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Il nome della rosa


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« Come mai Venanzio faceva questa traduzione? » chiese Guglielmo a Berengario che ci stava accanto.

« E’ stata chiesta all’abbazia dal signore di Milano e l’abbazia ne ricaverà un diritto di prelazione sulla produzione di vino di alcuni poderi che stanno a oriente, » Berengario indicò con la mano lontano. Ma subito aggiunse: « Non è che l’abbazia si presti a lavori venali per i laici. Ma il committente si è adoperato affinché questo prezioso manoscritto greco ci fosse dato in prestito dal doge di Venezia che lo ebbe dall’imperatore di Bisanzio, e quando Venanzio avesse terminato il suo lavoro ne avremmo fatto due copie, una per il committente e una per la nostra biblioteca. »

« Che quindi non disdegna raccogliere anche favole pagane, » disse Guglielmo.

« La biblioteca è testimonianza della verità e dell’errore, » disse allora una voce alle nostre spalle. Era Jorge. Ancora una volta mi stupii (ma molto avrei dovuto stupirmi ancora nei giorni seguenti) per il modo inopinato in cui quel vecchio appariva d’improvviso, come se noi non vedessimo lui e lui vedesse noi. Mi chiesi anche cosa mai facesse un cieco nello scriptorium, ma mi resi conto in seguito che Jorge era onnipresente in tutti i luoghi dell’abbazia. E sovente stava nello scriptorium, seduto su uno scranno presso al camino, e pareva seguisse tutto quello che avveniva nella sala. Una volta lo udii dal suo posto domandare ad alta voce: « Chi sale? » e si rivolgeva a Malachia che, i passi attutiti dalla paglia, stava avviandosi alla biblioteca. I monaci tutti lo avevano in grande stima e si rivolgevano sovente a lui leggendogli brani di difficile comprensione, consultandolo per uno scolio o chiedendogli lumi sul come rappresentare un animale o un santo. Ed egli guardava nel vuoto coi suoi occhi spenti, come fissasse pagine che aveva vivide nella memoria e rispondeva che i falsi profeti sono abbigliati come vescovi e le rane escono loro dalla bocca, o quali erano le pietre che dovevano adornare le mura della Gerusalemme celeste, o che gli arimaspi van rappresentati nelle mappe presso alla terra del prete Gianni — raccomandando di non eccedere nel farli seducenti nella loro mostruosità, ché bastava fossero rappresentati in modo di emblema, riconoscibili ma non concupiscibili, o repellenti sino al riso.

Una volta lo udii consigliare uno scoliaste su come interpretare la recapitulatio nei testi di Ticonio giusta la mente di santo Agostino, acché si evitasse l’eresia donatista. Un’altra volta lo udii dar consigli sul come, commentando, distinguere gli eretici dagli scismatici. O ancora, a uno studioso perplesso, dire quale libro avrebbe dovuto cercare nel catalogo della biblioteca, e pressappoco in quale foglio ne avrebbe trovato menzione, assicurandogli che il bibliotecario glielo avrebbe certo consegnato, perché si trattava di opera ispirata da Dio. Infine un’altra volta lo udii dire che un tale libro non andava ricercato, perché esisteva, è vero, nel catalogo, ma era stato rovinato dai topi cinquant’anni prima, e si polverizzava sotto le dita di chi ormai lo toccasse. Egli era insomma la memoria stessa della biblioteca e l’anima dello scriptorium. Talora ammoniva i monaci che udiva chiacchierare tra loro: « Affrettatevi a lasciare testimonianza della verità, ché i tempi sono vicini! » e alludeva alla venuta dell’Anticristo.

« La biblioteca è testimonianza della verità e dell’errore, » disse dunque Jorge.

« Certo, Apuleio e Luciano erano colpevoli di molti errori, » disse Guglielmo. « Ma questa favola contiene sotto il velame delle proprie finzioni anche una buona morale, perché insegna quanto si paghino i propri errori e inoltre credo che la storia dell’uomo trasformato in asino alluda alla metamorfosi dell’anima che cade nel peccato. »

« Può darsi, » disse Jorge.

« Però adesso capisco perché Venanzio durante quella conversazione di cui mi disse ieri fosse così interessato ai problemi della commedia; infatti anche le favole di questo tipo possono essere assimilate alle commedie degli antichi. Entrambe non narrano di uomini che esistettero veramente, come le tragedie, ma, dice Isidoro, sono finzioni: ’Fabulae poetae a FANDO nominaverunt quia non sunt RES FACTAE sed tantum loquendo FICTAE’. »

A tutta prima non capii perché Guglielmo si fosse inoltrato in quella dotta discussione e proprio con un uomo che pareva non amare simili argomenti, ma la risposta di Jorge mi disse quanto il mio maestro fosse stato sottile.

« Quel giorno non si discuteva di commedie, ma solo della liceità del riso, » disse accigliato Jorge. E io mi ricordavo benissimo che quando Venanzio aveva accennato a quella discussione, proprio il giorno prima, Jorge aveva asserito di non ricordarsene.

« Ah, » disse con noncuranza Guglielmo, « credevo aveste parlato delle menzogne dei poeti e degli enigmi arguti... »

« Si parlava del riso, » disse seccamente Jorge. « Le commedie erano scritte dai pagani per muovere gli spettatori al riso, e male facevano. Gesù Nostro Signore non raccontò mai commedie né favole, ma solo limpide parabole che allegoricamente ci istruiscono su come guadagnarci il paradiso, e così sia. »

« Mi chiedo, » disse Guglielmo, « perché siate tanto contrario a pensare che Gesù abbia mai riso. Io credo che il riso sia una buona medicina, come i bagni, per curare gli umori e le altre affezioni del corpo, in particolare la melanconia. »

« I bagni sono cosa buona, » disse Jorge, « e lo stesso Aquinate li consiglia per rimuovere la tristezza, che può essere passione cattiva quando non si rivolga a un male che possa essere rimosso attraverso l’audacia. I bagni restituiscono l’equilibrio degli umori. Il riso squassa il corpo, deforma i lineamenti del viso, rende l’uomo simile alla scimmia. »

« Le scimmie non ridono, il riso è proprio dell’uomo, è segno della sua razionalità, » disse Guglielmo.

« E’ segno della razionalità umana anche la parola e con la parola si può bestemmiare Dio. Non tutto ciò che è proprio dell’uomo è necessariamente buono. Il riso è segno di stoltezza. Chi ride non crede in ciò di cui si ride, ma neppure lo odia. E dunque ridere del male significa non disporsi a combatterlo e ridere del bene significa disconoscere la forza per cui il bene è diffusivo di sé. Per questo la Regola dice: ’decimus humilitatis gradus est si non sit facilis ac promptus in risu, quia scriptum est: stultus in risu exaltat vocem suam.’ »

« Quintiliano, » interruppe il mio maestro, « dice che il riso è da reprimere nel panegirico, per dignità, ma è da incoraggiare in molti altri casi. Tacito loda l’ironia di Calpurnio Pisone, Plinio il giovane scrisse: ’aliquando praeterea rideo, iocor, ludo, homo sum.’ »

« Erano pagani, » replicò Jorge. « La Regola dice: ’scurrilitates vero vel verba otiosa et risum moventia aeterna clausura in omnibus locis damnamus, et ad talia eloquia discipulum aperire os non permittimus.

« Però quando già il verbo di Cristo aveva trionfato sulla terra, Sinesio di Cirene dice che la divinità ha saputo combinare armoniosamente comico e tragico, ed Elio Sparziano dice dell’imperatore Adriano, uomo di elevati costumi e di animo naturaliter cristiano, che seppe mescolare momenti di gaiezza a momenti di gravità. E infine Ausonio raccomanda di dosare con moderazione il serio e il giocoso.

« Ma Paolino da Nola e Clemente di Alessandria ci misero in guardia contro queste stoltezze, e Sulpicio Severo dice che san Martino non fu mai visto da alcuno né in preda all’ira né in preda all’ilarità. »

« Però ricorda del santo alcune risposte spiritualiter salsa, » disse Guglielmo.

« Erano pronte e sapienti, non ridicole. San Ephraim ha scritto una parenesi contro il riso dei monaci, e nel « De habitu et conversatione monachorum » si raccomanda di evitare oscenità e lepidezze come fossero il veleno degli aspidi! »

« Ma Ildeberto disse: ’admittenda tibi joca sunt post seria quaedam, sed tamen et dignis ipsa gerenda modis.’ E Giovanni di Salisbury ha autorizzato una modesta ilarità. E infine l’Ecclesiastico, di cui avete citato il passo a cui si riferisce la vostra Regola, dove si dice che il riso è proprio dello stolto, ammette almeno un riso silenzioso, dell’animo sereno. »

« L’animo è sereno solo quando contempla la verità e si diletta del bene compiuto, e della verità e del bene non si ride. Ecco perché Cristo non rideva. Il riso è fomite di dubbio. »

« Ma talora è giusto dubitare. »

« Non ne vedo la ragione. Quando si dubita occorre rivolgersi a un’autorità, alle parole di un padre o di un dottore, e cessa ogni ragione di dubbio. Mi sembrate imbevuto di dottrine discutibili, come quelle dei logici di Parigi. Ma san Bernardo seppe bene intervenire contro il castrato Abelardo che voleva sottomettere tutti i problemi al vaglio freddo e senza vita di una ragione non illuminata dalle scritture, pronunciando il suo è così e non è così. Certo colui che accetti queste idee pericolosissime può anche apprezzare il gioco dell’insipiente che ride di ciò di cui solo si deve sapere l’unica verità, che è già stata detta una volta per tutte. Così ridendo l’insipiente dice implicitamente ’Deus non est’. »

« Venerabile Jorge, mi sembrate ingiusto quando trattate da castrato Abelardo, perché sapete che incorse in tale triste condizione per la nequizia altrui... »

« Per i suoi peccati. Per l’albagia della sua fiducia nella ragione dell’uomo. Così la fede dei semplici venne irrisa, i misteri di Dio furono sviscerati (o si tentò, stolti coloro che lo tentarono), questioni che riguardavano le cose altissime vennero trattate temerariamente, si irrise ai padri perché avevano ritenuto che tali questioni andavano piuttosto sopite che sciolte. »

« Non sono d’accordo, venerabile Jorge. Dio vuole da noi che esercitiamo la nostra ragione su molte cose oscure su cui la scrittura ci ha lasciato liberi di decidere. E quando qualcuno vi propone di credere a una proposizione voi dovete prima esaminare se essa è accettabile, perché la nostra ragione è stata creata da Dio, e ciò che piace alla nostra ragione non può non piacere alla ragione divina, sulla quale peraltro sappiamo solo quello che, per analogia e spesso per negazione, ne inferiamo dai procedimenti della nostra ragione. E allora vedete che talora, per minare la falsa autorità di una proposizione assurda che ripugna alla ragione, anche il riso può essere uno strumento giusto. Spesso il riso serve anche a confondere i malvagi e far rifulgere la loro stoltezza. Si racconta di san Mauro che i pagani lo posero nell’acqua bollente ed egli si lamentò che il bagno fosse troppo freddo; il governatore pagano mise stoltamente la mano nell’acqua per controllare, e si ustionò. Bella azione di quel santo martire che ridicolizzò i nemici della fede. »

Jorge sogghignò: « Anche negli episodi che raccontano i predicatori si trovano molte fole. Un santo immerso nell’acqua bollente soffre per Cristo e trattiene le sue grida, non gioca tiri da bambini ai pagani! »

« Vedete? » disse Guglielmo, « questa storia vi pare ripugnare alla ragione e l’accusate di essere ridicola! Sia pure tacitamente e controllando le vostre labbra, voi state ridendo di qualcosa e volete che anch’io non la prenda sul serio. Ridete del riso, ma ridete. »

Jorge ebbe un gesto di fastidio: « Giocando sul riso mi trascinate in discorsi vani. Ma voi sapete che Cristo non rideva. »

« Non ne sono sicuro. Quando invita i farisei a gettare la prima pietra, quando chiede di chi sia l’effige sulla moneta da pagare in tributo, quando gioca con le parole e dice ’Tu es petrus’, io credo che egli dicesse cose argute, per confondere i peccatori, per sostenere l’animo dei suoi. Parla con arguzia anche quando dice a Caifa: ’Tu l’hai detto.’ E Gerolamo quando commenta Geremia, dove Dio dice a Gerusalemme ’nudavi femora contra faciem tuam’, spiega: ’sive nudabo et relevabo femora et posteriora tua.’ Persino Dio dunque si esprime per arguzie per confondere coloro che vuol punire. E sapete benissimo che nel momento più acceso della lotta tra cluniacensi e cistercensi i primi accusarono i secondi, per renderli ridicoli, di non portar brache. E nello « Speculum Stultorum » si racconta dell’asino Brunello che si chiede cosa accadrebbe se di notte il vento sollevasse le coperte e il monaco si vedesse le pudenda... »

I monaci intorno risero e Jorge si infuriò: « Mi state trascinando questi confratelli in una festa dei folli. Lo so che è uso tra i francescani accattivarsi le simpatie del popolo con stoltezze di questo genere, ma di questi ludi vi dirò quello che dice un verso che udii da uno dei vostri predicatori: tum podex carmen extulit horridulum. »

La reprimenda era un po’ troppo forte, Guglielmo era stato impertinente, ma ora Jorge lo accusava di emettere peti dalla bocca. Mi chiesi se questa risposta severa non doveva significare un invito, da parte del monaco anziano, a uscire dallo scriptorium. Ma vidi Guglielmo, così combattivo poco prima, farsi mansuetissimo.

« Vi chiedo perdono, venerabile Jorge, » disse. « La mia bocca ha tradito i miei pensieri, non volevo mancarvi di rispetto. Forse quello che dite è giusto, e io mi sbagliavo. »

Jorge, di fronte a quest’atto di squisita umiltà, emise un grugnito che poteva esprimere sia soddisfazione che perdono, e non poté far altro che tornare al suo posto, mentre i monaci, che durante la discussione si erano via via avvicinati, rifluivano ai loro tavoli da lavoro. Guglielmo si inginocchiò di nuovo davanti al tavolo di Venanzio e riprese a frugare tra le carte. Con la sua risposta umilissima Guglielmo si era guadagnato alcuni secondi di tranquillità. E quello che vide in quei pochi secondi ispirò le sue ricerche della notte che doveva venire.

Furono però davvero pochi secondi. Bencio si avvicinò subito fingendo di aver dimenticato il suo stilo sul tavolo quando si era avvicinato a sentire la conversazione con Jorge, e sussurrò a Guglielmo che aveva urgenza di parlargli, dandogli convegno dietro i balnea. Gli disse di allontanarsi per primo, che egli lo avrebbe raggiunto entro breve.

Guglielmo esitò qualche istante, poi chiamò Malachia, che dal suo tavolo di bibliotecario, presso al catalogo, aveva seguito tutto quanto era avvenuto e lo pregò, in virtù del mandato ricevuto dall’Abate (e calcò molto su questo suo privilegio) di porre qualcuno a guardia del tavolo di Venanzio, perché reputava utile alla sua inchiesta che nessuno vi si avvicinasse durante tutto il giorno, sino a che egli non avesse potuto tornare. Lo disse ad alta voce, perché in tal senso impegnava non solo Malachia a sorvegliare i monaci ma i monaci stessi a sorvegliare Malachia. Il bibliotecario non poté che acconsentire e Guglielmo si allontanò con me.

Mentre attraversavamo l’orto e ci portavamo presso i balnea, che erano a ridosso della costruzione dell’ospedale, Guglielmo osservò:

« Pare che a molti dispiaccia che io metta le mani su qualcosa che sta sopra o sotto il tavolo di Venanzio. »

« E cosa sarà? »

« Ho l’impressione che non lo sappiano neppure quelli a cui dispiace. »

« Dunque Bencio non ha nulla da dirci e ci sta solo attirando lontano dallo scriptorium? »

« Questo lo sapremo subito, » disse Guglielmo. Infatti dopo poco Bencio ci raggiunse.

Sesta.

Dove Bencio fa uno strano racconto da cui si apprendono cose poco edificanti sulla vita dell’abbazia.


Quello che Bencio ci disse fu alquanto confuso. Sembrava veramente che egli ci avesse attirato laggiù solo per allontanarci dallo scriptorium, ma pareva anche che, incapace di inventare un pretesto attendibile, egli ci dicesse anche frammenti di una verità più vasta che egli conosceva.

Egli ci disse che al mattino era stato reticente, ma che ora dopo matura riflessione, riteneva che Guglielmo dovesse sapere tutta la verità. Durante la famosa conversazione sul riso, Berengario aveva accennato al « finis Africae ». Cos’era? La biblioteca era piena di segreti, e specialmente di libri che non erano mai stati dati in lettura ai monaci. Bencio era stato colpito dalle parole di Guglielmo sull’esame razionale delle proposizioni. Egli riteneva che un monaco studioso avesse il diritto di conoscere tutto quello che la biblioteca custodiva, disse parole di fuoco contro il concilio di Soissons che aveva condannato Abelardo, e mentre parlava ci rendemmo conto che questo monaco ancora giovane, che si dilettava di retorica, era agitato da fremiti di indipendenza e faticava ad accettare i vincoli che la disciplina dell’abbazia poneva alla curiosità del suo intelletto. Io ho sempre appreso a diffidare di tali curiosità, ma so bene che al mio maestro questo atteggiamento non dispiaceva, e mi avvidi che simpatizzava con Bencio e gli prestava fede. In breve, Bencio ci disse che non sapeva di che segreti Adelmo, Venanzio e Berengario avessero parlato, ma che non gli sarebbe dispiaciuto che da quella triste storia ne addivenisse un po’ di luce sul modo in cui la biblioteca era amministrata, e che non disperava che il mio maestro, comunque avesse dipanato la matassa dell’inchiesta, ne traesse elementi per stimolare l’Abate ad allentare la disciplina intellettuale che pesava sui monaci — venuti da tanto lontano, come lui, aggiunse, proprio per nutrire la loro mente con le meraviglie celate nell’ampio ventre della biblioteca.

Io credo che Bencio fosse sincero nell’attendersi dall’inchiesta quello che diceva. Probabilmente però voleva al tempo stesso, come Guglielmo aveva previsto, riservarsi di frugare nel tavolo di Venanzio per primo, divorato com’era dalla curiosità, e per tenercene lontani era disposto a darci in cambio altre informazioni. Ed ecco quali furono.

Berengario era consumato, ormai molti tra i monaci lo sapevano, da un’insana passione per Adelmo, la stessa passione i cui nefasti la collera divina aveva colpito a Sodoma e Gomorra. Così Bencio si espresse, forse per riguardo alla mia giovane età. Ma chi ha vissuto la propria adolescenza in un monastero sa che, ancorché si sia mantenuto casto, di tali passioni ha ben sentito parlare, e talora ha dovuto guardarsi dalle insidie di chi ne era schiavo. Monacello com’ero non avevo già ricevuto io stesso, a Melk, da un monaco anziano, cartigli con versi che di solito un laico dedica a una donna? I voti monacali ci tengono lontani da quella sentina di vizi che è il corpo della femmina, ma spesso ci conducono vicinissimi ad altri errori. Posso infine nascondermi che la mia stessa vecchiaia è ancora oggi agitata dal demone meridiano quando mi accade di attardare il mio sguardo, in coro, sul volto imberbe di un novizio, puro e fresco come fanciulla?

Dico queste cose non per mettere in dubbio la scelta che ho fatto di dedicarmi alla vita monastica, ma per giustificare l’errore di molti a cui questo santo fardello risulta pesante. Forse per giustificare il delitto orribile di Berengario. Ma pare, secondo Bencio, che questo monaco coltivasse il suo vizio in modo ancora più ignobile, e cioè usando le armi del ricatto per ottenere da altri quanto la virtù e il decoro avrebbero dovuto sconsigliar loro di donare.

Dunque da tempo i monaci ironizzavano sugli sguardi teneri che Berengario lanciava ad Adelmo, che pare fosse di grande avvenenza. Mentre Adelmo, totalmente innamorato del suo lavoro, dal quale soltanto pareva trarre diletto, poco si prendeva cura della passione di Berengario. Ma forse, chi sa, egli ignorava che l’animo suo, nel profondo, lo inclinava alla stessa ignominia. Fatto sta che Bencio disse di aver sorpreso un dialogo tra Adelmo e Berengario, in cui Berengario, alludendo a un segreto che Adelmo gli chiedeva di svelargli, gli proponeva il turpe mercato che anche il lettore più innocente può immaginare. E pare che Bencio udisse dalle labbra di Adelmo parole di consenso, quasi dette con sollievo. Come se, ardiva Bencio, Adelmo altro in fondo non desiderasse, e gli fosse bastato trovare una ragione diversa dal desiderio carnale per acconsentire. Segno, argomentava Bencio, che il segreto di Berengario doveva riguardare arcani della sapienza, così che Adelmo potesse nutrire l’illusione di piegarsi a un peccato della carne per accontentare una voglia dell’intelletto. E, aggiunse Bencio con un sorriso, quante volte lui stesso non era agitato da voglie dell’intelletto così violente che per accontentarle avrebbe acconsentito ad assecondare voglie carnali non sue, anche contro la voglia carnale sua stessa.

« Non ci sono momenti, » chiese a Guglielmo, « in cui voi fareste anche cose riprovevoli per avere tra le mani un libro che cercate da anni? »

« Il saggio e virtuosissimo Silvestro Secondo, secoli fa, diede in dono una sfera armillare preziosissima per un manoscritto, credo, di Stazio o Lucano, » disse Guglielmo. Aggiunse poi, prudentemente: « Ma si trattava di una sfera armillare, non della propria virtù. »

Bencio ammise che il suo entusiasmo lo aveva trascinato oltre e riprese il racconto. La notte prima che Adelmo morisse, egli aveva seguito i due, mosso dalla curiosità. E li aveva visti, dopo compieta, avviarsi insieme al dormitorio. Aveva atteso a lungo tenendo socchiusa la porta della sua cella, non lontana dalla loro, e aveva visto chiaramente Adelmo scivolare, quando il silenzio era calato sul sonno dei monaci nella cella di Berengario. Aveva ancora vegliato, senza poter prendere sonno, sino a che aveva udito la porta di Berengario che si apriva e Adelmo che ne fuggiva quasi di corsa, con l’amico che cercava di trattenerlo. Berengario lo aveva seguito mentre Adelmo scendeva al piano inferiore. Bencio li aveva seguiti cautamente e all’imbocco del corridoio inferiore aveva visto Berengario, quasi tremante, che schiacciato in un angolo fissava la porta della cella di Jorge. Bencio aveva intuito che Adelmo si era gettato ai piedi del vecchio confratello per confessargli il suo peccato. E Berengario tremava, sapendo che il suo segreto veniva svelato, sia pure sotto il sigillo del sacramento.

Poi Adelmo era uscito, pallidissimo in viso, aveva allontanato da sé Berengario che cercava di parlargli, e si era precipitato fuori dal dormitorio, girando intorno all’abside della chiesa ed entrando in coro dal portale settentrionale (che di notte rimane sempre aperto). Probabilmente voleva pregare. Berengario lo aveva seguito, ma senza entrare in chiesa, e si aggirava per le tombe del cimitero torcendosi le mani.

Bencio non sapeva che fare quando si era accorto che una quarta persona si muoveva nei pressi. Anch’essa aveva seguito i due e certo non si era avveduta della presenza di Bencio, che si teneva ritto contro il tronco di una quercia piantata ai limiti del cimitero. Era Venanzio. Alla sua vista Berengario si era acquattato tra le tombe e Venanzio era entrato anch’esso in coro. A questo punto Bencio, temendo di essere scoperto, aveva fatto ritorno al dormitorio. Il mattino dopo il cadavere di Adelmo era stato trovato ai piedi della scarpata. E altro, Bencio, non sapeva.

Si appressava ormai l’ora del desinare. Bencio ci lasciò e il mio maestro non gli chiese altro. Noi rimanemmo per un poco dietro i balnea, poi passeggiammo per qualche minuto nell’orto, meditando su quelle singolari rivelazioni.

« Frangula, » disse a un tratto Guglielmo chinandosi a osservare una pianta, che in quel giorno di inverno riconobbe dall’arbusto. « Buono l’infuso di corteccia per le emorroidi. E quello è arctium lappa, un buon cataplasma di radici fresche cicatrizza gli eczemi della pelle. »

« Siete più bravo di Severino, » gli dissi, « ma ora fatemi sentire cosa pensate di ciò che abbiamo udito! »

« Caro Adso, dovresti imparare a ragionare con la tua testa. Bencio ci ha detto probabilmente la verità. Il suo racconto coincide con quello, peraltro così frammisto ad allucinazioni, di Berengario, questa mattina presto. Prova a ricostruire. Berengario e Adelmo fanno insieme una gran brutta cosa, lo avevamo già intuito. E Berengario deve aver svelato ad Adelmo quel segreto che rimane ahimè un segreto. Adelmo, dopo aver commesso il suo delitto contro la castità e le regole della natura, pensa solo a confidarsi con qualcuno che possa assolverlo, e corre da Jorge. Il quale ha carattere molto austero, ne abbiamo avuto le prove, e certo assale Adelmo con angoscianti reprimende. Forse non gli dà l’assoluzione, forse gli impone un’impossibile penitenza, non lo sappiamo, né Jorge ce lo dirà mai. Fatto sta che Adelmo corre in chiesa a prosternarsi davanti all’altare, ma non placa il suo rimorso. A questo punto viene avvicinato da Venanzio. Non sappiamo cosa si dicano. Forse Adelmo confida a Venanzio il segreto avuto in dono (o in pagamento) da Berengario, e che ormai non gli importa più nulla, dappoiché egli ha ormai un suo segreto ben più terribile e bruciante. Cosa accade a Venanzio? Forse, preso dalla stessa ardente curiosità che muoveva oggi anche il nostro Bencio, pago di ciò che ha saputo, lascia Adelmo ai suoi rimorsi. Adelmo si vede abbandonato, progetta di uccidersi, esce disperato nel cimitero e ivi incontra Berengario. Gli dice parole tremende, gli rinfaccia la sua responsabilità, lo chiama suo maestro di turpitudine. Credo proprio che il racconto di Berengario, spogliato di ogni allucinazione, fosse esatto. Adelmo gli ripete le stesse parole di disperazione che deve aver udito da Jorge. Ed ecco che Berengario se ne va sconvolto da una parte, e Adelmo va a uccidersi dall’altra. Poi viene il resto, di cui siamo stati quasi testimoni. Tutti credono che Adelmo sia stato ucciso, Venanzio ne trae l’impressione che il segreto della biblioteca sia ancor più importante di quanto non credesse, e continua la ricerca per conto proprio. Sino a che qualcuno non lo ferma, prima o dopo che egli abbia scoperto ciò che voleva. »

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