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Il nome della rosa


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« Chi lo uccide? Berengario? »

« Può essere. O Malachia, che deve custodire l’Edificio. O un altro. Berengario è sospettabile proprio perché è spaventato, e sapeva che ormai Venanzio possedeva il suo segreto. Malachia è sospettabile: custode dell’integrità della biblioteca, scopre che qualcuno l’ha violata, e uccide. Jorge sa tutto di tutti, possiede il segreto di Adelmo, non vuole che io scopra cosa Venanzio potrebbe aver trovato... Molti fatti consiglierebbero di sospettarlo. Ma dimmi tu come un uomo cieco può ucciderne un altro nel pieno delle forze, e come un vecchio, benché robusto, abbia potuto trasportare il cadavere nella giara. Ma infine, perché l’assassino non potrebbe essere lo stesso Bencio? Potrebbe averci mentito, essere mosso da fini inconfessabili. E perché limitare i sospetti ai soli che parteciparono alla conversazione sul riso? Forse il delitto ha avuto altri moventi, che non hanno nulla a che fare con la biblioteca. In ogni caso occorrono due cose: sapere come si entra in biblioteca di notte, e avere un lume. Per il lume pensaci tu. Gira in cucina all’ora di pranzo prendine uno... »

« Un furto? »

« Un prestito, alla maggior gloria del Signore. »

« Se è così, contate su di me. »

« Bravo. Quanto a entrare nell’Edificio, abbiamo visto da dove è apparso Malachia ieri notte. Oggi farò una visita alla chiesa e a quella cappella in particolare. Tra un’ora andremo a mensa. Dopo abbiamo una riunione con l’Abate. Vi sarai ammesso, perché ho chiesto di avere un segretario che prenda nota di quanto diremo. »

Nona.


Dove l’Abate si mostra fiero delle ricchezze della sua abbazia e timoroso degli eretici, e alla fine Adso dubita di aver fatto male ad andare per il mondo.
Trovammo l’Abate in chiesa, davanti all’altar maggiore. Stava seguendo il lavoro di alcuni novizi che avevano tratto da qualche penetrale una serie di vasi sacri, calici, patene, ostensori, e un crocifisso che non avevo visto durante la funzione della mattina. Non potei trattenere un’esclamazione di meraviglia di fronte alla sfolgorante bellezza di quelle sacre suppellettili. Era pieno mezzogiorno e la luce entrava a fiotti dalle finestre del coro, e di più ancora da quelle delle facciate, formando bianche cascate che, come mistici torrenti di divina sostanza, andavano a incrociarsi in vari punti della chiesa, inondando lo stesso altare.

I vasi, i calici, tutto rivelava la propria materia preziosa: tra il giallo dell’oro, il biancore immacolato degli avori e la trasparenza del cristallo, vidi rilucere gemme di ogni colore e dimensione, e riconobbi il giacinto, il topazio, il rubino, lo zaffiro, lo smeraldo, il crisolite, l’onice, il carbonchio e il diaspro e l’agata. E al tempo stesso mi avvidi di quanto al mattino, rapito prima nella preghiera, e poi sconvolto dal terrore, non avevo notato: il paliotto dell’altare e altri tre pannelli che gli facevano corona, erano interamente d’oro, e infine l’intero altare appariva d’oro da qualunque parte lo si guardasse.

L’Abate sorrise al mio stupore: « Queste ricchezze che vedete, » disse rivolto a me e al mio maestro, « e altre che vedrete ancora, sono il retaggio di secoli di pietà e devozione, e testimonio della potenza e santità di questa abbazia. Principi e potenti della terra, arcivescovi e vescovi hanno sacrificato a questo altare e agli oggetti che vi sono destinati gli anelli delle loro investiture, gli ori e le pietre che erano segno della loro grandezza, e li hanno voluti qui rifusi per la maggiore gloria del Signore e di questo suo luogo. Malgrado oggi l’abbazia sia stata funestata da un altro evento luttuoso, non possiamo dimenticare di fronte alla nostra fragilità la forza e la potenza dell’Altissimo. Si avvicinano le festività del Santo Natale, e stiamo cominciando a pulire gli arredi sacri, in modo che la nascita del Salvatore venga poi festeggiata con tutto lo sfarzo e la magnificenza che merita e vuole. Tutto dovrà apparire nel pieno del suo fulgore... » aggiunse guardando fissamente Guglielmo, e capii dopo perché insisteva così orgogliosamente a giustificare il suo operato, « perché pensiamo che sia utile e conveniente non nascondere, ma al contrario proclamare le divine elargizioni. »

« Certo, » disse Guglielmo con cortesia, « se la sublimità vostra ritiene che il Signore debba essere così glorificato, la vostra abbazia ha raggiunto la più grande eccellenza in questo contributo di lode. »

« E così si deve, » disse l’Abate. « Se anfore e fiale d’oro e piccoli mortai aurei era d’uso servissero per volere di Dio o ordine dei profeti a raccogliere il sangue di capre o di vitelli o della giovenca nel tempio di Salomone, tanto più vasi d’oro e pietre preziose, e tutto ciò che ha più valore tra le cose create, devono essere usati con continua reverenza e piena devozione per accogliere il sangue di Cristo! Se per una seconda creazione la nostra sostanza venisse a essere la stessa dei cherubini e dei serafini, sarebbe ancora indegno il servizio che essa potrebbe prestare a una vittima così ineffabile... »

« Così sia, » dissi.

« Molti obbiettano che una mente santamente ispirata, un puro cuore, un’intenzione piena di fede dovrebbero bastare per questa sacra funzione. Noi siamo i primi ad affermare esplicitamente e risolutamente che questa è la cosa essenziale: ma siamo convinti che si debba rendere l’omaggio anche attraverso l’esteriore ornamento della sacra suppellettile, perché è sommamente giusto e conveniente che noi serviamo il nostro Salvatore in tutte le cose, integralmente, Lui che non si è rifiutato di provvedere a noi in tutte le cose integralmente e senza eccezioni. »

« Questa è sempre stata l’opinione dei grandi del vostro ordine, » consentì Guglielmo, « e ricordo cose bellissime scritte sugli ornamenti delle chiese dal grandissimo e venerabile abate Sugero. »

« Così è, » disse l’Abate. « Vedete questo crocifisso. Non è ancora completo... » Lo prese in mano con infinito amore e lo considerò col volto illuminato di beatitudine. « Mancano qui ancora alcune perle né le ho trovate della giusta misura. Un tempo il santo Andrea si rivolse alla croce del Golgota dicendola adorna delle membra di Cristo come di perle. E di perle deve essere adorno questo umile simulacro di quel gran prodigio. Anche se ho ritenuto opportuno farvi incastonare, in questo punto, sopra il capo stesso del Salvatore, il più bel diamante che mai abbiate visto. » Accarezzò con mani devote, con le sue lunghe dita bianche, le parti più preziose del sacro legno, ovvero del sacro avorio, ché di questa splendida materia erano fatte le braccia della croce.

« Quando, mentre mi diletto di tutte le bellezze di questa casa di Dio, l’incanto delle pietre multicolori mi ha strappato alle cure esterne, e una degna meditazione mi ha indotto a riflettere, trasferendo ciò che è materiale a ciò che è immateriale, sulla diversità delle sacre virtù, allora mi sembra di trovarmi, per così dire, in una strana regione dell’universo che non sta più del tutto chiusa nel fango della terra né del tutto libera nella purezza del cielo. E mi sembra che, per grazia di Dio, io possa essere trasportato da questo mondo inferiore a quello superiore per via anagogica...

Parlava, e aveva rivolto il viso alla navata. Un fiotto di luce che penetrava dall’alto lo stava, per una particolare benevolenza dell’astro diurno, illuminando nel volto, e nelle mani che aveva aperte in forma di croce, rapito com’era dal fervore suo. « Ogni creatura, » disse, « sia essa visibile o invisibile, è una luce, portata all’essere dal padre delle luci. Questo avorio, quest’onice, ma anche la pietra che ci circonda sono una luce, perché io percepisco che sono buoni e belli, che esistono secondo le proprie regole di proporzione, che differiscono per genere e specie da tutti gli altri generi e specie, che sono definiti dal proprio numero, che non vengono meno al loro ordine, che cercano il loro luogo specifico conformemente alla loro gravità. E tanto più queste cose mi vengono rivelate quanto più la materia che io guardo è per sua natura preziosa, e tanto meglio si fa luce della potenza creatrice divina, in quanto se devo risalire alla sublimità della causa, inaccessibile nella sua pienezza, dalla sublimità dell’effetto, quanto meglio non mi parla della divina causalità un effetto mirabile quale l’oro o il diamante, se già di essa riescono a parlarmi financo lo sterco e l’insetto! E allora, quando in queste pietre percepisco tali cose superiori, l’anima piange, di gioia commossa, e non per vanità terrena o amore delle ricchezze, ma per amore purissimo della causa prima non causata. »

« Davvero questa è la più dolce delle teologie, » disse Guglielmo con perfetta umiltà, e pensai che usasse quella insidiosa figura di pensiero che i retori chiamano ironia; la quale si deve usare sempre facendola precedere dalla pronunciatio, che ne costituisce il segnale e la giustificazione; cosa che Guglielmo non faceva mai. Ragione per cui l’Abate, più incline all’uso delle figure di discorso, prese Guglielmo alla lettera e aggiunse, ancora in preda al suo mistico rapimento: « E’ la più immediata delle vie che ci pongono in contatto con l’Altissimo, materiale teofania. »

Guglielmo tossì educatamente: « Eh... oh... » disse. Così faceva quando voleva introdurre un altro argomento. Gli riuscì di farlo con buona grazia perché era suo costume — e credo sia tipico degli uomini della sua terra — iniziare ogni suo intervento con lunghi gemiti preliminari, come se avviare l’esposizione di un pensiero compiuto gli costasse un grande sforzo della mente. Mentre, mi ero ormai convinto, quanti più gemiti egli anteponeva al suo asserto, tanto più egli era sicuro della bontà della proposizione che esso esprimeva.

« Eh... oh... » disse dunque Guglielmo. « Dovremmo parlare dell’incontro e del dibattito sulla povertà... »

« La povertà... » disse ancora assorto l’Abate, come se faticasse a discendere da quella bella regione dell’universo in cui lo avevano rapito le sue gemme. « E’ vero, l’incontro... »

E incominciarono a discutere fittamente di cose che in parte già sapevo e in parte riuscii a capire ascoltando il loro colloquio. Si trattava, come ho già detto sin dall’inizio di questa mia cronaca fedele, della duplice querela che opponeva da un lato l’imperatore al papa, e dall’altro il papa ai francescani che nel capitolo di Perugia, sia pure con molti anni di ritardo, avevano fatte proprie le tesi degli spirituali sulla povertà di Cristo; e dell’intrico che si era formato unendo i francescani all’impero, intrico che — da triangolo di opposizioni e alleanze — si era ormai trasformato in un quadrato per l’intervento, ancora a me oscurissimo, degli abati dell’ordine di san Benedetto.

Io non colsi mai con chiarezza la ragione per cui gli abati benedettini avevano dato protezione e ricetto ai francescani spirituali, prima ancora che il loro stesso ordine ne condividesse in certo qual modo le opinioni. Perché se gli spirituali predicavano la rinuncia a ogni bene terreno, gli abati del mio ordine, ne avevo avuto quel giorno stesso la luminosa conferma, seguivano una via non meno virtuosa ma del tutto opposta. Ma credo che gli abati ritenessero che un eccessivo potere del papa significasse un eccessivo potere dei vescovi e delle città, mentre l’ordine mio aveva conservato intatta la sua potenza nei secoli proprio in lotta col clero secolare e i mercanti cittadini, ponendosi come diretto mediatore tra il cielo e la terra, e consigliere dei sovrani.

Avevo sentito tante volte ripetere la frase secondo cui il popolo di Dio si divideva in pastori (ovvero i chierici), cani (ovvero i guerrieri) e pecore, il popolo. Ma ho imparato in seguito che questa frase può essere ridetta in vari modi. I benedettini avevano sovente parlato non di tre ordini, ma di due grandi divisioni, una che riguardava l’amministrazione delle cose terrene e l’altra che riguardava l’amministrazione delle cose celesti. Per quanto riguardava le cose terrene valeva la divisione tra clero, signori laici e popolo, ma su questa tripartizione dominava la presenza dell’ordo monachorum, legame diretto tra il popolo di Dio e il cielo, e i monaci non avevano nulla a che vedere con quei pastori secolari che erano i preti e i vescovi, ignoranti e corrotti, proni ormai agli interessi delle città, dove le pecore non erano più ormai tanto i buoni e fedeli contadini, bensì i mercanti e gli artigiani. All’ordine benedettino non spiaceva che il governo dei semplici fosse affidato ai chierici secolari, purché lo stabilire la regola definitiva di questo rapporto competesse ai monaci, in diretto contatto con la sorgente di ogni potere terrestre, l’impero, così come lo erano con la sorgente di ogni potere celeste. Ecco perché, credo, molti abati benedettini, per restituire dignità all’impero contro il governo delle città (vescovi e mercanti uniti) accettarono anche di proteggere i francescani spirituali, di cui non condividevano le idee, ma la cui presenza faceva loro comodo, in quanto offriva all’impero buoni sillogismi contro lo strapotere del papa.

Queste erano le ragioni, ne arguii, per cui ora Abbone stava disponendosi a collaborare con Guglielmo, inviato dall’imperatore, per far da mediatore tra l’ordine francescano e la sede pontificia. Infatti, pur nella violenza della disputa che tanto faceva periclitare l’unità della chiesa, Michele da Cesena, più volte chiamato ad Avignone da papa Giovanni, si era finalmente disposto ad accettare l’invito, perché non voleva che il suo ordine si ponesse in urto definitivo col pontefice. Quale generale dei francescani voleva a un tempo e far trionfare le loro posizioni e ottenere il consenso papale, anche perché intuiva che senza il consenso del papa non avrebbe potuto rimanere a lungo alla testa dell’ordine.

Ma molti gli avevano fatto osservare che il papa lo avrebbe atteso in Francia per tendergli un tranello, imputarlo di eresia e processarlo E perciò consigliavano che l’andata di Michele ad Avignone fosse preceduta da alcune trattative. Marsilio aveva avuto un’idea migliore: inviare con Michele anche un legato imperiale che presentasse al papa il punto di vista dei sostenitori dell’imperatore. Non tanto per convincere il vecchio Cahors ma per rafforzare la posizione di Michele che, facendo parte di una legazione imperiale, non avrebbe potuto cadere così facilmente preda della vendetta pontificia.

Anche questa idea presentava tuttavia numerosi inconvenienti e non era realizzabile immantinenti. Di lì era venuta l’idea di un incontro preliminare tra i membri della legazione imperiale e alcuni inviati del papa, per provare le rispettive posizioni e stilare gli accordi per un incontro in cui la sicurezza dei visitatori italiani fosse garantita. Di organizzare questo primo incontro era stato appunto incaricato Guglielmo da Baskerville. Il quale avrebbe poi dovuto rappresentare il punto di vista dei teologi imperiali ad Avignone, se avesse ritenuto che il viaggio era possibile senza pericolo. Impresa non facile perché si supponeva che il papa, che voleva Michele da solo per poterlo ridurre più facilmente all’obbedienza, avrebbe inviato in Italia una legazione istruita in modo da far fallire, per quanto possibile, il viaggio degli inviati imperiali alla sua corte. Guglielmo si era mosso sino ad allora con grande abilità. Dopo lunghe consultazioni con vari abati benedettini (ecco la ragione delle molte tappe del nostro viaggio) aveva scelto l’abbazia dove eravamo proprio perché si sapeva che l’Abate era devotissimo all’impero e tuttavia, per la sua gran abilità diplomatica, non inviso alla corte pontificia. Territorio neutro, dunque, l’abbazia, dove i due gruppi avrebbero potuto incontrarsi.

Ma le resistenze del pontefice non erano finite. Egli sapeva che, una volta sul terreno dell’abbazia, la sua legazione sarebbe stata sottomessa alla giurisdizione dell’Abate: e siccome di essa avrebbero fatto parte anche membri del clero secolare, non accettava questa clausola, accampando timori di un tranello imperiale. Aveva posto quindi la condizione che l’incolumità dei suoi inviati fosse stata affidata a una compagnia di arcieri del re di Francia agli ordini di persona di sua fiducia. Di questo avevo vagamente udito Guglielmo discorrere con un ambasciatore del papa a Bobbio: si era trattato di definire la formula con cui designare i compiti di questa compagnia, ovvero cosa si intendesse per salvaguardia dell’incolumità dei legati pontifici. Si era accettata finalmente una formula proposta dagli avignonesi e che era parsa ragionevole: gli armati e chi li comandava avrebbero avuto giurisdizione « su tutti coloro che in qualche modo cercavano di attentare alla vita dei membri della legazione pontificia e di influenzarne il comportamento e il giudizio con atti violenti ». Allora il patto era parso ispirato a pure preoccupazioni formali. Ora, dopo i recenti fatti avvenuti all’abbazia, l’Abate era inquieto e manifestò i suoi dubbi a Guglielmo. Se la legazione arrivava all’abbazia mentre era ancora ignoto l’autore di due delitti (il giorno dopo le preoccupazioni dell’Abate avrebbero dovuto aumentare, perché i delitti sarebbero stati tre) si sarebbe dovuto ammettere che circolava entro quelle mura qualcuno capace di influenzare con atti violenti il giudizio e il comportamento dei legati pontifici.

A nulla valeva cercare di celare i crimini che erano stati commessi, perché se qualcosa d’altro fosse ancora avvenuto, i legati pontifici avrebbero pensato a un complotto ai loro danni. E dunque le soluzioni erano solo due. O Guglielmo scopriva l’assassino prima dell’arrivo della legazione (e qui l’Abate lo guardò fissamente come a rimproverarlo tacitamente di non essere ancora venuto a capo della faccenda) oppure occorreva avvertire lealmente il rappresentante del papa di quanto stava avvenendo e chiedere la sua collaborazione perché l’abbazia fosse posta sotto attenta sorveglianza durante il corso dei lavori. Cosa che all’Abate dispiaceva, perché significava rinunciare a parte della sua sovranità e porre i suoi stessi monaci sotto il controllo dei francesi. Ma non si poteva rischiare. Guglielmo e l’Abate erano entrambi contrariati per la piega che prendevano le cose, ma avevano poche alternative. Si ripromisero pertanto di prendere una decisione definitiva entro il giorno seguente. Per intanto non restava che affidarsi alla misericordia divina e alla sagacia di Guglielmo.

« Farò il possibile, vostra sublimità, » disse Guglielmo. « Ma d’altra parte non vedo come la cosa possa compromettere davvero l’incontro. Anche il rappresentante pontificio vorrà comprendere che c’è differenza tra l’opera di un pazzo, o di un sanguinario, o forse soltanto di un’anima smarrita, e i gravi problemi che uomini probi verranno a discutere. »

« Credete? » chiese l’Abate, guardando Guglielmo fissamente. « Non dimenticate che gli avignonesi sanno di incontrarsi con dei minoriti, e quindi con persone pericolosamente vicine ai fraticelli e ad altri più dissennati ancora dei fraticelli, a eretici pericolosi che si sono macchiati di delitti, » e qui l’Abate abbassò la voce, « rispetto ai quali i fatti, peraltro orribili, che sono accaduti qui impallidiscono come nebbia al sole. »

« Non si tratta della stessa cosa! » esclamò Guglielmo con vivacità. « Non potete mettere alla stessa stregua i minoriti del capitolo di Perugia e qualche banda di eretici che hanno frainteso il messaggio del vangelo trasformando la lotta contro le ricchezze in una serie di vendette private o di follie sanguinarie... »

« Non sono passati molti anni da che, non molte miglia da qui, una di queste bande, come voi le chiamate, ha messo a ferro e fuoco le terre del vescovo di Vercelli e le montagne del novarese, » disse seccamente l’Abate.

« Parlate di fra Dolcino e degli apostolici... »

« Degli pseudo apostoli, » corresse l’Abate. E ancora una volta sentivo citare fra Dolcino e gli pseudo apostoli, e ancora una volta con tono circospetto, e quasi una sfumatura di terrore.

« Degli pseudo apostoli, » ammise volentieri Guglielmo. « Ma essi non avevano nulla a che vedere coi minoriti. « 

« Dei quali professavano la stessa reverenza per Gioacchino di Calabria, » incalzò l’Abate, « e potete chiederlo al vostro confratello Ubertino. »
« Faccio rilevare a vostra sublimità che ora è confratello vostro, » disse Guglielmo, con un sorriso e con una specie di inchino, come per complimentarsi con l’Abate per l’acquisto che il suo ordine aveva fatto accogliendo un uomo di tanta reputazione.

« Lo so, lo so, » sorrise l’Abate. « E voi sapete con quanta fraterna sollecitudine il nostro ordine ha accolto gli spirituali quando sono incorsi nelle ire del papa. Non parlo solo di Ubertino ma anche di molti altri fratelli più umili, dei quali poco si sa, e dei quali forse si dovrebbe sapere di più. Perché è accaduto che noi accogliessimo transfughi che si sono presentati vestiti del saio dei minoriti, e dopo ho appreso che le varie vicende della loro vita li avevano portati, per un tratto, assai vicini ai dolciniani... »

« Anche qui? » domandò Guglielmo.

« Anche qui. Vi sto rivelando qualcosa di cui in verità so molto poco, e in ogni caso non abbastanza per formulare accuse. Ma visto che state indagando sulla vita di questa abbazia è bene che anche voi conosciate queste cose. Vi dirò allora che sospetto, badate, sospetto in base a cose che ho udito o indovinato, che ci sia stato un momento molto buio nella vita del nostro cellario, che appunto arrivò qui anni fa seguendo l’esodo dei minoriti. »

« Il cellario? Remigio da Varagine un dolciniano? Mi pare l’essere più mite e in ogni caso meno preoccupato da madonna povertà che io abbia mai visto... » disse Guglielmo.

« E infatti non posso dire nulla di lui, e mi avvalgo dei suoi buoni servizi, per cui tutta la comunità gli va riconoscente. Ma dico questo, per farvi capire come sia facile trovare connessioni tra un frate e un fraticello. »

« Ancora una volta la vostra magnitudine è ingiusta, se così posso dire, » interloquì Guglielmo. « Stavamo parlando dei dolciniani, non dei fraticelli. Dei quali molto si potrà dire, senza neppur sapere di chi si parla, perché ve ne sono di molte sorte, ma non che siano dei sanguinari. Li si potrà al massimo rimproverare di mettere in pratica senza troppo senno cose che gli spirituali hanno predicato con maggior misura e animati da vero amor di Dio, e in questo convengo che esistono confini assai esili tra gli uni e gli altri... »

« Ma i fraticelli sono eretici! » interruppe seccamente l’Abate. « Non si limitano a sostenere la povertà di Cristo e degli apostoli, dottrina che, anche se non mi sento di condividere, può essere utilmente opposta all’albagìa avignonese. I fraticelli traggono da tale dottrina un sillogismo pratico, ne inferiscono un diritto alla rivolta, al saccheggio, alla perversione dei costumi.’

« Ma quali fraticelli? »

« Tutti, in genere. Lo sapete che si sono macchiati di delitti innominabili, che non riconoscono il matrimonio, che negano l’inferno, che commettono sodomia, che abbracciano l’eresia bogomila dell’ordo Bulgarie e dell’ordo Drygonthie... »

« Vi prego, » disse Guglielmo, « non confondete cose diverse! Voi parlate come se fraticelli, patarini, valdesi, catari, e tra questi bogomili di Bulgaria ed eretici di Dragovitsa fossero tutti la stessa cosa! »

« Lo sono, » disse seccamente l’Abate, « lo sono perché sono eretici e lo sono perché mettono a repentaglio l’ordine stesso del mondo civile, anche l’ordine dell’impero che voi mi sembrate auspicare. Cento e più anni fa i seguaci di Arnaldo da Brescia incendiarono le case dei nobili e dei cardinali, e questi furono i frutti dell’eresia lombarda dei patarini. So delle storie terribili su questi eretici, e le lessi in Cesario di Eisterbach. A Verona il canonico di san Gedeone, Everardo, notò una volta che colui che lo ospitava ogni notte usciva di casa con la moglie e la figlia. Interrogò non so chi dei tre per sapere dove andassero e che facessero. Vieni e vedrai, gli fu risposto ed egli li seguì in una casa sotterranea, molto ampia, dove c’erano raccolte persone di entrambi i sessi. Un eresiarca, mentre tutti stavano in silenzio, tenne un discorso pieno di bestemmie, con il proposito di corrompere la loro vita e i loro costumi. Poi, spenta la candela, ciascuno si gettò sulla sua vicina, senza far differenza tra la sposa legittima e la nubile, tra vedova e vergine, tra padrona e serva, né (ciò che era peggio, il Signore mi perdoni mentre dico cose così orribili) tra figlia e sorella. Everardo, vedendo tutto ciò, da giovane leggero e lussurioso quale era, fingendosi un discepolo, si accostò non so se alla figlia del suo ospite o a un’altra fanciulla, e dopo che fu spenta la candela, peccò con lei. Fece purtroppo questo per più di un anno, e alla fine il maestro disse che quel giovane frequentava con tanto profitto le loro sedute che presto sarebbe stato in grado di istruire i neofiti. A quel punto Everardo comprese l’abisso in cui era caduto e riuscì a sfuggire alla loro seduzione dicendo che aveva frequentato quella casa non perché era attratto dall’eresia ma perché era attratto dalle fanciulle. Quelli lo scacciarono. Ma tale, lo vedete, è la legge e la vita degli eretici, patarini, catari, gioachimiti, spirituali d’ogni risma. Né c’è da meravigliarsi: non credono nella risurrezione della carne e nell’inferno come castigo dei malvagi, e ritengono di poter fare impunemente qualsiasi cosa. Essi infatti si dicono ’catharoi’ e cioè puri. »

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