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Il nome della rosa


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Guglielmo posò il foglio che aveva trovato ai piedi del tavolo e vi avvicinò il volto. Mi chiese di fargli luce. Appressai il lume e scorsi una pagina bianca per la prima metà, e nella seconda coperta di caratteri minutissimi di cui riconobbi a fatica l’origine.

« E’ greco? » chiesi.

« Sì, ma non capisco bene. » Trasse dal saio le sue lenti e le pose saldamente in sella al proprio naso, poi avvicinò ancora di più il volto.

« E’ greco, scritto molto piccolo, e tuttavia disordinatamente. Anche con le lenti leggo a fatica, occorrerebbe più luce. Avvicinati... »

Aveva preso il foglio tenendolo davanti al volto, e io stolidamente invece di passargli dietro alle spalle tenendo il lume alto sulla sua testa, mi misi proprio davanti a lui. Egli mi chiese di spostarmi di lato, e nel farlo sfiorai con la fiamma il retro del foglio. Guglielmo mi cacciò con una spinta, dicendomi se volevo bruciargli il manoscritto, poi ebbe una esclamazione. Vidi chiaramente che sulla parte superiore della pagina erano apparsi alcuni segni imprecisi di un colore giallo bruno. Guglielmo si fece dare il lume e lo mosse dietro il foglio, tenendo la fiamma abbastanza vicina alla superficie della pergamena, così da scaldarla senza lambirla. Lentamente, come se una mano invisibile stesse tracciando « Mane, Tekel, Fares », vidi disegnarsi sul verso bianco del foglio, a uno a uno, mano a mano che Guglielmo muoveva il lume, e mentre il fumo che scaturiva dal culmine della fiamma anneriva il recto, dei tratti che non assomigliavano a quelli di nessun alfabeto, se non a quello dei negromanti.

« Fantastico! » disse Guglielmo. « Sempre più interessante! » Si guardò intorno: « Ma sarà meglio non esporre questa scoperta alle insidie del nostro ospite misterioso, se ancora è qui... » Si tolse le lenti e le posò sul tavolo, poi arrotolò con cura la pergamena e la nascose nel saio. Ancora sbalordito da quella sequenza di eventi a dir poco miracolosi, stavo per chiedergli altre spiegazioni, quando un rumore improvviso e secco ci distolse. Proveniva dai piedi della scala orientale che portava alla biblioteca.

« Il nostro uomo è là, prendilo! » gridò Guglielmo e ci buttammo in quella direzione, lui più rapido, io più lentamente perché portavo il lume. Udii un fracasso di persona che incespica e cade, accorsi, trovai Guglielmo ai piedi della scala che osservava un pesante volume dalla coperta rinforzata di borchie metalliche. Nello stesso istante udimmo un altro rumore dalla direzione da cui eravamo venuti. « Stolto che sono! » gridò Guglielmo, « presto, al tavolo di Venanzio! »

Capii, qualcuno che stava nell’ombra dietro di noi aveva gettato il volume per attirarci lontano.

Ancora una volta Guglielmo fu più rapido di me e raggiunse il tavolo. Io seguendolo intravvidi tra le colonne un’ombra che fuggiva, infilando la scala del torrione occidentale.

Preso da ardore guerriero, misi il lume in mano a Guglielmo e mi buttai alla cieca verso la scala da cui era sceso il fuggiasco. In quel momento mi sentivo come un soldato di Cristo in lotta con le legioni infernali tutte, e ardevo dal desiderio di mettere le mani sullo sconosciuto per consegnarlo al mio maestro. Ruzzolai quasi lungo le scale a chiocciola inciampando nei lembi della mia veste (quello fu l’unico momento della mia vita, lo giuro, che rimpiansi di essere entrato in un ordine monastico!) ma in quello stesso istante, e fu pensiero di un lampo, mi consolai all’idea che anche il mio avversario doveva soffrire dello stesso impaccio. E in più, se aveva sottratto il libro, doveva avere le mani occupate. Precipitai quasi nella cucina dietro il forno del pane e, alla luce della notte stellata che illuminava pallidamente il vasto androne, vidi l’ombra che inseguivo, che infilava la porta del refettorio tirandola dietro di sé. Mi precipitai verso di quella, faticai qualche secondo ad aprirla, entrai, mi guardai attorno, e non vidi più nessuno. La porta che dava sull’esterno era ancora sprangata. Mi voltai. Ombra e silenzio. Scorsi un bagliore venire dalla cucina e mi addossai a un muro. Sulla soglia di passaggio tra i due ambienti apparve una figura illuminata da un lume. Gridai. Era Guglielmo.

« Non c’è più nessuno? Lo prevedevo. Colui non è uscito da una porta. Non ha infilato il passaggio dell’ossario? »
« No, è uscito di qui, ma non so da dove! »

« Te l’ho detto, ci sono altri passaggi, ed è inutile che li cerchiamo. Magari il nostro uomo sta riemergendo da qualche parte lontana. E con lui le mie lenti. »

« Le vostre lenti? »

« Proprio così. Il nostro amico non ha potuto sottrarmi il foglio ma, con grande presenza di spirito, passando ha afferrato dal tavolo i miei vetri. »

« E perché? »

« Perché non è uno sciocco. Mi ha sentito parlare di questi appunti, ha capito che erano importanti, ha pensato che senza le lenti non sarò in grado di decifrarli e sa per certo che non mi fiderò di mostrarli a nessuno. Infatti, ora è come se non li avessi. »

« Ma come faceva a sapere delle vostre lenti? »

« Suvvia, a parte il fatto che ne abbiamo parlato ieri col maestro vetraio, stamane nello scriptorium me le sono inforcate per frugare tra le carte di Venanzio. Quindi ci sono molte persone che potrebbero sapere quanto quegli oggetti fossero preziosi. E infatti potrei anche leggere un manoscritto normale, ma non questo, » e stava srotolando di nuovo la misteriosa pergamena, « dove la parte in greco è troppo piccola, e la parte superiore troppo incerta... »

Mi mostrò i segni misteriosi che erano apparsi come d’incanto al calore della fiamma: « Venanzio voleva celare un segreto importante e ha usato uno di quegli inchiostri che scrivono senza lasciar traccia e riappaiono al calore. Oppure ha usato del succo di limone. Ma siccome non so che sostanza abbia usato e i segni potrebbero riscomparire, presto, tu che hai gli occhi buoni, ricopiali subito nel modo più fedele che puoi, e magari un poco più grandi. » E così feci, senza sapere cosa copiassi. Si trattava di una serie di quattro o cinque linee invero stregonesche, e riporto ora solo i primissimi segni, per dare al lettore una idea dell’enigma che avevamo davanti agli occhi:
[Vari segni e simboli intrascrivibili. Nota dei curatori telematici].
Quando ebbi copiato Guglielmo guardò, purtroppo senza lenti, tenendo la mia tavoletta a una buona distanza dal naso. « E’ certamente un alfabeto segreto che occorrerà decifrare, » disse. « I segni sono tracciati male, e forse tu li hai ricopiati peggio, ma si tratta certamente di un alfabeto zodiacale. Vedi? Nella prima linea abbiamo... » allontanò ancora il foglio da sé, strinse gli occhi, con uno sforzo di concentrazione: « Sagittario, Sole, Mercurio, Scorpione... »

« E cosa significano? »

« Se Venanzio fosse stato un ingenuo avrebbe usato l’alfabeto zodiacale più comune: A uguale a Sole, B uguale a Giove... La prima linea si leggerebbe allora... prova a trascrivere: RAIQASVL... » S’interruppe. « No, non vuole dire nulla, e Venanzio non era ingenuo. Ha riformulato l’alfabeto secondo un’altra chiave. Dovrò scoprirla. »

« E’ possibile? » domandai ammirato.

« Sì, se si conosce un poco della sapienza degli arabi. I migliori trattati di criptografia sono opera di sapienti infedeli, e a Oxford ho potuto farmene leggere qualcuno. Bacone aveva ragione a dire che la conquista del sapere passa attraverso la conoscenza delle lingue. Abu Bakr Ahmad ben Ali ben Washiyya an-Nabati ha scritto secoli fa un « Libro del frenetico desiderio del devoto di apprendere gli enigmi delle antiche scritture » e ha esposto molte regole per comporre e decifrare alfabeti misteriosi, buoni per pratiche di magìa, ma anche per la corrispondenza tra gli eserciti, o tra un re e i propri ambasciatori. Ho visto altri libri arabi che elencano una serie di artifici assai ingegnosi. Puoi per esempio sostituire una lettera con un’altra, puoi scrivere una parola a rovescio, puoi mettere le lettere in ordine inverso, ma prendendone una sì e una no, e poi ricominciando da capo, puoi come in questo caso sostituire le lettere con segni zodiacali, ma attribuendo alle lettere nascoste il loro valore numerico e poi, secondo un altro alfabeto, convertire i numeri in altre lettere...

« E quale di questi sistemi avrà usato Venanzio? »

« Bisognerebbe provarli tutti, e altri ancora. Ma la prima regola per decifrare un messaggio è indovinare cosa voglia dire. »

« Ma allora non c’è più bisogno di decifrarlo! » risi.

« Non in questo senso. Si possono però formulare delle ipotesi su quelle che potrebbero essere le prime parole del messaggio, e poi vedere se la regola che se ne inferisce vale per tutto il resto dello scritto. Per esempio, qui Venanzio ha certamente annotato la chiave per penetrare nel finis Africae. Se io provo a pensare che il messaggio parli di questo, ecco che sono illuminato all’improvviso da un ritmo... Prova a guardare le prime tre parole, non considerare le lettere, considera solo il numero dei segni... 8 5 7... Ora prova a dividere in sillabe di almeno due segni ciascuna, e recita ad alta voce: ta-ta-ta, ta-ta, ta-ta-ta... Non ti viene in mente nulla? »

« A me no.’

« E a me sì. « Secretum finis Africae »... Ma se così fosse l’ultima parola dovrebbe avere la prima e la sesta lettera uguali, e così infatti è, ecco due volte il simbolo della Terra. E la prima lettera della prima parola, la S, dovrebbe essere uguale all’ultima della seconda: e infatti ecco ripetuto il segno della Vergine. Forse è la strada buona. Però potrebbe trattarsi solo di una serie di coincidenze. Occorre trovare una regola di corrispondenza... »

« Trovarla dove? »

« Nella testa. Inventarla. E poi vedere se è quella vera. Ma tra una prova e l’altra il gioco potrebbe portarmi via una giornata intera. Non di più perché — ricordalo — non c’è scrittura segreta che non possa essere decifrata con un po’ di pazienza. Ma ora rischiamo di far tardi e vogliamo visitare la biblioteca. Tanto più che senza lenti non riuscirò mai a leggere la seconda parte del messaggio, e tu non mi puoi aiutare perché questi segni, ai tuoi occhi... »

« Graecum est, non legitur, » completai umiliato.

« Appunto, e vedi che aveva ragione Bacone. Studia! Ma non perdiamoci d’animo. Riponiamo la pergamena e i tuoi appunti, e saliamo in biblioteca. Perché questa sera nemmeno dieci legioni infernali riusciranno a trattenerci. »

Mi segnai. « Ma chi può essere stato a precederci qui? Bencio? »

« Bencio ardeva dalla voglia di sapere cosa ci fosse tra le carte di Venanzio, ma non mi pareva nello spirito di giocarci tiri così maliziosi. In fondo ci aveva proposto un’alleanza, e poi mi aveva l’aria di non avere il coraggio di entrare di notte nell’Edificio. »

« Allora Berengario? O Malachia? »

« Berengario mi sembra aver l’animo di far cose del genere. In fondo è corresponsabile della biblioteca, è roso dal rimorso di averne tradito qualche segreto, riteneva che Venanzio avesse sottratto quel libro e voleva forse riportarlo al posto da cui viene. Non è riuscito a salire, ora sta nascondendo il volume da qualche parte e potremo coglierlo sul fatto, se Dio ci assiste, quando tenterà di rimetterlo a posto. »

« Ma potrebbe anche essere Malachia, mosso dalle stesse intenzioni. »

« Direi di no. Malachia aveva avuto tutto il tempo che voleva per frugare nel tavolo di Venanzio quando è rimasto solo per chiudere l’Edificio. Lo sapevo benissimo e non avevo modo di evitarlo. Ora sappiamo che non l’ha fatto. E se ben rifletti, non abbiamo motivo per sospettare che Malachia sapesse che Venanzio era entrato in biblioteca sottraendo qualcosa. Questo lo sanno Berengario e Bencio e lo sappiamo tu e io. In seguito alla confessione di Adelmo potrebbe saperlo Jorge, ma non era certo lui l’uomo che si precipitava con tanta foga dalla scala a chiocciola... »

« Allora o Berengario o Bencio... »

« E perché no Pacifico da Tivoli o un altro dei monaci che abbiamo visto qui oggi? O Nicola il vetraio, che sa dei miei occhiali? O quel bizzarro personaggio di Salvatore, che ci han detto girar di notte per chissà quali faccende? Dobbiamo stare attenti a non restringere il campo dei sospetti solo perché le rivelazioni di Bencio ci hanno orientato in una sola direzione. Bencio forse voleva confonderci.

« Ma vi è parso sincero. »

« Certo. Ma ricordati che il primo dovere di un buon inquisitore è quello di sospettare per primi coloro che ti paiono sinceri. »

« Brutto lavoro quello dell’inquisitore, » dissi.

« Per questo l’ho abbandonato. E come vedi mi tocca riprenderlo. Ma orsù, alla biblioteca. »

Notte.


Dove si penetra finalmente nel labirinto, si hanno strane visioni e, come accade nei labirinti, ci si perde.
Rimontammo allo scriptorium, questa volta per la scala orientale, che saliva anche al piano proibito, il lume alto davanti a noi. Io pensavo alle parole di Alinardo sul labirinto e mi attendevo cose spaventevoli.

Fui sorpreso, come emergemmo nel luogo in cui non avremmo dovuto entrare, di trovarmi in una sala a sette lati, non molto ampia, priva di finestre, in cui regnava, come del resto in tutto il piano, un forte odore di stantio o di muffa. Nulla di terrificante.

La sala, dissi, aveva sette pareti, ma solo su quattro di esse si apriva, tra due colonnine incassate nel muro, un varco, un passaggio abbastanza ampio sormontato da un arco a tutto sesto. Lungo le pareti chiuse si addossavano enormi armadi, carichi di libri disposti con regolarità. Gli armadi portavano un cartiglio numerato e così pure ogni loro singolo ripiano: chiaramente gli stessi numeri che avevamo visto nel catalogo. In mezzo alla stanza un tavolo, anch’esso ripieno di libri. Su tutti i volumi un velo abbastanza leggero di polvere, segno che i libri venivano puliti con una certa frequenza. E anche per terra non vi era lordura di sorta. Sopra all’arco di una delle porte, un grande cartiglio, dipinto sul muro che recava le parole: « Apocalypsis Iesu Christi ». Non pareva sbiadito, anche se i caratteri erano antichi. Ci avvedemmo dopo, anche nelle altre stanze, che questi cartigli erano in verità incisi nella pietra, e abbastanza profondamente, e poi le cavità erano state riempite con della tinta, come si usa per affrescare le chiese.

Passammo per uno dei varchi. Ci trovammo in un’altra stanza, dove si apriva una finestra, che in luogo dei vetri portava lastre di alabastro, con due pareti piene e un varco, dello stesso tipo di quello da cui eravamo appena passati, che dava su un’altra stanza, la quale aveva due pareti piene anch’esse, una con finestra, e un’altra porta che si apriva davanti a noi. Nelle due stanze due cartigli simili nella forma al primo che avevamo visto, ma con altre parole. Il cartiglio della prima diceva: « Super thronos viginti quatuor », e quello della seconda: « Nomen illi mors ». Per il resto, anche se le due stanze erano più piccole di quella da cui eravamo entrati in biblioteca (infatti quella era eptagonale e queste due rettangolari) l’arredo era lo stesso: armadi con libri e tavolo centrale.

Accedemmo alla terza stanza. Essa era vuota di libri e senza cartiglio. Sotto alla finestra un altare di pietra. Vi erano tre porte, una da cui eravamo entrati, l’altra che dava sulla stanza eptagonale già visitata, una terza che ci immise in una nuova stanza, non dissimile dalle altre, salvo che per il cartiglio che diceva: « Obscuratus est sol et aer ». Di qui si passava a una nuova stanza, il cui cartiglio diceva « Facta est grando et ignis »; era priva di altre porte, ovvero, arrivati a quella stanza non si poteva procedere e occorreva tornare indietro.

« Ragioniamo, » disse Guglielmo. « Cinque stanze quadrangolari o vagamente trapezoidali, con una finestra ciascuna, che girano intorno a una stanza eptagonale senza finestre a cui sale la scala. Mi pare elementare. Siamo nel torrione orientale, ogni torrione dall’esterno presenta cinque finestre e cinque lati. Il conto torna. La stanza vuota è proprio quella che guarda a oriente, nella stessa direzione del coro della chiesa, la luce del sole all’alba illumina l’altare, il che mi sembra giusto e pio. L’unica idea astuta mi pare quella delle lastre di alabastro. Di giorno filtrano una bella luce, di notte non lasciano trasparire neppure i raggi lunari. Non è poi un gran labirinto. Ora vediamo dove portano le altre due porte della stanza eptagonale. Credo che ci orienteremo facilmente. »

Il mio maestro si sbagliava e i costruttori della biblioteca erano stati più abili di quanto credessimo. Non so bene spiegare cosa avvenne, ma come abbandonammo il torrione, l’ordine delle stanze si fece più confuso. Alcune avevano due, altre tre porte. Tutte avevano una finestra, anche quelle che imboccavamo partendo da una stanza con finestra e pensando di andare verso l’interno dell’Edificio. Ciascuna aveva sempre lo stesso tipo di armadi e di tavoli, i volumi in bell’ordine ammassati sembravano tutti uguali e non ci aiutavano certo a riconoscere il luogo con un colpo d’occhio. Tentammo di orientarci coi cartigli. Una volta avevamo attraversato una stanza in cui era scritto « In diebus illis » e dopo alcuni giri ci parve di essere tornati laggiù. Ma ricordavamo che la porta davanti alla finestra immetteva in una stanza in cui era scritto « Primogenitus mortuorum », mentre ora ne trovavamo un’altra che diceva di nuovo « Apocalypsis Jesu Christi », e non era la sala eptagonale da cui eravamo partiti. Questo fatto ci convinse che talora i cartigli si ripetevano uguali in stanze diverse. Trovammo due stanze con « Apocalypsis » una appresso all’altra, e subito dopo una con « Cecidit de coelo stella magna ».

Da dove provenissero le frasi dei cartigli era evidente, si trattava di versetti dell’Apocalisse di Giovanni, ma non era affatto chiaro né perché fossero dipinti sui muri, né secondo quale logica fossero disposti. Ad accrescere la nostra confusione, rilevammo che alcuni cartigli, non molti, erano in color rosso anziché in nero.

A un certo punto ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza (quella era riconoscibile perché vi si apriva l’imbocco della scala), e riprendemmo a muoverci verso la nostra destra cercando di andare diritti di stanza in stanza. Passammo per tre stanze e poi ci trovammo di fronte a una parete chiusa. L’unico passaggio immetteva in una nuova stanza che aveva solo un’altra porta, uscendo dalla quale percorremmo altre quattro stanze e ci trovammo di nuovo di fronte a una parete. Tornammo alla stanza precedente che aveva due uscite, imboccammo quella non ancora tentata, passammo in una nuova stanza, e ci ritrovammo nella sala eptagonale di partenza.

« Come si chiamava l’ultima stanza da cui siamo tornati indietro? chiese Guglielmo.

Feci uno sforzo di memoria: « Equus albus. »

« Bene, ritroviamola. » E fu facile. Di lì, se non si voleva tornare sui propri passi, non c’era che da passare alla stanza detta « Gratia vobis et pax », e di lì a destra ci parve di trovare un nuovo passaggio che non ci riportasse indietro. In effetti trovammo ancora « In diebus illis » e « Primogenitus mortuorum » (erano le stesse stanze di poco prima?) ma infine giungemmo in una stanza che non ci pareva di aver ancora visitato: « Tertia pars terrae combusta est ». Ma a quel punto non sapevamo più dove eravamo rispetto al torrione orientale.

Protendendo il lume in avanti mi spinsi nelle stanze seguenti. Un gigante di proporzioni minacciose, dal corpo ondulato e fluttuante come quello di un fantasma, mi venne incontro.

« Un diavolo! » gridai e poco mancò mi cadesse il lume, mentre mi voltavo di colpo e mi rifugiavo tra le braccia di Guglielmo. Questi mi prese il lume dalle mani e scostandomi si fece avanti con una decisione che mi parve sublime. Vide anch’egli qualcosa, perché arretrò bruscamente. Poi si protese di nuovo in avanti e alzò la lucerna. Scoppiò a ridere.

« Veramente ingegnoso. Uno specchio! »

« Uno specchio? »

« Sì, mio prode guerriero. Ti sei lanciato con tanto coraggio su un nemico vero, poco fa nello scriptorium, e ora ti spaventi di fronte alla tua immagine. Uno specchio, che ti rimanda la tua immagine ingrandita e distorta. »

Mi prese per mano e mi condusse di fronte alla parete che fronteggiava l’ingresso della stanza. In una lastra di vetro ondulata, ora che il lume l’illuminava più da vicino, vidi le nostre due immagini, grottescamente deformate, che mutavano di forma e di altezza a seconda di quanto ci approssimassimo o ci allontanassimo.

« Devi leggerti qualche trattato di ottica, » disse Guglielmo divertito, « come certo l’hanno letto i fondatori della biblioteca. I migliori sono quelli degli arabi. Alhazen compose un trattato « De aspectibus » in cui, con precise dimostrazioni geometriche, ha parlato della forza degli specchi. Alcuni dei quali, a seconda di come è modulata la loro superficie, possono ingrandire le cose più minuscole (e che altro sono le mie lenti?), altri fanno apparire le immagini rovesciate, o oblique, o mostrano due oggetti in luogo di uno, e quattro in luogo di due. Altri ancora, come questo, fanno di un nano un gigante o di un gigante un nano. »

« Gesù Signore! » dissi. « Sono dunque queste le visioni che qualcuno dice di aver avuto in biblioteca? »

« Forse. Un’idea davvero ingegnosa. » Lesse il cartiglio sul muro, sopra lo specchio: « Super thronos viginti quatuor ». « L’abbiamo già trovato, ma era una sala senza specchio. E questa tra l’altro non ha finestre, eppure non è eptagonale. Dove siamo? » Si guardò intorno e si avvicinò a un armadio: « Adso, senza quei benedetti oculi ad legendum non riesco a capire cosa ci sia scritto su questi libri. Leggimi qualche titolo. »

Presi un libro a caso: « Maestro non è scritto! »

« Come? Vedo che è scritto, cosa leggi? »

« Non leggo. Non sono lettere dell’alfabeto e non è greco, lo riconoscerei. Sembrano vermi, serpentelli, caccole di mosche... »

« Ah, è arabo. Ce ne sono altri così? »

« Sì, alcuni. Ma eccone uno in latino, se Dio vuole. Al... Al Kuwarizmi, ’Tabulae’. »

« Le tavole astronomiche di Al Kuwarizmi, tradotte da Adelardo da Bath! Opera rarissima! Va avanti. »

« Isa ibn Ali, ’De oculis’, Alkindi, ’De radiis stellatis’... »

« Guarda ora sul tavolo. »

Aprii un grande volume che giaceva sul tavolo, un ’De bestiis’. Capitai su una pagina finemente miniata dove era rappresentato un bellissimo unicorno.

« Bella fattura, » commentò Guglielmo che riusciva a vedere bene le immagini. « E quello? »

Lessi: « ’Liber monstrorum de diversis generibus’. Anche questo con belle immagini. ma mi paiono più antiche. »

Guglielmo piegò il volto sul testo: « Miniato da monaci irlandesi, almeno cinque secoli fa. Il libro dell’unicorno è invece molto più recente, mi pare fatto al modo dei francesi. » Ancora una volta ammirai la dottrina del mio maestro. Entrammo nella stanza successiva e percorremmo le quattro stanze seguenti, tutte con finestre, e tutte piene di volumi in lingue ignote, più alcuni testi di scienze occulte, e arrivammo a una parete che ci costrinse a tornare indietro perché le ultime cinque stanze penetravano le une nelle altre senza consentire altre uscite.

« Dall’inclinazione dei muri, dovremmo essere nel pentagono di un altro torrione, » disse Guglielmo, « ma non c’è la sala eptagonale centrale, forse ci sbagliamo. »

« Ma le finestre? » dissi. « Come possono esserci tante finestre? Impossibile che tutte le stanze diano sull’esterno. »

« Dimentichi il pozzo centrale, molte di quelle che abbiamo visto sono finestre che danno sull’ottagono del pozzo. Se fosse giorno, la differenza della luce ci direbbe quali sono le finestre esterne e quali le interne, e forse persino ci rivelerebbe la posizione della stanza rispetto al sole. Ma di sera non si avverte nessuna differenza. Torniamo indietro. »

Ritornammo nella stanza dello specchio e piegammo verso la terza porta dalla quale ci pareva di non essere ancora passati. Vedemmo davanti a noi una fuga di tre o quattro stanze, e verso l’ultima intravvedemmo un chiarore.

« C’è qualcuno! » esclamai con voce soffocata.

« Se c’è, si è già accorto del nostro lume, » disse Guglielmo coprendo tuttavia la fiamma con la mano. Ristemmo per un minuto o due. Il chiarore continuava a oscillare lievemente, ma senza che si facesse più forte o più debole.

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