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Il nome della rosa


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« Ma perché allora vengono confusi e se ne parla come della stessa mala pianta? »

« Te l’ho detto, quello che li fa vivere è anche quello che li fa morire. Si arricchiscono di semplici che sono stati stimolati da altri movimenti e che credono che si tratti dello stesso moto di rivolta e di speranza; e sono distrutti dagli inquisitori che attribuiscono agli uni gli errori degli altri, e se i settatori di un movimento hanno commesso un delitto, questo delitto sarà attribuito a ciascun settatore di ciascun movimento. Gli inquisitori hanno torto secondo ragione, perché mettono insieme dottrine contrastanti; hanno ragione secondo il torto degli altri, perché come nasce un movimento, verbigratia, di arnaldisti in una città, vi convergono anche coloro che sarebbero stati o erano stati catari o valdesi altrove. Gli apostoli di fra Dolcino predicavano la distruzione fisica dei chierici e dei signori, e commisero molte violenze; i valdesi sono contrari alla violenza, e così i fraticelli. Ma sono sicuro che ai tempi di fra Dolcino convenirono nel suo gruppo molti che avevano già seguito la predicazione dei fraticelli o dei valdesi. I semplici non possono scegliersi la loro eresia, Adso, si aggrappano a chi predica nella loro terra, a chi passa per il villaggio o per la piazza. E’ su questo che giocano i loro nemici. Presentare agli occhi del popolo una sola eresia, che magari consigli al tempo stesso e il rifiuto del piacere sessuale e la comunione dei corpi, è buona arte predicatoria: perché mostra gli eretici un solo intrico di diaboliche contraddizioni che offendono il senso comune.

« Quindi non vi è rapporto tra essi ed è per inganno del demonio che un semplice che avrebbe voluto essere gioachimita o spirituale cade nelle mani di catari o viceversa? »

« E invece non è così. Cerchiamo di ricominciare da capo, Adso, e ti assicuro che cerco di spiegarti una cosa sulla quale neppure io credo di possedere la verità. Penso che l’errore sia di credere che prima venga l’eresia, poi i semplici che vi si danno (e vi si dannano). In verità prima viene la condizione dei semplici, poi l’eresia. »

« E come? »

« Tu hai chiara la visione della costituzione del popolo di Dio. Un grande gregge, pecore buone, e pecore cattive, tenute a freno da cani mastini, i guerrieri, ovvero il potere temporale, l’imperatore e i signori, sotto la guida dei pastori, i chierici, gli interpreti della parola divina. L’immagine è piana. »

« Ma non è vera. I pastori combattono coi cani perché ciascuno dei due vuole i diritti degli altri. »

« E’ vero, ed è appunto questo che rende imprecisa la natura del gregge. Persi come sono a dilaniarsi a vicenda, cani e pastori non curano più il gregge. Una parte di esso ne rimane fuori. »

« Come fuori? »

« Ai margini. Contadini, non sono contadini perché non hanno la terra o quella che hanno non li nutre. Cittadini, non sono cittadini perché non appartengono né a un’arte né ad altra corporazione, sono popolo minuto, preda di ciascuno. Hai visto talora nelle campagne gruppi di lebbrosi? »

« Sì, una volta ne vidi cento insieme. Deformi, con la carne in disfacimento e tutta biancastra, sulle loro stampelle, le palpebre gonfie, gli occhi sanguinanti, non parlavano né gridavano: squittivano, come topi.

« Essi sono per il popolo cristiano gli altri, quelli che stanno ai margini del gregge. Il gregge li odia, essi odiano il gregge. Ci vorrebbero tutti morti, tutti lebbrosi come loro. »

« Sì, ricordo una storia di re Marco che doveva condannare Isotta la bella e stava facendola salire sul rogo, e vennero i lebbrosi e dissero al re che il rogo era pena da poco e che ve n’era una peggiore. E gli gridarono: dacci Isotta che appartenga a tutti noi, il male accende i nostri desideri, dalla ai tuoi lebbrosi, guarda, i nostri stracci sono incollati alle piaghe che gemono, lei che accanto a te si compiaceva delle ricche stoffe foderate di vaio e dei gioielli, quando vedrà la corte dei lebbrosi, quando dovrà entrare nei nostri tuguri e coricarsi con noi, allora riconoscerà davvero il suo peccato e rimpiangerà questo bel fuoco di rovi! »

« Vedo che per essere un novizio di san Benedetto hai delle curiose letture, » motteggiò Guglielmo, e io arrossii, perché sapevo che un novizio non dovrebbe leggere romanzi d’amore, ma tra noi giovanetti circolavano al monastero di Melk e li leggevamo a lume di candela di notte. « Ma non importa, » riprese Guglielmo, « hai capito cosa volevo dire. I lebbrosi esclusi vorrebbero trascinare tutti nella loro rovina. E diverranno tanto più cattivi quanto più tu li escluderai, e quanto più tu te li rappresenti come una corte di lemuri che vogliono la tua rovina, tanto più loro saranno esclusi. San Francesco capì questo, e la sua prima scelta fu di andare a vivere tra i lebbrosi. Non si cambia il popolo di Dio se non si reintegrano nel suo corpo gli emarginati. »

« Ma voi parlavate di altri esclusi, non sono i lebbrosi a comporre i movimenti ereticali. »

« Il gregge è come una serie di cerchi concentrici, dalle più ampie lontananze del gregge alla sua periferia immediata. I lebbrosi sono segno dell’esclusione in generale. San Francesco l’aveva capito. Non voleva solo aiutare i lebbrosi, ché la sua azione si sarebbe ridotta a un ben povero e impotente atto di carità. Voleva significare altro. Ti han raccontato della predica agli uccelli? »

« Oh sì, ho sentito questa storia bellissima e ho ammirato il santo che godeva della compagnia di quelle tenere creature di Dio, » dissi con gran fervore.

« Ebbene, ti hanno raccontato una storia sbagliata, ovvero la storia che l’ordine sta oggi ricostruendo. Quando Francesco parlò al popolo della città e ai suoi magistrati e vide che quelli non lo capivano, uscì verso il cimitero e si mise a predicare a corvi e a gazze, a sparvieri, a uccelli di rapina che si cibavano di cadaveri. »

« Che cosa orrenda, » dissi, « non erano dunque uccelli buoni! »

« Erano uccelli da preda, uccelli esclusi, come i lebbrosi. Francesco pensava certo a quel verso dell’Apocalisse che dice: ho visto un angelo, levato nel sole, gridare con voce forte e dire a tutti gli uccelli che volavano nel sole, venite e radunatevi tutti al gran banchetto di Dio, mangiate la carne dei re, la carne dei tribuni e dei superbi, la carne dei cavalli e dei cavalieri, la carne dei liberi e degli schiavi, dei piccoli e dei grandi! »

« Dunque Francesco voleva incitare gli esclusi alla rivolta? »

« No, questo furono semmai Dolcino e i suoi. Francesco voleva richiamare gli esclusi, pronti alla rivolta, a far parte del popolo di Dio. Per ricomporre il gregge bisognava ritrovare gli esclusi. Francesco non c’è riuscito e te lo dico con molta amarezza. Per reintegrare gli esclusi doveva agire all’interno della chiesa, per agire all’interno della chiesa doveva ottenere il riconoscimento della sua regola, da cui sarebbe uscito un ordine, e un ordine, come ne uscì, avrebbe ricomposto l’immagine di un cerchio, al cui margine stanno gli esclusi. E allora capisci, ora, perché ci sono le bande dei fraticelli e dei gioachimiti, che raccolgono intorno a loro gli esclusi, ancora una volta. »

« Ma non stavamo parlando di Francesco, bensì di come l’eresia sia il prodotto dei semplici e degli esclusi. »

« Infatti. Parlavamo degli esclusi dal gregge delle pecore. Per secoli, mentre il papa e l’imperatore si dilaniavano nelle loro diatribe di potere, questi hanno continuato a vivere ai margini, essi i veri lebbrosi, di cui i lebbrosi sono solo la figura disposta da Dio perché noi capissimo questa mirabile parabola e dicendo ’lebbrosi’ capissimo ’esclusi, poveri, semplici, diseredati, sradicati dalle campagne, umiliati nelle città’. Non abbiamo capito, il mistero della lebbra è rimasto a ossessionarci perché non ne abbiamo riconosciuto la natura di segno. Esclusi com’erano dal gregge, tutti costoro sono stati pronti ad ascoltare, o a produrre, ogni predicazione che, richiamandosi alla parola di Cristo, in effetti mettesse sotto accusa il comportamento dei cani e dei pastori e promettesse che un giorno essi sarebbero stati puniti. Questo i potenti lo capirono sempre. La reintegrazione degli esclusi imponeva la riduzione dei loro privilegi, per questo gli esclusi che assumevano coscienza della loro esclusione andavano bollati come eretici, indipendentemente dalla loro dottrina. E costoro, dal canto loro, accecati dalla loro esclusione, non erano interessati veramente ad alcuna dottrina. L’illusione dell’eresia è questa. Ciascuno è eretico, ciascuno è ortodosso, non conta la fede che un movimento offre, conta la speranza che propone. Tutte le eresie sono bandiera di una realtà dell’esclusione. Gratta l’eresia, troverai il lebbroso. Ogni battaglia contro l’eresia vuole solamente questo: che il lebbroso rimanga tale. Quanto ai lebbrosi cosa vuoi chiedere loro? Che distinguano nel dogma trinitario o nella definizione dell’eucarestia quanto è giusto e quanto è sbagliato? Suvvia Adso, questi sono giochi per noi uomini di dottrina. I semplici hanno altri problemi. E bada, li risolvono tutti nel modo sbagliato. Per questo diventano eretici. »

« Ma perché taluni li appoggiano? »

« Perché servono al loro gioco, che di rado riguarda la fede, e più spesso la conquista del potere. »

« E’ per questo che la chiesa di Roma accusa di eresia tutti i suoi avversari? »

« E’ per questo, ed è per questo che riconosce come ortodossia quella eresia che può ricondurre entro il proprio controllo, o che deve accettare perché è diventata troppo forte, e non sarebbe bene averla come avversaria. Ma non c’è una regola precisa, dipende dagli uomini, dalle circostanze. E questo vale anche per i signori laici. Cinquanta anni fa il comune di Padova emise un’ordinanza per cui chi uccideva un chierico era condannato all’ammenda di un danaro grosso... »

« Niente! »

« Appunto. Era un modo per incoraggiare l’odio popolare contro i chierici, la città era in lotta con il vescovo. Allora capisci perché, tempo fa, a Cremona i fedeli dell’impero aiutarono i catari, non per ragioni di fede, ma per mettere in imbarazzo la chiesa di Roma. Talora le magistrature cittadine incoraggiano gli eretici perché traducono in volgare il vangelo: il volgare è ormai la lingua delle città, il latino la lingua di Roma e dei monasteri. Oppure appoggiano i valdesi perché affermano che tutti, uomini e donne, piccoli e grandi, possono insegnare e predicare e l’operaio che è discepolo dopo dieci giorni ne cerca un altro di cui diventare maestro... »

« E così eliminano la differenza che rende insostituibili i chierici! Ma allora perché accade poi che le stesse magistrature cittadine si rivoltino contro gli eretici e diano man forte alla chiesa per farli bruciare? »

« Perché si accorgono che la loro espansione metterà in crisi anche i privilegi dei laici che parlano in volgare. Nel concilio lateranense del 1179 (vedi che sono storie che risalgono a quasi duecento anni fa) Walter Map già metteva in guardia contro quello che sarebbe avvenuto dando credito a quegli uomini idioti e illetterati che erano i valdesi. Disse, se ben ricordo, che essi non hanno fissa dimora, girano a piedi nudi senza possedere nulla, tenendo tutto in comune, seguendo nudi il Cristo nudo; ora cominciano in questo modo umilissimo perché sono esclusi, ma se si lascia loro troppo spazio cacceranno tutti. Per questo poi le città hanno favorito gli ordini mendicanti e noi francescani in particolare: perché permettevamo di stabilire un rapporto armonico tra bisogno di penitenza e vita cittadina, tra la chiesa e i borghesi che si interessavano ai loro mercati... »

« Si è raggiunta l’armonia, allora, tra amor di Dio e amor dei traffici? »

« No, si sono bloccati i movimenti di rinnovamento spirituale, si sono incanalati nei limiti di un ordine riconosciuto dal papa. Ma quello che serpeggiava sotto non è stato incanalato. E’ finito da un lato nei movimenti dei flagellanti che non fanno male a nessuno, nelle bande armate come quelle di fra Dolcino, nei riti stregoneschi come quelli dei frati di Montefalco di cui parlava Ubertino... »

« Ma chi aveva ragione, chi ha ragione, chi ha sbagliato? » domandai smarrito.

« Tutti avevano la loro ragione, tutti hanno sbagliato. »

« Ma voi, » gridai quasi in un impeto di ribellione, « perché non prendete posizione, perché non mi dite dove sta la verità? »

Guglielmo stette alquanto in silenzio, sollevando verso la luce la lente alla quale stava lavorando. Poi la abbassò sul tavolo e mi mostrò, attraverso la lente, un ferro da lavoro: « Guarda, » mi disse, « cosa vedi? »

« Il ferro, un poco più grande. »

« Ecco, il massimo che si può fare è guardare meglio. »

« Ma è sempre lo stesso ferro! »

« Anche il manoscritto di Venanzio sarà sempre lo stesso manoscritto quando avrò potuto leggerlo grazie a questa lente. Ma forse quando avrò letto il manoscritto conoscerò meglio una parte della verità. E forse potremo rendere migliore la vita dell’abbazia. »

« Ma non basta! »

« Sto dicendo più di quel che sembra, Adso. Non è la prima volta che ti parlo di Ruggiero Bacone. Forse non fu l’uomo più saggio di tutti i tempi, ma io sono sempre stato affascinato dalla speranza che animava il suo amore per la sapienza. Bacone credeva nella forza, nei bisogni, nelle invenzioni spirituali dei semplici. Non sarebbe stato un buon francescano se non avesse pensato che i poveri, i diseredati, gli idioti e gli illetterati parlano spesso con la bocca di Nostro Signore. Se avesse potuto conoscerli da vicino, sarebbe stato più attento ai fraticelli che ai provinciali dell’ordine. I semplici hanno qualcosa in più dei dottori, che spesso si perdono alla ricerca di leggi generalissime. Essi hanno l’intuizione dell’individuale. Ma questa intuizione, da sola, non basta. I semplici avvertono una loro verità, forse più vera di quella dei dottori della chiesa, ma poi la consumano in gesti irriflessi. Cosa bisogna fare? Dare la scienza ai semplici? Troppo facile, o troppo difficile. E poi quale scienza? Quella della biblioteca di Abbone? I maestri francescani si sono posti questo problema. Il grande Bonaventura diceva che i saggi devono portare a chiarezza concettuale la verità implicita nei gesti dei semplici... »

« Come il capitolo di Perugia e le dotte memorie di Ubertino che trasformano in decisioni teologiche il richiamo dei semplici alla povertà, » dissi.

« Sì, ma lo hai visto, avviene in ritardo e, quando avviene, la verità dei semplici si è già trasformata nella verità dei potenti, buona più per l’imperatore Ludovico che per un frate di povera vita. Come restare vicini all’esperienza dei semplici mantenendone, per così dire, la virtù operativa, la capacità di operare per la trasformazione e il miglioramento del loro mondo? Questo era il problema di Bacone: ’Quod enim laicali ruditate turgescit non habet effectum nisi fortuito,’ diceva. L’esperienza dei semplici ha esiti selvaggi e incontrollabili. ’Sed opera sapientiae certa lege vallantur et in finem debitum eficaciter diriguntur.’ Che è come dire che anche nella condotta delle cose pratiche, siano pure esse la meccanica, l’agricoltura o il governo di una città, ci vuole una sorta di teologia. Egli pensava che la nuova scienza della natura dovesse essere la nuova grande impresa dei dotti per coordinare, attraverso una diversa conoscenza dei processi naturali, i bisogni elementari che costituivano anche il coacervo disordinato, ma a suo modo vero e giusto, delle attese dei semplici. La nuova scienza, la nuova magìa naturale. Soltanto che per Bacone questa impresa doveva essere diretta dalla chiesa e credo che dicesse così perché ai suoi tempi la comunità dei chierici si identificava con la comunità dei sapienti. Oggi non è più così, nascono sapienti fuori dai monasteri, e dalle cattedrali, persino dalle università. Vedi per esempio in questo paese, il più grande filosofo del nostro secolo non è stato un monaco, ma uno speziale. Dico di quel fiorentino di cui avrai sentito nominare il poema, che io non ho mai letto perché non capisco il suo volgare, e per quanto ne so mi piacerebbe assai poco perché vi vaneggia di cose molto lontane dalla nostra esperienza. Ma ha scritto, credo, le cose più sagge che ci sia dato di comprendere sulla natura degli elementi c del cosmo tutto, e sulla conduzione degli stati. Così penso che, poiché anch’io e i miei amici riteniamo oggi che per la condotta delle cose umane non spetti alla chiesa ma all’assemblea del popolo legiferare, nello stesso modo in futuro spetterà alla comunità dei dotti proporre questa nuovissima e umana teologia che è filosofia naturale e magìa positiva. »

« Una bellissima impresa, » dissi, « ma è possibile? »

« Bacone ci credeva. »

« E voi? »

« Anch’io ci credevo. Ma per crederci occorrerà essere sicuri che i semplici hanno ragione perché posseggono l’intuizione dell’individuale, che è l’unica buona. Però se l’intuizione dell’individuale è l’unica buona, come potrà la scienza arrivare a ricomporre le leggi universali attraverso cui, e interpretando le quali, la magìa buona diventa operativa? »

« Già, » dissi, « come potrà? »

« Non lo so più. Ho avuto tante discussioni a Oxford col mio amico Guglielmo di Occam, che ora è ad Avignone. Mi ha seminato l’animo di dubbi. Perché se solo l’intuizione dell’individuale è giusta, il fatto che cause dello stesso genere abbiano effetti dello stesso genere è proposizione difficile da provare. Uno stesso corpo può essere freddo o caldo, dolce o amaro, umido o secco, in un luogo — e in un altro luogo no. Come posso scoprire il legame universale che rende ordinate le cose se non posso muovere un dito senza creare una infinità di nuovi enti, poiché con tale movimento mutano tutte le relazioni di posizione tra il mio dito e tutti gli altri oggetti? Le relazioni sono i modi in cui la mia mente percepisce il rapporto tra enti singolari, ma quale è la garanzia che questo modo sia universale e stabile? »

« Ma voi sapete che a un certo spessore di un vetro corrisponde una certa potenza di visione, ed è perché lo sapete che potete ora costruire lenti uguali a quelle che avete perduto, altrimenti come potreste? »

« Acuta risposta, Adso. In effetti io ho elaborato questa proposizione, che a spessore uguale deve corrispondere uguale potenza di visione. L’ho posta perché altre volte ho avuto intuizioni individuali dello stesso tipo. Certo è noto a chi esperimenta la proprietà curativa delle erbe che tutti gli individui erbacei della stessa natura hanno nel paziente, ugualmente disposto, effetti della stessa natura, e perciò lo sperimentatore formula la proposizione che ogni erba di tale tipo giova al febbricitante, o che ogni lente di tale tipo magnifica in uguale misura la visione dell’occhio. La scienza di cui parlava Bacone verte indubbiamente intorno a queste proposizioni. Bada, parlo di proposizioni sulle cose, non di cose. La scienza ha a che fare con le proposizioni e i suoi termini, e i termini indicano cose singolari. Capisci Adso, io devo credere che la mia proposizione funzioni, perché l’ho appreso in base all’esperienza, ma per crederlo dovrei supporre che vi siano leggi universali, eppure non posso parlarne, perché lo stesso concetto che esistano leggi universali, e un ordine dato delle cose, implicherebbe che Dio ne fosse prigioniero, mentre Dio è cosa così assolutamente libera che, se volesse, e di un solo atto della sua volontà, il mondo sarebbe altrimenti. »

« Quindi, se ben capisco, fate, e sapete perché fate, ma non sapete perché sapete che sapete quel che fate? »

Devo dire con orgoglio che Guglielmo mi guardò con ammirazione: « Forse è così. In ogni modo questo ti dice perché mi senta così incerto della mia verità, anche se ci credo. »

« Siete più mistico di Ubertino! » dissi maliziosamente.

« Forse. Ma come vedi lavoro sulle cose di natura. E anche nell’indagine che stiamo svolgendo, non voglio sapere chi sia buono o chi sia malvagio, ma chi sia stato nello scriptorium ieri sera, chi abbia preso gli occhiali, chi abbia lasciato sulla neve le orme di un corpo che trascina un altro corpo, e dove sia Berengario. Questi sono fatti, poi proverò a legarli tra loro, se mai sia possibile, perché è difficile dire quale effetto sia dato da quale causa; basterebbe l’intervento di un angelo per cambiare tutto, perciò non c’è da meravigliarsi se non si può dimostrare che una cosa sia la causa di un’altra cosa. Anche se bisogna provarci sempre, come sto facendo.’

« E’ una vita difficile, la vostra, » dissi.

« Ma ho trovato Brunello, » esclamò Guglielmo, alludendo al cavallo di due giorni prima.

« Allora c’è un ordine del mondo! » gridai trionfante.

« Allora c’è un po’ d’ordine in questa mia povera testa, » rispose Guglielmo.

In quel punto rientrò Nicola portando una forcella quasi finita e mostrandola trionfalmente.

« E quando ci sarà questa forcella sul mio povero naso, » disse Guglielmo, « forse la mia povera testa sarà ancora più ordinata. »

Venne un novizio a informarci che l’Abate voleva vedere Guglielmo, e lo attendeva in giardino. Il mio maestro fu costretto a rimandare i suoi esperimenti a più tardi e ci affrettammo verso il luogo dell’incontro. Mentre ci avviavamo Guglielmo si dette un colpo in fronte, come se si ricordasse solo a quel punto di qualcosa che aveva dimenticato.

« A proposito, » disse, « ho decifrato i segni cabalistici di Venanzio. »

« Tutti?! Quando? »

« Quando dormivi. E dipende cosa intendi per tutti. Ho decifrato i segni apparsi alla fiamma, quelli che tu hai ricopiato. Gli appunti in greco devono attendere che io abbia nuove lenti.’

« Allora? Si trattava del segreto del finis Africae? »

« Sì, e la chiave era abbastanza facile. Venanzio disponeva dei dodici segni zodiacali e di otto segni per i cinque pianeti, i due luminari e la terra. Venti segni in tutto. Abbastanza per associarvi le lettere dell’alfabeto latino, dato che puoi usare la stessa lettera per esprimere il suono delle due iniziali di « unum » e di « velut ». L’ordine delle lettere, lo sappiamo. Quale poteva essere l’ordine dei segni? Ho pensato all’ordine dei cieli, ponendo il quadrante zodiacale all’estrema periferia. Quindi, Terra, Luna, Mercurio, Venere, Sole, eccetera, e poi di seguito i segni zodiacali nella loro sequenza tradizionale, così come li classifica anche Isidoro di Siviglia, a cominciare dall’Ariete e dal solstizio di primavera, finendo coi Pesci. Ora, se provi ad applicare questa chiave, ecco che il messaggio di Venanzio acquista un senso. »

Mi mostrò la pergamena, su cui aveva trascritto il messaggio in grandi lettere latine: « Secretum finis Africae manus supra idolum age primum et septimum de quatuor. »

« E’ chiaro? » chiese.

« La mano sopra l’idolo opera sul primo e sul settimo dei quattro... » ripetei scuotendo la testa. « Non è chiaro affatto! »

« Lo so. Bisognerebbe anzitutto sapere cosa Venanzio intendeva con « idolum ». Una immagine, un fantasma, una figura? E poi, cosa saranno questi quattro che hanno un primo e un settimo? E che cosa bisogna farne? Muoverli, spingerli, tirarli? »

« Allora non sappiamo nulla e siamo al punto di prima, » dissi con gran disappunto. Guglielmo si arrestò e mi guardò con un’aria non del tutto benevola. « Ragazzo mio, » disse, « hai di fronte a te un povero francescano che con le sue modeste conoscenze e quel poco di abilità che deve alla infinita potenza del Signore è riuscito in poche ore a decifrare una scrittura segreta che il suo autore era sicuro riuscisse ermetica per tutti tranne che per lui... e tu, miserabile furfante illetterato, ti permetti di dire che siamo al punto di prima? »

Mi scusai con molta goffaggine. Avevo ferito la vanità del mio maestro, eppure sapevo quanto egli andasse fiero della rapidità e sicurezza delle sue deduzioni. Guglielmo aveva davvero compiuto un’opera degna di ammirazione e non era colpa sua se il callidissimo Venanzio non solo aveva celato quanto aveva scoperto sotto le spoglie di un oscuro alfabeto zodiacale, ma aveva anche elaborato un indecifrabile enigma.

« Non importa, non importa, non scusarti, » mi interruppe Guglielmo. « In fondo hai ragione, sappiamo ancora troppo poco. Andiamo « 

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