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Il nome della rosa


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« Forse è solo una lampada, » disse Guglielmo, « di quelle poste per convincere i monaci che la biblioteca è abitata dalle anime dei trapassati. Ma bisogna sapere. Tu stai qui coprendo il lume, io vado avanti con cautela. »

Ancora vergognoso per la povera figura fatta avanti allo specchio, volli redimermi agli occhi di Guglielmo: « No, vado io, » dissi, « voi restate qui. Procederò cauto, sono più piccolo e più leggero. Appena mi renderò conto che non c’è rischio vi chiamerò. »

E così feci. Procedetti per tre stanze camminando rasente i muri, leggero come un gatto (o come un novizio che scenda in cucina a rubar del cacio in dispensa, impresa in cui eccellevo a Melk). Arrivai alla soglia della stanza da cui proveniva il chiarore, assai debole, strisciando lungo il muro a ridosso della colonna che faceva da stipite destro e sbirciai nella stanza. Non c’era nessuno. Una specie di lampada era posata sul tavolo, accesa, e fumigava stentata. Non era una lucerna come la nostra, sembrava piuttosto un turibolo scoperto, non fiammeggiava, ma una cenere lieve covava bruciando qualcosa. Mi feci coraggio ed entrai. Sul tavolo accanto al turibolo giaceva aperto un libro da colori vivaci. Mi appressai e scorsi sulla pagina quattro strisce di diverso colore, giallo, cinabro, turchese e terra bruciata. Vi campiva una bestia, orribile a vedersi, un gran dragone con dieci teste che con la coda si traeva dietro le stelle del cielo e le faceva precipitare sulla terra. E improvvisamente vidi che il dragone si moltiplicava, e le squame della sua pelle diventavano come una selva di scaglie rutilanti che si staccarono dal foglio e vennero a rotarmi intorno al capo. Mi arrovesciai indietro e vidi il soffitto della stanza che si inclinava e scendeva sopra di me, poi udii come un sibilo di mille serpenti, ma non spaventoso, quasi seducente, e apparve una donna circonfusa di luce che avvicinò il suo volto al mio alitandomi sul viso. L’allontanai con le mani tese e mi parve che le mie mani toccassero i libri dell’armadio di fronte, o che essi ingrandissero a dismisura. Non mi rendevo più conto di dove fossi, e dove fosse la terra e dove il cielo. Vidi al centro della stanza Berengario che mi fissava con un sorriso odioso, grondante di lussuria. Mi coprii il volto con le mani e le mie mani mi parvero gli arti di un rospo, viscide e palmate. Gridai, credo, sentii un sapore acidulo in bocca, poi sprofondai in un buio infinito, che sembrava si aprisse sempre di più sotto di me e non seppi più nulla.

Mi risvegliai dopo un periodo che io reputai di secoli, sentendo dei colpi che mi rintronavano nella testa. Ero sdraiato al suolo e Guglielmo mi stava dando schiaffi sulle guance. Non ero più in quella stanza e i miei occhi scorsero un cartiglio che diceva « Requiescant a laboribus suis ».

« Su su, Adso, » mi sussurrava Guglielmo. « Non è nulla... »

« Le cose... » dissi ancora vaneggiando. « Laggiù, la bestia... »

« Nessuna bestia. Ti ho trovato che deliravi ai piedi di un tavolo con sopra una bella apocalisse mozarabica, aperta sulla pagina della mulier amicta sole che fronteggia il dragone. Ma mi sono accorto dall’odore che tu avevi respirato qualcosa di cattivo e li ho subito portato via. Anche a me duole il capo « 

« Ma cosa ho visto? »

« Non hai visto nulla. E’ che laggiù bruciavano delle sostanze capaci di dar visioni, ho riconosciuto l’odore, è una cosa degli arabi, forse la stessa che il Veglio della Montagna dava ad aspirare ai suoi assassini prima di spingerli alle loro imprese. E così abbiamo spiegato il mistero delle visioni. Qualcuno pone erbe magiche durante la notte per convincere i visitatori inopportuni che la biblioteca è protetta da presenze diaboliche. Cosa hai provato, infine? »

Confusamente, per quel che ricordavo, gli raccontai della mia visione e Guglielmo rise: « Per metà stavi ampliando quel che avevi scorto nel libro e per l’altra metà lasciavi parlare i tuoi desideri e le tue paure. Questa è l’operazione che attivano tali erbe. Domani bisognerà parlarne con Severino, credo che ne sappia più di quel che vuol farci credere. Sono erbe, solo erbe, senza bisogno di quelle preparazioni negromantiche di cui ci parlava il vetraio. Erbe, specchi... Questo luogo della sapienza interdetta è difeso da molti e sapientissimi ritrovati. La scienza usata per occultare anziché per illuminare. Non mi piace. Una mente perversa presiede alla santa difesa della biblioteca. Ma è stata una nottata pesante, bisognerà uscire, per ora. Tu sei sconvolto e hai bisogno di acqua e di aria fresca. Inutile cercare di aprire queste finestre, troppo alte e forse chiuse da decenni. Come han potuto pensare che Adelmo si sia gettato da qui? »

Uscire, disse Guglielmo. Come se fosse stato facile. Sapevamo che la biblioteca era accessibile da un solo torrione, quello orientale. Ma dove eravamo in quel momento? Avevamo completamente perso l orientamento. L’errare che facemmo, col timore di non uscire mai più da quel luogo, io sempre vacillante e colto da conati di vomito, Guglielmo abbastanza preoccupato per me, e indispettito per la pochezza della sua scienza, ci diede, ovvero diede a lui, un’idea per il giorno seguente. Avremmo dovuto tornare nella biblioteca, ammesso che mai ne uscissimo fuori, con un tizzone di legno bruciato, o un’altra sostanza capace di lasciare segni sui muri.

« Per trovare la via di uscita da un labirinto, » recitò infatti Guglielmo, « non vi è che un mezzo. A ogni nodo nuovo, ossia mai visitato prima, il percorso di arrivo sarà contraddistinto con tre segni. Se, a causa di segni precedenti su qualcuno dei cammini del nodo, si vedrà che quel nodo è già stato visitato, si porrà un solo segno sul percorso di arrivo. Se tutti i varchi sono già stati segnati allora bisognerà rifare la strada, tornando indietro. Ma se uno o due varchi del nodo sono ancora senza segni, se ne sceglierà uno qualsiasi, apponendovi due segni. Incamminandosi per un varco che porta un solo segno, ve ne apporremo altri due, in modo che ora quel varco ne porti tre. Tutte le parti del labirinto dovrebbero essere state percorse se, arrivando a un nodo, non si prenderà mai il varco con tre segni, a meno che nessuno degli altri varchi sia ormai privo di segni. »

« Come lo sapete? Siete esperto di labirinti? »

« No, recito da un testo antico che una volta ho letto. »

« E secondo questa regola si esce? »

« Quasi mai, che io sappia. Ma tenteremo lo stesso. E poi nei prossimi giorni avrò delle lenti e avrò tempo a soffermarmi meglio sui libri. Può darsi che là dove il percorso dei cartigli ci confonde, quello dei libri ci dia una regola. »

« Avrete le lenti? Come farete a ritrovarle? »

« Ho detto che avrò delle lenti. Ne farò delle altre. Credo che il vetraio non attenda altro che un’occasione del genere per fare una nuova esperienza. Se avrà gli arnesi giusti per molare i cocci. Quanto ai cocci, in quella bottega ne ha molti. »

Mentre vagavamo cercando la strada, a un tratto, nel centro di una stanza, mi sentii accarezzare sul volto da una mano invisibile, mentre un gemito, che non era umano e non era animale, echeggiava e in quel vano e in quello vicino, come se uno spettro vagasse di sala in sala. Avrei dovuto essere preparato alle sorprese della biblioteca, ma ancora una volta mi terrorizzai e feci un balzo indietro. Anche Guglielmo doveva aver avuto un’esperienza simile alla mia, perché si stava toccando la guancia, levando in alto il lume e guardandosi intorno.

Egli alzò una mano, poi esaminò la fiamma che pareva ora più vivace, quindi si umettò un dito e lo tenne dritto davanti a sé.

« E’ chiaro, » disse poi, e mi mostrò due punti, su due opposte pareti, ad altezza d’uomo. Si aprivano ivi due strette feritoie, avvicinando la mano alle quali si poteva sentire l’aria fredda che proveniva dall’esterno. Avvicinandovi poi l’orecchio si sentiva uno stormire, come se di fuori ora tirasse vento.

« La biblioteca doveva pur avere un sistema di aerazione, » disse Guglielmo, « altrimenti l’atmosfera sarebbe irrespirabile, specie d’estate. Inoltre queste feritoie provvedono anche una giusta dose di umidità, affinché le pergamene non si secchino. Ma l’accortezza dei fondatori non si è fermata qui. Disponendo le feritoie secondo certi angoli, si sono garantiti che nelle notti di vento i soffi che penetrano da questi meati si incrocino con altri soffi, e si ingorghino entro la fuga delle stanze, producendo i suoni che abbiamo udito. I quali, uniti agli specchi e alle erbe, aumentano il timore degli incauti che qui penetrassero, come noi, senza conoscere bene il luogo. E noi stessi abbiamo pensato per un attimo che dei fantasmi ci alitassero sul viso. Ce ne siamo resi conto solo ora perché solo ora si è levato il vento. E anche questo mistero è risolto. Ma con tutto ciò non sappiamo ancora come uscire! »

Così parlando girovagavamo a vuoto, ormai smarriti, trascurando di leggere i cartigli che apparivano tutti uguali. Incappammo in una nuova sala eptagonale, girammo per le stanze vicine, non trovammo alcuna uscita. Tornammo sui nostri passi, camminammo per quasi un’ora, rinunciando a sapere dove eravamo. A un certo punto Guglielmo decise che eravamo sconfitti, non rimaneva che metterci a dormire in qualche sala e sperare che il giorno dopo Malachia ci trovasse. Mentre ci lamentavamo per la miserevole fine della nostra bella impresa, ritrovammo inopinatamente la sala da cui partiva la scala. Ringraziammo con fervore il cielo e scendemmo con grande allegrezza.

Una volta in cucina, ci buttammo verso il camino, entrammo nel corridoio dell’ossario e giuro che il ghigno mortifero di quelle teste nude mi parve il sorriso di persone care. Rientrammo in chiesa e uscimmo dal portale settentrionale, sedendoci infine felici sulle lastre di pietra delle tombe. L’aria bellissima della notte mi parve un balsamo divino. Le stelle brillavano intorno a noi e le visioni della biblioteca mi parvero assai lontane.

« Com’è bello il mondo e come sono brutti i labirinti! » dissi sollevato.

« Come sarebbe bello il mondo se ci fosse una regola per girare nei labirinti, » rispose il mio maestro.

« Che ora sarà? » domandai.

« Ho perso il senso del tempo. Ma sarà bene trovarci nelle nostre celle prima che suoni mattutino. »

Costeggiammo il lato sinistro della chiesa. passammo davanti al portale (mi girai dall’altra parte per non vedere i seniori dell’Apocalisse, super thronos viginti quatuor!) e attraversammo il chiostro per raggiungere l’albergo dei pellegrini.

Sulla soglia della costruzione stava l’Abate, che ci guardò con severità. « E’ tutta la notte che vi cerco, » disse a Guglielmo. « Non vi ho trovato in cella, non vi ho trovato in chiesa... »

« Seguivamo una traccia... » disse vagamente Guglielmo, con visibile imbarazzo. L’Abate lo fissò a lungo, poi disse con voce lenta e severa: « Vi ho cercato subito dopo compieta. Berengario non era in coro. »

« Cosa mi dite mai! » fece Guglielmo con aria ilare. Intatti gli era ora chiaro chi si fosse annidato nello scriptorium.

« Non era in coro a compieta, » ripeté l’Abate, « e non è tornato nella sua cella. Sta per suonare mattutino, e controlleremo ora se riappare. Altrimenti pavento qualche nuova sciagura. » A mattutino Berengario non c’era.


TERZO GIORNO.


Da laudi a prima.

Dove si trova un panno sporco di sangue nella cella di Berengario scomparso, ed è tutto.


Mentre scrivo mi sento stanco come mi sentivo quella notte, ovvero quella mattina. Che dire? Dopo l’ufficio l’Abate mosse la maggior parte dei monaci, ormai in allarme, a cercare dappertutto, senza risultato.

Verso laudi, cercando nella cella di Berengario, un monaco trovò sotto il pagliericcio un panno bianco sporco di sangue. Lo mostrarono all’Abate che ne trasse foschi auspici. Era presente Jorge che, come ne fu informato, disse: « Sangue? » come se la cosa gli sembrasse inverosimile. Lo dissero ad Alinardo, che scosse la testa e disse: « No, no, alla terza tromba la morte viene per acqua... »

Guglielmo osservò il panno e poi disse: « Ora tutto è chiaro. »

« Dov’è allora Berengario? » gli chiesero.

« Non lo so, » rispose. Lo udì Aymaro che alzò gli occhi al cielo e sussurrò a Pietro da Sant’Albano: « Gli inglesi sono fatti così. »

Verso prima, quando già c’era il sole, furono inviati dei servi a esplorare i piedi della scarpata, tutto intorno alle mura. Tornarono a terza, non avendo trovato nulla.

Guglielmo mi disse che non avremmo potuto far meglio. Occorreva attendere gli eventi. E si recò alle fucine, intrattenendosi in fitto conversare con Nicola, il maestro vetraio.

Io mi sedetti in chiesa, presso il portale centrale, mentre venivano celebrate le messe. Così devotamente mi addormentai, e a lungo, perché pare che i giovani abbiano bisogno di sonno più dei vecchi, i quali hanno già tanto dormito e si apprestano a dormire per l’eternità.

Terza.

Dove Adso nello scriptorium riflette sulla storia del suo ordine e sul destino dei libri.


Uscii di chiesa meno stanco ma con la mente confusa, perché il corpo non gode di un riposo tranquillo se non nelle ore notturne. Salii nello scriptorium, chiesi licenza a Malachia e cominciai a sfogliare il catalogo. E mentre gettavo sguardi distratti ai fogli che mi passavano sotto gli occhi, osservavo in realtà i monaci.

Fui colpito dalla calma e dalla serenità con cui costoro erano intesi al loro lavoro, come se un loro confratello non fosse affannosamente ricercato per tutta la cinta e altri due non fossero già scomparsi in circostanze spaventose. Ecco, mi dissi, la grandezza del nostro ordine: per secoli e secoli uomini come questi hanno visto irrompere le turbe dei barbari, saccheggiare le loro abbazie, precipitare i regni in vortici di fuoco, eppure hanno continuato ad amare le pergamene e gli inchiostri e hanno continuato a leggere a fior di labbro parole che si tramandavano da secoli e che essi tramandavano ai secoli a venire. Hanno continuato a leggere e a copiare mentre si appressava il millennio, perché non dovevano continuare a farlo ora?

Il giorno prima Bencio aveva detto che sarebbe stato disposto a commettere peccato pur di avere un libro raro. Non mentiva e non celiava. Un monaco dovrebbe certo amare i suoi libri con umiltà, volendo il bene loro e non la gloria della propria curiosità: ma quello che per i laici è la tentazione dell’adulterio e per gli ecclesiastici secolari è la brama di ricchezze, questa per i monaci è la seduzione della conoscenza.

Sfogliai il catalogo e mi danzò davanti agli occhi una festa di titoli misteriosi: « Quinti Sereni de medicamentis », « Phaenomena », « Liber Aesopi de natura animalium », « LiberAethici peronymi de cosmographia », « Libri tres quos Arculphus episcopus Adamnano escipiente de locis sanctis ultramarinis designavit conscribendos », « Libellus Q. Iulii Hilarionis de origine mundi », « Solini Polyshistor de situ orbis terrarum et mirabilibus », « Almagesthus »... Non mi stupivo che il mistero dei delitti ruotasse intorno alla biblioteca. Per questi uomini votati alla scrittura la biblioteca era al tempo stesso la Gerusalemme celeste e un mondo sotterraneo al confine tra la terra incognita e gli inferi. Essi erano dominati dalla biblioteca, dalle sue promesse e dai suoi interdetti. Vivevano con essa, per essa e forse contro di essa, sperando colpevolmente di violarne un giorno tutti i segreti. Perché non avrebbero dovuto rischiare la morte per soddisfare una curiosità della loro mente, o uccidere per impedire che qualcuno si appropriasse di un loro segreto geloso?

Tentazioni, certo, superbia della mente. Ben diverso era il monaco scrivano immaginato dal nostro santo fondatore, capace di copiare senza capire, abbandonato alla volontà di Dio, scrivente perché orante e orante in quanto scrivente. Perché non era più così? Oh, non erano certo soltanto quelle le degenerazioni dell’ordine nostro! Era diventato troppo potente, i suoi abati gareggiavano coi re, non avevo forse in Abbone l’esempio di un monarca che con piglio di monarca cercava di dirimere controversie tra monarchi? Lo stesso sapere che le abbazie avevano accumulato era ora usato come merce di scambio, ragione di superbia, motivo di vanto e prestigio; così come i cavalieri ostentavano armature e stendardi, i nostri abati ostentavano codici miniati... E tanto più (follia!) quanto ormai i nostri monasteri avevano perduto anche la palma della saggezza: ormai le scuole cattedrali, le corporazioni urbane, le università copiavano libri, forse più e meglio di noi, e ne producevano di nuovi — e forse questa era la causa di tante sventure.

L’abbazia in cui mi trovavo era forse ancora l’ultima a vantare una eccellenza nella produzione e riproduzione della sapienza. Ma forse proprio per questo i suoi monaci non si appagavano più nell’opera santa della copia, volevano anch’essi produrre nuovi complementi della natura, spinti dalla cupidità di cose nuove. E non si avvedevano, intuii confusamente in quel momento (e so bene oggi, ormai canuto d’anni e di esperienza), che così facendo essi sancivano la rovina della loro eccellenza. Perché se quel nuovo sapere che essi volevano produrre fosse rifluito liberamente fuori da quelle mura, nulla più avrebbe distinto quel sacro luogo da una scuola cattedrale o da una università cittadina. Rimanendo celato, invece esso manteneva intatti il suo prestigio e la sua forza, non era corrotto dalla disputa, dalla albagìa quodlibetale che vuole sottoporre al vaglio del « sic et non » ogni mistero e ogni grandezza. Ecco, mi dissi, le ragioni del silenzio e del buio che circondano la biblioteca, essa è riserva di sapere ma può mantenere questo sapere intatto solo se impedisce che giunga a chiunque, persino ai monaci stessi. Il sapere non è come la moneta, che rimane fisicamente integra anche attraverso i più infami baratti: esso è piuttosto come un abito bellissimo, che si consuma attraverso l’uso e l’ostentazione. Non è così infatti il libro stesso, le cui pagine si sbriciolano, gli inchiostri e gli ori si fanno opachi, se troppe mani lo toccano? Ecco, vedevo a poca distanza da me Pacifico da Tivoli che sfogliava un volume antico, i cui fogli si erano come attaccati l’uno all’altro a causa dell’umidità. Egli bagnava l’indice e il pollice con la lingua per sfogliare il suo libro, e a ogni tocco della sua saliva quelle pagine perdevano di vigore, aprirle voleva dire piegarle, offrirle alla severa azione dell’aria e della polvere, che avrebbero roso le sottili venature di cui la pergamena si increspava nello sforzo, avrebbero prodotto nuove muffe là dove la saliva aveva ammorbidito ma indebolito l’angolo del foglio. Come un eccesso di dolcezza rende molle e inabile il guerriero, questo eccesso di amore possessivo e curioso avrebbe predisposto il libro alla malattia destinata a ucciderlo.

Cosa si sarebbe dovuto fare? Cessare di leggere, soltanto conservare? Erano giusti i miei timori? Cosa avrebbe detto il mio maestro?

Vidi poco lontano un rubricatore, Magnus da Iona, che aveva terminato di sfregare il suo vello con la pietrapomice e lo ammorbidiva col gesso, per poi levigarne la superficie con la plana. Un altro accanto a lui, Rabano da Toledo, aveva fissato la pergamena alla tavola, segnandone i margini con dei leggeri buchi laterali da ambo le parti, tra cui ora tirava con uno stilo metallico linee orizzontali sottilissime. Tra poco i due fogli si sarebbero riempiti di colori e di forme, la pagina sarebbe divenuta come un reliquiario, fulgida di gemme incastonate in quello che sarebbe poi stato il tessuto devoto della scrittura. Quei due confratelli, mi dissi, stanno vivendo le loro ore di paradiso in terra. Stavano producendo nuovi libri, eguali a quelli che il tempo avrebbe poi inesorabilmente distrutto... Dunque la biblioteca non poteva essere minacciata da nessuna forza terrena, dunque era una cosa viva... Ma se era viva, perché non doveva aprirsi al rischio della conoscenza? Era questo che voleva Bencio e che forse aveva voluto Venanzio?

Mi sentii confuso e timoroso dei miei pensieri. Forse essi non si addicevano a un novizio che doveva solo seguire con scrupolo e umiltà la regola, per tutti gli anni a venire — ciò che poi ho fatto, senza pormi altre domande, mentre intorno a me sempre più il mondo sprofondava in una tempesta di sangue e follia.

Era l’ora del pasto mattutino, e mi recai in cucina, dove ormai ero divenuto amico dei cuochi, ed essi mi diedero alcuni dei bocconi migliori.

Sesta.

Dove Adso riceve le confidenze di Salvatore, che non si possono riassumere in poche parole, ma che gli ispirano molte preoccupate meditazioni.


Mentre mangiavo vidi in un angolo Salvatore, evidentemente riappacificatosi col cuciniere, che divorava con allegrezza un pasticcio di carne di pecora. Mangiava come non avesse mai mangiato in vita sua, non lasciando cadere neppure una briciola, e pareva rendesse grazie a Dio per quell’evento straordinario.

Mi ammiccò e mi disse, in quel suo bizzarro linguaggio, che mangiava per tutti gli anni in cui aveva digiunato. Lo interrogai. Mi raccontò di una infanzia dolorosissima in un villaggio dove l’aria era cattiva, le piogge frequentissime, e i campi marcivano mentre tutto era viziato da mortiferi miasmi. Ci furono, così capii, delle alluvioni per stagioni e stagioni, che i campi non avevano più solchi e con un moggio di semi facevi un sestario, e poi il sestario si riduceva ancora a nulla. Anche i signori avevano visi bianchi come i poveri benché, osservò Salvatore, i poveri morissero più dei signori, forse (osservò con un sorriso) perché erano in maggior numero... Un sestario costava quindici soldi, un moggio sessanta soldi, i predicatori annunciavano la fine dei tempi, ma i genitori e gli avi di Salvatore si ricordavano che era stato così anche altre volte, sì che ne avevan tratto la conclusione che i tempi fossero sempre per finire. E così quando ebbero mangiato tutte le carogne degli uccelli, e tutti gli animali immondi che si potessero trovare, corse voce che qualcuno nel villaggio cominciava a dissotterrare i morti. Salvatore spiegava con molta bravura, come se fosse un istrione, come usavan fare quegli « homeni malissimi » che scavavan con le dita sotto la terra nei cimiteri, il giorno dopo le esequie di qualcuno. « Gnam! » diceva, e addentava il suo pasticcio di pecora, ma io vedevo nel suo volto la smorfia del disperato che mangiava il cadavere. E poi, non contenti di scavare in terra consacrata, alcuni peggiori degli altri, come ladroni da strada, si acquattavano nella foresta e sorprendevano i viandanti. « Zac! » diceva Salvatore, il coltello alla gola e « Gnam! » E i peggiori tra i peggiori adescavano i fanciulli, con un uovo o una mela, e ne facevano scempio ma, come Salvatore mi precisò con molta serietà, cuocendoli prima. Raccontò di un uomo che venne al villaggio vendendo carne cotta per pochi soldi e tutti non sapevano capacitarsi di quella fortuna, poi il prete disse che si trattava di carne umana, e l’uomo fu fatto a pezzi dalla folla inferocita. Ma la notte stessa un tale del villaggio andò a scavare la fossa dell’ucciso e mangiò delle carni del cannibale, così che, quando fu scoperto, il villaggio condannò a morte anche lui.

Ma Salvatore non mi raccontò solo questa storia. A parole mozze, impegnandomi a ricordare quel poco che sapevo di provenzale e di dialetti italiani, mi raccontò la storia della sua fuga dal villaggio natio, e il suo girovagare per il mondo. E nel suo racconto riconobbi molti che avevo già conosciuto o incontrato lungo la strada, e molti altri che conobbi dopo ne riconosco ora, sì che non sono sicuro di non attribuirgli, a distanza di tempo, avventure e delitti che furono di altri, prima di lui e dopo di lui, e che ora nella mia mente stanca si appiattiscono a disegnare una sola immagine, per la forza appunto della immaginazione che, unendo il ricordo dell’oro a quello del monte, sa comporre l’idea di una montagna d’oro.

Spesso durante il viaggio avevo udito nominare da Guglielmo i semplici, termine con cui taluni suoi confratelli designavano non solo il popolo, ma al tempo stesso gli indotti. Espressione che mi parve sempre generica, perché nelle città italiane avevo incontrato uomini di mercatura e artigiani che non erano chierici ma che non erano indotti, anche se le loro conoscenze si manifestavano attraverso l’uso del volgare. E, per dire, alcuni dei tiranni che governavano in quel tempo la penisola, erano ignari di scienza teologica, e medica, e di logica, e di latino, ma non erano certo dei semplici o degli sprovveduti. Perciò credo che anche il mio maestro, quando parlava dei semplici, usasse un concetto piuttosto semplice. Ma indubbiamente Salvatore era un semplice, veniva da una campagna provata, da secoli, dalla carestia e dalle prepotenze dei signori feudali. Era un semplice ma non era uno sciocco. Aspirava a un mondo diverso, che, nei tempi in cui fuggì dalla casa dei suoi, a quel che mi disse, prendeva l’aspetto del paese di Cuccagna, dove dagli alberi, che trasudano miele, crescono forme di cacio e salsicciotti profumati.

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