferra per strapparlo dalla terra. Il dittamo e la frassinella, quando sono in fiore provocano ebbrezza nei giardinieri che le toccano, come se avessero bevuto del vino. L’elleboro nero, al solo toccarlo, provoca la diarrea. Altre piante danno palpitazioni di cuore, altre alla testa, altre ancora tolgono la voce. Invece il veleno della vipera, applicato alla pelle senza penetrare nel sangue, produce solo una leggera irritazione... Ma una volta mi fu mostrato un composto che, applicato alla parte interna delle cosce di un cane, vicino ai genitali, porta l’animale a morire in breve tempo tra convulsioni atroci, con le membra che piano piano si irrigidiscono... »

« Sai molte cose sui veleni, » osservò Guglielmo con un tono di voce che pareva ammirato. Severino lo fissò e ne sostenne lo sguardo per qualche istante: « So quello che un medico, un erborista, un cultore di scienze dell’umana salute deve sapere. »

Guglielmo restò a lungo sovrappensiero. Poi pregò Severino di aprire la bocca del cadavere, e di osservarne la lingua. Severino, incuriosito, usò una spatola sottile, uno degli strumenti della sua arte medica, ed eseguì. Ebbe un grido di stupore: « La lingua è nera! »

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