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Il nome della rosa


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Non cercavo d’altra parte di orientarmi, né di evitare la stanza dai profumi che inducono a visioni. Procedevo come in preda a febbre né sapevo dove volessi andare. Di fatto non mi mossi molto dal punto di partenza, perché poco dopo mi ritrovai nella stanza eptagonale da cui ero entrato. Qui su di un tavolo erano disposti alcuni libri che non mi pareva di aver visto la sera prima. Indovinai che erano opere che Malachia aveva ritirato dallo scriptorium e che non aveva ancora ricollocato nei punti a loro destinati. Non capivo se ero molto distante dalla sala dei profumi, perché mi sentivo come stordito e poteva essere per qualche effluvio che arrivava sino in quel luogo, oppure per le cose su cui avevo fantasticato sino ad allora. Aprii un volume riccamente miniato che, per lo stile, mi sembrava provenire dai monasteri dell’ultima Thule.

Fui colpito, in una pagina in cui iniziava il santo evangelo dell’apostolo Marco, dalla immagine di un leone. Era certamente un leone, anche se non ne avevo mai visti in carne e ossa, e il miniatore ne aveva riprodotto con fedeltà le fattezze, forse ispirandosi alla vista dei leoni di Hibernia, terra di creature mostruose, e mi convinsi che questo animale, come d’altra parte dice il Fisiologo, concentra in sé tutti i caratteri delle cose più orrende e maestose a un tempo. Così quella immagine mi evocava insieme l’immagine del nemico e quella di Cristo Nostro Signore, né sapevo in quale chiave simbolica dovessi leggerla, e tremavo tutto, e per il timore, e per il vento che penetrava dalle fessure delle pareti.

Il leone che vidi aveva una bocca irta di denti, e una testa finemente loricata come quella dei serpenti, il corpo immane che si reggeva su quattro zampe dalle unghie puntute e feroci, assomigliava nel suo vello a uno di quei tappeti che più tardi vidi portare dall’oriente, a scaglie rosse e smaragdine, su cui disegnavano, gialle come la peste, orribili e robuste trabeazioni d’ossa. Gialla era pure la coda, che si attorceva dalle terga su su sino al capo, terminando con un’ultima voluta in ciuffi bianchi e neri.

Già molto mi ero impressionato per il leone (e più di una volta mi ero girato all’indietro come se mi attendessi di veder apparire un animale di quelle fattezze all’improvviso), quando decisi di guardare altri fogli e l’occhio mi cadde, all’inizio dell’evangelo di Matteo, sull’immagine di un uomo. Non so perché, esso mi spaventò più del leone: il volto era d’uomo, ma questo uomo era catafratto in una sorta di pianeta rigida che lo copriva sino ai piedi, e questa pianeta o corazza era incrostata di pietre dure rosse e gialle. Quella testa, che fuoriusciva enigmatica da un castello di rubini e topazi, mi apparve (quanto il terrore mi fece blasfemo!) come l’assassino misterioso di cui seguivamo le impalpabili tracce. E poi capii perché collegavo così strettamente la belva e il catafratto al labirinto: perché entrambi, come tutte le figure di quel libro, emergevano da un tessuto figurato di labirinti interallacciati, dove linee d’onice e smeraldo, fili di crisopazio, nastri di berillo sembravano tutti alludere al gomitolo di sale e corridoi in cui mi trovavo. Il mio occhio si perdeva, sulla pagina, per sentieri splendenti, come i miei piedi si stavano perdendo nella teoria inquietante delle sale della biblioteca, e il veder rappresentato su quelle pergamene il mio errare mi riempì di inquietudine e mi convinse che ciascuno di quei libri raccontava per misteriosi cachinni la mia storia di quel momento. « De te fabula narratur, » mi dissi, e mi domandai se quelle pagine non contenessero già la storia degli istanti futuri che mi attendevano.

Aprii un altro libro, e questo mi parve di scuola ispanica. I colori erano violenti, i rossi parevano sangue o fuoco. Era il libro della rivelazione dell’apostolo, e caddi ancora una volta, come la sera prima, sulla pagina della mulier amicta sole. Ma non era lo stesso libro, la miniatura era diversa, qui l’artista aveva insistito più a lungo sulle fattezze della donna. Ne paragonai il volto, il seno, i fianchi flessuosi alla statua della Vergine che avevo visto con Ubertino. Il segno era diverso, ma anche questa mulier mi apparve bellissima. Pensai che non dovevo insistere su questi pensieri, e voltai alcune pagine. Trovai un’altra donna, ma questa volta era la meretrice di Babilonia. Non mi colpirono tanto le sue fattezze ma il pensiero che anch’essa era una donna come l’altra, eppure questa era vascello di ogni vizio, quella ricettacolo di ogni virtù. Ma le fattezze erano muliebri in entrambi i casi, e a un certo punto non fui più capace di capire cosa le distinguesse. Di nuovo provai una agitazione interna, l’immagine della Vergine della chiesa si sovrappose a quella della bella Margherita. « Sono dannato! » mi dissi. O: « Sono pazzo. » E decisi che non potevo più restare nella biblioteca.

Per fortuna ero vicino alla scala. Mi precipitai giù a rischio di inciampare e spegnere il lume. Mi ritrovai sotto le ampie volte dello scriptorium, ma neanche a quel punto mi trattenni e mi lanciai giù per la scala che menava al refettorio.


Quivi ristetti, ansimante. Dalle vetrate penetrava la luce della luna, in quella notte luminosissima, e quasi non avevo più bisogno del lume, indispensabile invece per celle e cunicoli della biblioteca. Tuttavia lo mantenni acceso, quasi a cercar conforto. Ma ancora ansimavo, e pensai che avrei dovuto bere dell’acqua, per calmare la tensione. Poiché la cucina era vicina, attraversai il refettorio e aprii lentamente una delle porte che dava nella seconda metà del piano terra dell’Edificio.

E a questo punto il mio terrore, anziché diminuire, aumentò. Perché mi avvidi subito che qualcuno stava nella cucina, presso al forno del pane: o almeno mi avvidi che in quell’angolo brillava un lume, e pieno di spavento spensi il mio. Spaventato com’ero, incutei spavento, e infatti l’altro (o gli altri) spensero rapidamente il loro. Ma invano, perché la luce della notte illuminava abbastanza la cucina per disegnare davanti a me, sul pavimento, una o più ombre confuse.

Io, raggelato, non ardivo più retrocedere, né avanzare. Udii un ciangottio e mi parve di udire, sommessa, una voce di donna. Poi dal gruppo informe che si disegnava oscuramente presso al forno, un’ombra scura e tozza si distaccò, e fuggì verso la porta esterna, che evidentemente era socchiusa, richiudendola dietro di sé.

Rimasi io, sul limine tra refettorio e cucina, e un qualcosa di impreciso presso al forno. Qualcosa di impreciso e — come dire? — mugolante. Proveniva infatti dall’ombra un gemito, quasi un pianto sommesso, un singhiozzo ritmico, di paura.

Nulla infonde più coraggio al pauroso della paura altrui: ma non mi mossi verso l’ombra spinto da coraggio. Piuttosto, direi, spinto da una ebbrezza non dissimile da quella che mi aveva colto quando avevo avuto le visioni. C’era nella cucina qualcosa di affine ai suffumigi che mi avevano sorpreso nella biblioteca, il giorno prima. O forse non si trattava delle stesse sostanze, ma ai miei sensi sovraeccitati esse fecero lo stesso effetto. Avvertivo un afrore di traganta, allume e tartaro, che i cuochi usavano per aromatizzare il vino. O forse, come appresi dopo, si stava in quei giorni preparando la birra (che in quella plaga a nord della penisola era tenuta in un certo pregio) e la si produceva secondo la moda del mio paese, con erica, mirto di palude e rosmarino di stagno selvatico. Aromi tutti che, più che le mie nari, inebriarono la mia mente.

E mentre il mio istinto razionale era di gridare « vade retro! » e allontanarmi dalla cosa gemente che certamente era un succubo evocatomi dal maligno, qualcosa nella mia vis appetitiva mi spinse in avanti, come volessi esser partecipe di un portento.

Così mi feci dappresso all’ombra, sino a che, alla luce della notte, che cadeva dai finestroni, mi avvidi che era una donna, tremante, che serrava al petto con una mano un involto, e che si ritraeva piangendo verso la bocca del forno.

Dio, la Beata Vergine e tutti i santi del Paradiso mi assistano ora nel dire cosa mi accadde. Il pudore, la dignità del mio stato (ormai vecchio monaco in questo bel monastero di Melk, luogo di pace e serena meditazione) mi consiglierebbero piissime cautele. Dovrei dire semplicemente che qualcosa di male avvenne ma che non è onesto ripetere cosa fu, e non turberei né me stesso né il mio lettore.

Ma mi sono ripromesso di raccontare, su quei fatti lontani, tutta la verità, e la verità è indivisa, brilla della sua stessa perspicuità, e non consente di essere dimidiata dai nostri interessi e dalla nostra vergogna. Il problema è piuttosto di dire cosa avvenne non come ora lo vedo e lo ricordo (anche se ancora ricordo tutto con impietosa vivacità, né so se sia il pentimento che ne è seguito a fissare in modo così vivido casi e pensieri nella mia memoria, o l’insufficienza di quello stesso pentimento che ancora mi tormenta dando vita nella mia mente addolorata a ogni minima sfumatura della mia vergogna), ma come lo vidi e lo sentii allora. E posso farlo, con fedeltà di cronista, perché se chiudo gli occhi posso ripetere tutto quanto non solo feci ma pensai in quegli istanti, come se copiassi una pergamena scritta allora. Devo quindi procedere in tal modo, e san Michele Arcangelo mi protegga: perché a edificazione dei lettori venturi e a flagellazione della mia colpa voglio ora raccontare come un giovane possa incappare nelle trame del demonio, sì che esse possano essere note ed evidenti, e chi ancora vi incappi possa sconfiggerle.

Era dunque una donna. Che dico, una fanciulla. Avendo avuto sino ad allora (e da allora in poi, siano rese grazie a Dio) poca dimestichezza con gli esseri di quel sesso, non so dire che età potesse aver avuto. So che era giovane, quasi adolescente, forse aveva sedici, o diciotto primavere, o forse venti, e fui colpito dall’impressione di umana realtà che promanava da quella figura. Non era una visione, e mi parve in ogni caso valde bona. Forse perché tremava come un uccellino d’inverno, e piangeva, e aveva paura di me.

Così, pensando che il dovere di ogni buon cristiano sia di soccorrere il proprio prossimo, mi appressai a essa con gran dolcezza e in buon latino le dissi che non doveva temere perché ero un amico, in ogni caso non un nemico, certamente non il nemico come essa forse formidinava.

Forse per la mansuetudine che spirava dal mio sguardo, la creatura si calmò e mi si avvicinò. Avvertii che non capiva il mio latino e d’istinto mi rivolsi a lei nel mio volgare tedesco, e questo la spaventò moltissimo, non so se a causa dei suoni aspri, inusitati per le genti di quella plaga, o perché questi suoni le ricordassero qualche altra esperienza con soldati delle mie terre. Allora sorrisi, ritenendo che il linguaggio dei gesti e del viso sia più universale di quello delle parole, ed essa si quetò. Mi sorrise anch’essa e mi disse poche parole.

Conoscevo pochissimo il suo volgare, e in ogni caso era diverso da quello che avevo in parte appreso a Pisa, tuttavia mi avvidi dal tono che essa mi diceva parole dolci, e mi parve dicesse qualcosa come: « Tu sei giovane, tu sei bello... » Accade raramente a un novizio, che abbia passato tutta la sua infanzia in monastero, di udire affermazioni circa la propria bellezza, e anzi si è di solito ammoniti che la bellezza corporale è fugace e da tenere in conto assai vile: ma le trame del nemico sono infinite e confesso che quell’accenno alla mia venustà, per quanto mendace, scese dolcissimo alle mie orecchie e mi diede una incontenibile emozione. Tanto più che la fanciulla, nel dir questo, aveva proteso la mano e coi polpastrelli delle sue dita aveva sfiorato la mia gota, allora del tutto imberbe. Ne provai come una impressione di deliquio, ma in quel momento non riuscivo ad avvertire ombra di peccato nel mio cuore. Tanto può il demonio quando vuole metterci alla prova e cancellare dall’animo nostro le tracce della grazia.

Cosa provai? Cosa vidi? Io solo ricordo che le emozioni del primo istante furono orbate di ogni espressione, perché la mia lingua e la mia mente non erano state educate a nominare sensazioni di quella fatta. Sino a che non mi sovvennero altre parole interiori, udite in altro tempo e in altri luoghi, certamente parlate per altri fini, ma che mirabilmente mi parvero armonizzare con il mio gaudio di quel momento, come se fossero nate consustanzialmente a esprimerlo. Parole che si erano affollate nelle caverne della mia memoria salirono alla superficie (muta) del mio labbro, e dimenticai che esse fossero servite nelle scritture o sulle pagine dei santi a esprimere ben più fulgide realtà. Ma v’era poi davvero differenza tra le delizie di cui avevano parlato i santi e quelle che il mio animo esagitato provava in quell’istante? In quell’istante si annullò in me il senso vigile della differenza. Che è appunto, mi pare, il segno del rapimento negli abissi dell’identità.

Di colpo la fanciulla mi apparve così come la vergine nera ma bella di cui dice il Cantico. Essa portava un abituccio liso di stoffa grezza che si apriva in modo abbastanza inverecondo sul petto, e aveva al collo una collana fatta di pietruzze colorate e, credo, vilissime. Ma la testa si ergeva fieramente su un collo bianco come torre d’avorio, i suoi occhi erano chiari come le piscine di Hesebon, il suo naso era una torre del Libano, le chiome del suo capo come porpora. Sì, la sua chioma mi parve come un gregge di capre, i suoi denti come greggi di pecore che risalgono dal bagno, tutte appaiate, sì che nessuna di esse era prima della compagna. E: « Come sei bella, mia amata, come sei bella, » mi venne da mormorare, « la tua chioma è come un gregge di capre che scende dalle montagne di Galaad, come nastro di porpora sono le tue labbra, spicchio di melograno è la tua guancia, il tuo collo è come la torre di David cui sono appesi mille scudi. » E mi chiedevo spaventato e rapito chi fosse costei che si levava davanti a me come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribilis ut castrorum acies ordinata.

Allora la creatura si appressò a me ancora di più, gettando in un angolo l’involto scuro che sino ad allora aveva tenuto stretto contro il suo petto, e levò ancora la mano ad accarezzarmi il volto, e ripeté ancora una volta le parole che avevo già udito. E mentre non sapevo se sfuggirla o accostarmi ancora di più, mentre il mio capo pulsava come se le trombe di Giosuè stessero per far crollare le mura di Gerico, e al tempo stesso bramavo e temevo di toccarla, essa ebbe un sorriso di grande gioia, emise un gemito sommesso di capra intenerita, e sciolse i lacci che chiudevano l’abito suo sul petto, e si sfilò l’abito dal corpo come una tunica, e rimase davanti a me come Eva doveva essere apparsa ad Adamo nel giardino dell’Eden. « Pulchra sunt ubera quae paululum supereminent et tument modice, » mormorai ripetendo la frase che avevo udito da Ubertino, perché i suoi seni mi apparvero come due cerbiatti, due gemelli di gazzelle che pascolavano tra i gigli, il suo ombelico fu una coppa rotonda che non manca mai di vino drogato, il suo ventre un mucchio di grano contornato di fiori delle valli.

« O sidus clarum puellarum, » le gridai, « o porta clausa, fons hortorum, cella custos unguentorum, cella pigmentaria! » e mi ritrovai senza volere a ridosso del suo corpo avvertendone il calore e il profumo acre di unguenti mai conosciuti. Mi sovvenni: « Figli, quando viene l’amore folle, nulla può l’uomo! » e compresi che, fosse quanto provavo trama del nemico o dono celeste, nulla ormai potevo fare per contrastare l’impulso che mi muoveva e: « Oh langueo, » gridai, e: « Causam languoris video nec caveo! » anche perché un odore roseo spirava dalle sue labbra ed erano belli i suoi piedi nei sandali, e le gambe erano come colonne e come colonne le pieghe dei suoi fianchi, opera di mano d’artista. O amore, figlia di delizie, un re è rimasto preso dalla tua treccia, mormoravo tra me, e fui tra le sue braccia, e cademmo insieme sul nudo pavimento della cucina e, non so se per mia iniziativa o per arti di lei, mi trovai libero del mio saio di novizio e non avemmo vergogna dei nostri corpi et cuncta erant bona.

Ed essa mi baciò con i baci della sua bocca, e i suoi amori furono più deliziosi del vino e all’odore erano deliziosi i suoi profumi, ed era bello il suo collo tra le perle e le sue guance tra i pendenti, come sei bella mia amata, come sei bella, i tuoi occhi sono colombe (dicevo) e fammi vedere la tua faccia, fammi sentire la tua voce, ché la tua voce è armoniosa e la tua faccia incantevole, mi hai reso folle di amore, sorella mia, mi hai reso folle con una tua occhiata, con un solo monile del tuo collo, favo che gocciola sono le tue labbra, miele e latte sotto la tua lingua, il profumo del tuo respiro è come quello dei pomi, i tuoi seni a grappoli, i tuoi seni come grappoli d’uva, il tuo palato un vino squisito che punta dritto al mio amore e fluisce sulle labbra e sui denti... Fontana da giardino, nardo e zafferano, cannella e cinnamomo, mirra e aloe, io mangiavo il mio favo e il mio miele, bevevo il mio vino e il mio latte, chi era, chi era mai costei che si levava come l’aurora, bella come la luna, fulgida come il sole, terribile come schiere vessillifere?

Oh Signore, quando l’anima viene rapita, quivi la sola virtù sta nell’amare ciò che vedi (non è vero?), la somma felicità nell’avere ciò che hai, quivi la vita beata si beve alla sua fonte (non è stato detto?), quivi si gusta la vera vita che dopo questa mortale ci toccherà di vivere accanto agli angeli nell’eternità... Questo pensavo e mi pareva che le profezie si avverassero, infine, mentre la fanciulla mi colmava di dolcezze indescrivibili ed era come se il mio corpo fosse tutto un occhio davanti e di dietro e vedessi le cose circostanti di colpo. E capivo che da esso, che è l’amore, si producono a un tempo l’unità e la soavità e il bene e il bacio e l’amplesso, come già avevo udito dire credendo mi si parlasse d’altro. E solo per un istante, mentre la mia gioia stava per toccare lo zenith, mi sovvenne che forse stavo sperimentando, e di notte, la possessione del demone meridiano, condannato infine a mostrarsi nella sua natura stessa di demone all’anima che nell’estasi domandi « chi sei? », esso che sa rapire l’anima e illudere il corpo. Ma subito mi convinsi che diaboliche erano certo le mie esitazioni, perché nulla poteva essere più giusto, più buono, più santo di quel che stavo provando e la cui dolcezza cresceva di momento in momento. Come una piccola goccia d’acqua infusa in una quantità di vino tutta si disperde per prendere colore e sapore di vino, come il ferro incandescente e infuocato diventa somigliantissimo al fuoco perdendo la sua forma primitiva, come l’aria quando è inondata dalla luce del sole è trasformata nel massimo splendore e nella medesima chiarezza, tanto da non sembrare più illuminata bensì essere luce essa stessa, così io mi sentivo morire di tenera liquefazione, sì che mi rimase solo la forza per mormorare le parole del salmo: « Ecco il mio petto è come vino nuovo, senza spiraglio, che rompe otri nuovi », e subito vidi una fulgidissima luce e in essa una forma color zaffiro che avvampava tutta di un fuoco rutilante e soavissimo, e quella luce splendida si diffuse per l’intero fuoco rutilante, e questo fuoco rutilante per quella forma splendente e quella luce fulgidissima e quel fuoco rutilante per l’intera forma.

Mentre, quasi svanito, cadevo sul corpo a cui mi ero unito, capii in un ultimo soffio di vitalità che la fiamma consiste di una splendida chiarezza, di un insito vigore e di un igneo ardore, ma la splendida chiarezza la possiede affinché riluca e l’igneo ardore affinché bruci. Poi capii l’abisso, e gli abissi ulteriori che esso invocava.

Ora che, con la mano che trema (e non so se per l’orrore del peccato di cui dico o per la colpevole nostalgia del fatto che rimemoro) scrivo queste linee, mi avvedo di avere usato le stesse parole per descrivere la mia turpissima estasi di quell’istante, che ho usato, non molte pagine innanzi, per descrivere il fuoco che bruciava il corpo martire del fraticello Michele. Né è un caso che la mia mano, prona esecutrice dell’anima, abbia stilato le stesse espressioni per due esperienze così difformi, perché probabilmente nello stesso modo le vissi allora, quando le avvertii, e poco fa, quando cercavo di farle rivivere entrambe sulla pergamena.

C’è una misteriosa saggezza per cui fenomeni tra sé disparati possono venir nominati con parole analoghe, la stessa per cui le cose divine possono essere designate con nomi terreni, e per simboli equivoci Dio può essere detto leone o leopardo, e la morte ferita, e la gioia fiamma, e la fiamma morte, e la morte abisso, e l’abisso perdizione e la perdizione deliquio e il deliquio passione.

Perché io fanciullo nominavo l’estasi di morte che mi aveva colpito nel martire Michele con le parole con cui la santa aveva nominato l’estasi di vita (divina), ma con le stesse parole non potevo non nominare l’estasi (colpevole e passeggera) di godimento terreno, che dal canto proprio subito dopo mi era apparsa sensazione di morte e annullamento? Io cerco ora di ragionare e sul modo in cui avvertii, a pochi mesi di distanza, due esperienze entrambe esaltanti e dolorose, e sul modo in cui quella notte all’abbazia rimemorai l’una e sensibilmente avvertii l’altra, a poche ore di distanza, e ancora il modo in cui nel contempo le ho rivissute ora, stilando queste linee, e come nei tre casi le abbia recitate a me stesso con le parole della diversa esperienza di un anima santa che si annullava nella visione della divinità. Ho forse bestemmiato (allora, ora)? Cosa vi era di simile nel desiderio di morte di Michele, nel rapimento che provai alla vista della fiamma che lo consumava, nel desiderio di congiunzione carnale che provai con la fanciulla, nel mistico pudore con cui lo traducevo allegoricamente, e nello stesso desiderio di annullamento gaudioso che muoveva la santa a morire del proprio amore per vivere più a lungo ed eternamente? Possibile che cose tanto equivoche possan dirsi in modo così univoco? Eppure è questo, pare, l’insegnamento che ci hanno lasciato i massimi tra i dottori: omnis ergo figura tanto evidentius veritatem demonstrat quanto apertius per dissimilem similitudinem figuram se esse et non veritatem probat. Ma se l’amore della fiamma e dell’abisso sono figura dell’amore di Dio, possono essere figura dell’amore della morte e dell’amore del peccato? Sì, così come il leone e il serpente sono a un tempo figura e del Cristo e del demonio. E’ che la giustezza dell’interpretazione non può essere fissata che dall’autorità dei padri, e nel caso di cui mi cruccio non ho auctoritas a cui la mia mente obbediente possa rifarsi, e brucio nel dubbio (e ancora la figura del fuoco interviene a definire il vuoto di verità e la pienezza di errore che mi annullano!). Cosa avviene, o Signore, nel mio animo, ora che mi faccio prendere dal vortice dei ricordi e insieme conflagro tempi diversi, come se stessi per manomettere l’ordine degli astri e la sequenza dei loro moti celesti? Certamente supero i limiti della mia intelligenza peccatrice e malata. Orsù, ritorniamo al compito che mi ero umilmente proposto. Stavo raccontando di quel giorno e del totale smarrimento dei sensi in cui mi inabissai. Ecco, ho detto di cosa mi ricordai in quella occasione, e a questo si limiti la mia debole penna di fedele e veritiero cronista.

Giacqui, non so per quanto, la fanciulla accanto a me. Con moto lieve la sola sua mano continuava a toccare il mio corpo, ora madido di sudore. Provavo una interiore esultanza, che non era pace, ma come l’ultimo ardere sommesso di un fuoco che tardasse a estinguersi sotto la cenere quando ormai la fiamma è morta. Non esiterei a chiamar beato colui a cui fosse concesso di provare qualcosa di simile (mormoravo come nel sonno), anche raramente, in questa vita (e di fatto lo provai solo quella volta), e soltanto rapidissimamente, e per lo spazio di un istante solo. Quasi non si esistesse più, non sentire per nulla se stessi, l’essere abbassati, quasi annientati, e se qualcuno dei mortali (mi dicevo) potesse per un solo istante e rapidissimamente gustare ciò che io ho gustato, subito guarderebbe di malocchio questo mondo perverso, sarebbe turbato dalla malizia del vivere quotidiano, sentirebbe il peso del corpo di morte... Non era così che mi era stato insegnato? Quell’invito di tutto il mio spirito a smemorare nella beatitudine era certo (ora lo capivo) l’irradiazione del sole eterno, e la gioia che quello produce apre, distende, ingrandisce l’uomo, e la gola spalancata che l’uomo reca in se stesso non più si chiude con tanta facilità, è la ferita aperta dal colpo di spada dell’amore, né v’è quaggiù altra cosa che sia più dolce e terribile. Ma tale è il diritto del sole, esso saetta il ferito coi suoi raggi e tutte le piaghe si allargano, l’uomo s’apre e si dilata, le sue vene stesse sono spalancate, le sue forze non sono più in grado di eseguire gli ordini che ricevono ma sono mosse unicamente dal desiderio, lo spirito brucia inabissato nell’abisso di ciò che ora tocca, vedendo il proprio desiderio e la propria verità superati dalla realtà che ha vissuto e che vive. E si assiste stupefatto al proprio deliquio.

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