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Il nome della rosa


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« Ma la goccia di sudore infuocato? »

« Stava già nella storia che lui ha udito e ha ripetuto, o che Berengario si è figurata nella sua eccitazione e nel suo rimorso. Perché vi è, in antistrofe al rimorso di Adelmo, un rimorso di Berengario, lo hai sentito. E se Adelmo veniva dal coro portava forse un cero, e la goccia sulla mano dell’amico era solo una goccia di cera. Ma Berengario si è sentito bruciare molto di più perché Adelmo certamente lo ha chiamato suo maestro. Segno dunque che Adelmo lo rimproverava di avergli appreso qualcosa di cui ora egli si disperava a morte. E Berengario lo sa, egli soffre perché sa di avere spinto Adelmo alla morte facendogli fare qualcosa che non doveva. E non è difficile immaginare cosa, mio povero Adso, dopo quello che abbiamo udito sul nostro aiuto bibliotecario. »

« Credo di aver capito cosa è accaduto tra i due, » dissi vergognandomi della mia sagacia, « ma non crediamo tutti in un Dio di misericordia? Adelmo, dite, si era probabilmente confessato: perché ha cercato di punire il suo primo peccato con un peccato certo più grande ancora, o almeno di pari gravità? »

« Perché qualcuno gli ha detto parole di disperazione. Ho detto che qualche pagina di predicatore dei giorni nostri deve avere suggerito a qualcuno le parole che hanno spaventato Adelmo e con cui Adelmo ha spaventato Berengario. Mai come in questi ultimi anni i predicatori hanno offerto al popolo, per stimolarne la pietà e il terrore (e il fervore, e l’ossequio alla legge umana e divina), parole truculente, sconvolgenti e macabre. Mai come ai nostri giorni, in mezzo a processioni di flagellanti, si sono udite laudi sacre ispirate ai dolori di Cristo e della Vergine, mai come oggi si è insistito nello stimolare la fede dei semplici attraverso l’evocazione dei tormenti infernali.

« Forse è bisogno di penitenza, » dissi.

« Adso, non ho mai udito tanti richiami alla penitenza quanto oggi, in un periodo in cui ormai né predicatori né vescovi, e neppure i miei confratelli spirituali sono più in grado di promuovere una vera penitenza... »

« Ma la terza età, il papa angelico, il capitolo di Perugia... » dissi smarrito.

« Nostalgie. La grande epoca della penitenza è finita, e per questo può parlare di penitenza anche il capitolo generale dell’ordine. C’è stata, cento, duecento anni fa, una grande ventata di rinnovamento. C’era quando chi ne parlava veniva bruciato, santo o eretico che fosse. Ora ne parlano tutti. In un certo senso ne discute persino il papa. Non fidarti dei rinnovamenti del genere umano quando ne parlano le curie e le corti. »

« Ma fra Dolcino, » osai, curioso di sapere di più su quel nome che avevo sentito pronunciare più volte il giorno innanzi.

« E’ morto, e malamente come è vissuto, perché anche lui è venuto troppo tardi. E poi che ne sai tu? »

« Nulla, per questo vi domando... »

« Preferirei non parlarne mai. Ho avuto a che fare con alcuni dei cosiddetti apostoli, e li ho osservati da vicino. Una storia triste. Ti turberebbe. In ogni caso ha turbato me, e ancor più ti turberebbe la mia stessa incapacità di giudicare. E’ la storia di un uomo che fece cose dissennate perché aveva messo in pratica ciò che gli avevano predicato molti santi. A un certo punto non ho più capito di chi fosse la colpa, sono stato come... come obnubilato da un’aria di famiglia che spirava nei due campi avversi, dei santi che predicavano la penitenza e dei peccatori che la mettevano in pratica, spesso a spese degli altri... Ma stavo parlando d’altro. O forse no, parlavo sempre di questo: finita l’epoca della penitenza, per i penitenti il bisogno di penitenza è divenuto bisogno di morte. E coloro che hanno ucciso i penitenti impazziti, restituendo morte alla morte, per sconfiggere la vera penitenza, che produceva morte, hanno sostituito alla penitenza dell’anima una penitenza dell’immaginazione, un richiamo a visioni soprannaturali di sofferenza e di sangue, chiamandole ’specchio’ della vera penitenza. Uno specchio che fa vivere in vita, all’immaginazione dei semplici, e talora anche dei dotti, i tormenti dell’inferno. Affinché — si dice — nessuno pecchi. Sperando di trattenere le anime dal peccato per mezzo della paura, e confidando di sostituire la paura alla ribellione. »

« Ma davvero poi non peccheranno? » chiesi ansiosamente.

« Dipende da cosa tu intendi per peccare, Adso, » mi disse il maestro. « Io non vorrei essere ingiusto con la gente di questo paese in cui vivo da alcuni anni, ma mi sembra che sia tipico della poca virtù delle popolazioni italiane non peccare per paura di qualche idolo, per quanto lo chiamino col nome di un santo. Hanno più paura di san Sebastiano o sant’Antonio che di Cristo. Se uno vuol conservare pulito un posto, qui, perché non ci si pisci, come fanno gli italiani alla maniera dei cani, ci dipingi sopra un’immagine di sant’Antonio con la punta di legno, e questa scaccerà quelli che stan per pisciare. Così gli italiani. e per opera dei loro predicatori, rischiano di tornare alle antiche superstizioni e non credono più alla resurrezione della carne, hanno solo una gran paura delle ferite corporali e delle disgrazie, e perciò han più paura di sant’Antonio che di Cristo. »

« Ma Berengario non è italiano, » osservai.

« Non importa, sto parlando del clima che la chiesa e gli ordini predicatori han diffuso su questa penisola, e che da qui si diffonde per ogni dove. E raggiunge anche una venerabile abbazia di monaci dotti, come questi. »

« Ma almeno non peccassero, » insistei, perché ero disposto ad accontentarmi anche solo di questo.

« Se questa abbazia fosse uno speculum mundi, avresti già la risposta. »

« Ma lo è? » chiesi.

« Perché vi sia specchio del mondo occorre che il mondo abbia una forma, » concluse Guglielmo, che era troppo filosofo per la mia mente adolescente.

Terza.


Dove si assiste a una rissa tra persone volgari, Aymaro da Alessandria fa alcune allusioni e Adso medita sulla santità e sullo sterco del demonio. Poi Guglielmo e Adso tornano nello scriptorium. Guglielmo vede qualcosa d’interessante, ha una terza conversazione sulla liceità del riso, ma in definitiva non può guardare dove vorrebbe.
Prima di salire allo scriptorium passammo in cucina a rifocillarci, perché non avevamo preso ancora nulla da quando ci eravamo levati. Mi rinfrancai subito prendendo una scodella di latte caldo. Il gran camino meridionale già ardeva come una fucina, mentre nel forno si stava preparando il pane del giorno. Due caprai stavano deponendo le spoglie di una pecora appena uccisa. Vidi tra i cucinieri Salvatore. che mi sorrise con la sua bocca di lupo. E vidi che prendeva da un tavolo un avanzo del pollo della sera prima e lo passava di nascosto ai caprai, che lo nascondevano nelle loro giubbe di pelle ghignando soddisfatti. Ma il capo cuciniere se ne accorse e rimproverò Salvatore: « Cellario, cellario, » disse, « tu devi amministrare i beni dell’abbazia, non dissiparli! »

« Filii Dei, sono, » disse Salvatore, « Gesù ha detto che facite per lui quello che facite a uno di questi pueri! »

« Fraticello delle mie brache, scoreggione di un minorita! » gli gridò allora il cuciniere. « Non sei più tra i tuoi pitocchi di frati! A dare ai figli di Dio ci penserà la misericordia dell’Abate! »

Salvatore si oscurò in viso e si voltò adiratissimo: « Non sono un fraticello minorita! Sono un monaco Sancti Benedicti! Merdre à toy, bogomilo di merda! »

« Bogomila la baldracca che t’inculi la notte, con la tua verga eretica, maiale! » gridò il cuciniere.

Salvatore fece uscire in fretta i caprai e passandoci vicino ci guardò con preoccupazione: « Frate, » disse a Guglielmo, « difendi tu il tuo ordine che non è il mio, digli che i filios Francisci non ereticos esse! » Poi mi sussurrò in un orecchio: « Ille menteur, puah, » e sputò per terra.

Il cuciniere venne a spingerlo fuori in malo modo e gli rinchiuse la porta alle spalle. « Frate, » disse a Guglielmo con rispetto, « non parlavo male del vostro ordine e degli uomini santissimi che vi stanno. Parlavo a quel falso minorita e falso benedettino che non è né carne né pesce. »

« So da dove viene, » disse Guglielmo conciliante. « Ma ora è monaco come te e gli devi rispetto fraterno. »

« Ma lui mette il naso dove non deve metterlo perché è protetto dal cellario, e si crede lui il cellario. Usa dell’abbazia come fosse cosa sua, di giorno e di notte! »

« Perché di notte? » chiese Guglielmo. Il cuciniere fece un gesto come per dire che non voleva parlare di cose poco virtuose. Guglielmo non gli chiese altro e terminò di bere il suo latte.

La mia curiosità si stava eccitando sempre di più. L’incontro con Ubertino, le mormorazioni sul passato di Salvatore e del cellario, le allusioni sempre più frequenti ai fraticelli e ai minoriti eretici che udivo fare in quei giorni, la reticenza del maestro nel parlarmi di fra Dolcino... Una serie di immagini cominciava a ricomporsi nella mia mente. Per esempio, mentre compivamo il nostro viaggio avevamo incontrato almeno due volte una processione di flagellanti. Una volta la popolazione del luogo li guardava come santi, un’altra volta cominciava a mormorare che fossero eretici. Eppure si trattava sempre della stessa gente. Andavano in processione a due per due, per le strade della città, coperti solo alle pudenda, avendo superato ogni senso di vergogna. Ciascuno aveva in mano un flagello di cuoio e si colpivano sulle spalle, a sangue, versando abbondanti lacrime come se vedessero coi loro occhi la passione del Salvatore, imploravano con un canto lamentoso la misericordia del Signore e l’aiuto della Madre di Dio. Non solo di giorno, ma anche la notte, con i ceri accesi, nel rigore dell’inverno, in gran folla andavano intorno per le chiese, si prosternavano umilmente davanti agli altari, preceduti da sacerdoti con ceri e vessilli, e non solo uomini e donne del popolo, ma anche nobili matrone, e mercanti... E allora si assisteva a grandi atti di penitenza, coloro che avevano rubato restituivano il maltolto, altri confessavano i loro crimini...

Ma Guglielmo li aveva guardati con freddezza e mi aveva detto che quella non era vera penitenza. Aveva piuttosto parlato come già poco fa quella stessa mattina: il periodo del grande lavacro penitenziale era finito, e quelli erano i modi in cui i predicatori stessi organizzavano la devozione delle folle, proprio perché non cadessero preda di un altro desiderio di penitenza che — quello — era eretico, e faceva paura a tutti. Ma non riuscivo a capire la differenza, se pure ve n’era. Mi pareva che la differenza non venisse dai gesti dell’uno o dell’altro, ma dallo sguardo con cui la chiesa giudicava l’uno e l’altro gesto.

Mi ricordavo della discussione con Ubertino. Guglielmo era stato indubbiamente insinuante, aveva cercato di dirgli che c’era poca differenza tra la sua fede mistica (e ortodossa) e la fede distorta degli eretici. Ubertino se ne era adontato, come chi vedesse bene la differenza. L’impressione che ne avevo tratto era che lui fosse diverso proprio perché era colui che sapeva vedere la diversità. Guglielmo si era sottratto ai doveri della inquisizione perché non sapeva più vederla. Per questo non riusciva a parlarmi di quel misterioso fra Dolcino. Ma allora, evidentemente (mi dicevo) Guglielmo ha perduto l’assistenza del Signore, che non solo insegna a vedere la differenza, ma per così dire investe i suoi eletti di questa capacità di discrezione. Ubertino e Chiara da Montefalco (che pure era attorniata di peccatori) erano rimasti santi proprio perché sapevano discriminare. Questo e non altro è la santità.

Ma perché Guglielmo non sapeva discriminare? Pure era un uomo così acuto, e per quanto riguardava i tratti di natura sapeva scorgere la minima disuguaglianza e la minima parentela tra le cose...

Ero immerso in questi pensieri, e Guglielmo terminava di bere il suo latte, quando ci udimmo salutare. Era Aymaro da Alessandria, che avevamo già conosciuto nello scriptorium, e di cui mi aveva colpito l’espressione del viso, ispirata a un perpetuo sogghigno, come se non riuscisse mai a capacitarsi della fatuità di tutti gli esseri umani, e tuttavia non attribuisse grande importanza a questa tragedia cosmica. « Allora, frate Guglielmo, vi siete già abituato a questa spelonca di dementi? »

« Mi pare un luogo di uomini ammirevoli per santità e dottrina, » disse cautamente Guglielmo.

« Lo era. Quando gli abati facevano gli abati e i bibliotecari i bibliotecari. Ora l’avete visto, lassù, » e accennava al piano superiore, « quel tedesco mezzo morto con gli occhi da cieco sta a sentire devotamente i vaneggiamenti di quello spagnolo cieco con gli occhi da morto, sembra che debba arrivare l’Anticristo ogni mattina, si grattano le pergamene, ma di libri nuovi ne entrano pochissimi... Noi siamo qua, e laggiù nelle città si agisce... Una volta dalle nostre abbazie si governava il mondo. Oggi lo vedete, l’imperatore ci usa per inviare qui i suoi amici a incontrare i suoi nemici (so qualcosa della vostra missione, i monaci parlano parlano, non hanno altro da fare), ma se vuole controllare le cose di questo paese sta nelle città. Noi stiamo a raccogliere grano e ad allevar pollarne, e laggiù scambiano braccia di seta con pezze di lino, e pezze di lino con sacchi di spezie, e tutto insieme con danaro buono. Noi custodiamo il nostro tesoro, ma laggiù si accumulano tesori. E anche libri. E più belli dei nostri. »

« Nel mondo accadono certo molte cose nuove. Ma perché pensate che la colpa sia dell’Abate? »

« Perché ha dato la biblioteca in mano agli stranieri e conduce l’abbazia come una cittadella eretta in difesa della biblioteca. Un’abbazia benedettina in questa plaga italiana dovrebbe essere un luogo dove degli italiani decidono per cose italiane. Cosa fanno gli italiani, oggi che non hanno neppure più un papa? Commerciano, e fabbricano, e sono più ricchi del re di Francia. E allora, facciamo così anche noi, se sappiamo far bei libri fabbrichiamone per le università, e occupiamoci di quanto avviene giù a valle, non dico dell’imperatore, con tutto il rispetto per la vostra missione, frate Guglielmo, ma di quel che fanno i bolognesi o i fiorentini. Potremmo controllare di qui il passaggio dei pellegrini e dei mercanti, che vanno dall’Italia alla Provenza e viceversa. Apriamo la biblioteca ai testi in volgare, e saliranno quassù anche coloro che non scrivono più in latino. E invece siamo controllati da un gruppo di stranieri che continuano a condurre la biblioteca come se a Cluny fosse ancora abate il buon Odillone... »

« Ma l’Abate è italiano, » disse Guglielmo.

« L’Abate qui non conta nulla, » disse sempre sogghignando Aymaro. « Al posto della testa ha un armadio della biblioteca. E’ tarlato. Per far dispetto al papa lascia che l’abbazia sia invasa di fraticelli... dico quelli eretici, frate, i transfughi del vostro ordine santissimo... e per far cosa grata all’imperatore chiama qui monaci da tutti i monasteri del nord, come se da noi non avessimo bravi copisti, e uomini che sanno il greco e l’arabo, e non ci fossero a Firenze o a Pisa figli di mercanti, ricchi e generosi, che entrerebbero volentieri nell’ordine, se l’ordine offrisse la possibilità d’incrementare la potenza e il prestigio del padre. Ma qui, l’indulgenza alle cose del secolo la si riconosce solo quando si tratta di permettere ai tedeschi di... oh buon Signore fulminate la mia lingua ché sto per dire cose poco convenienti! »

« Nell’abbazia avvengono cose poco convenienti? » domandò distrattamente Guglielmo, versandosi ancora un poco di latte.

« Anche il monaco è un uomo, » sentenziò Aymaro. Poi aggiunse: « Ma qui sono meno uomini che altrove. E quello che ho detto, sia chiaro che non l’ho detto. »

« Molto interessante, » disse Guglielmo. « E queste sono opinioni vostre o di molti che pensano come voi? »

« Di molti, di molti. Di molti che adesso si dolgono per la sventura del povero Adelmo, ma se nel precipizio fosse caduto qualcun altro, che gira per la biblioteca più di quanto dovrebbe, non sarebbero stati scontenti. »

« Cosa intendete dire? »

« Ho parlato troppo. Qui parliamo troppo, ve ne sarete già accorto. Qui il silenzio non lo rispetta più nessuno, da un lato. Dall’altro lo si rispetta troppo. Qui invece di parlare o di tacere si dovrebbe agire. Ai tempi d’oro del nostro ordine, se un abate non aveva una tempra da abate, una bella coppa di vino attoscato, ed ecco aperta la successione. Vi ho detto queste cose, s’intende frate Guglielmo, non per mormorare nei confronti dell’Abate o di altri confratelli. Dio me ne guardi, per fortuna non ho il brutto vizio della mormorazione. Ma non vorrei che l’Abate vi avesse pregato di investigare su di me o su qualcun altro come Pacifico da Tivoli o Pietro da Sant’Albano. Noi con le storie della biblioteca non c’entriamo. Ma vorremmo entrarci un poco di più. E allora scoperchiate questo nido di serpenti, voi che avete bruciato tanti eretici. »

« Io non ho mai bruciato nessuno, » rispose seccamente Guglielmo.

« Dicevo così per dire, » ammise Aymaro con un gran sorriso. « Buona caccia, frate Guglielmo, ma fate attenzione di notte. »

« Perché non di giorno? »

« Perché di giorno qui si cura il corpo con le erbe buone e di notte si ammala la mente con le erbe cattive. Non crediate che Adelmo sia stato precipitato nell’abisso dalle mani di qualcuno o che le mani di qualcuno abbiano messo Venanzio nel sangue. Qui qualcuno non vuole che i monaci decidano da soli dove andare, cosa fare e cosa leggere. E si usano le forze dell’inferno, o dei negromanti amici dell’inferno, per sconvolgere le menti dei curiosi... »

« Parlate del padre erborista? »

« Severino da Sant’Emmerano è una brava persona. Naturalmente, tedesco lui, tedesco Malachia... » E dopo aver dimostrato ancora una volta di non essere disposto alla mormorazione, Aymaro salì a lavorare.
« Cosa avrà voluto dirci? » chiesi.

« Tutto e nulla. Una abbazia è sempre un luogo dove i monaci sono in lotta tra loro per assicurarsi il governo della comunità. Anche a Melk, ma forse come novizio non avrai avuto modo di rendertene conto. Ma nel tuo paese conquistare il governo di una abbazia significa conquistarsi un luogo da cui si tratta direttamente coll’imperatore. In questo paese invece la situazione è diversa, l’imperatore è lontano, anche quando scende sino a Roma. Non c’è una corte, neppure quella papale, ormai. Ci sono le città, te ne sarai accorto. »

« Certo, e ne sono stato colpito. La città in Italia è una cosa diversa che dalle mie parti... Non è solo un luogo per abitare: è un luogo per decidere, sono sempre tutti in piazza, contano più i magistrati cittadini che l’imperatore o il papa. Sono... come tanti regni... »

« E i re sono i mercanti. E la loro arma è il danaro. Il danaro ha una funzione, in Italia, diversa che nel tuo paese, o nel mio. Dappertutto circola danaro, ma gran parte della vita è ancora dominata e regolata dallo scambio di beni, polli o covoni di grano, o un falcetto, o un carro, e il danaro serve a procurarsi questi beni. Avrai notato che nella città italiana, invece, i beni servono a procurarsi danaro. E anche i preti, e i vescovi, e persino gli ordini religiosi, devono fare i conti col danaro. E’ per questo, naturalmente, che la ribellione al potere si manifesta come richiamo alla povertà, e si ribellano al potere coloro che sono esclusi dal rapporto col danaro, e ogni richiamo alla povertà suscita tanta tensione e tanti dibattiti, e la città intera, dal vescovo al magistrato, sente come proprio nemico chi predica troppo la povertà. Gli inquisitori sentono puzza di demonio dove qualcuno ha reagito alla puzza dello sterco del demonio. E allora capirai anche a cosa sta pensando Aymaro. Un’abbazia benedettina, ai tempi aurei dell’ordine, era il luogo da cui i pastori controllavano il gregge dei fedeli. Aymaro vuole che si torni alla tradizione. Solo che la vita del gregge è cambiata, e l’abbazia può tornare alla tradizione (alla sua gloria, al suo potere di un tempo) solo se accetta il nuovo costume del gregge, diventando diversa. E siccome oggi qui si domina il gregge non con le armi o con lo splendore dei riti, ma con il controllo del danaro, Aymaro vuole che la fabbrica tutta dell’abbazia, e la stessa biblioteca, diventino opificio, e fabbrica di danaro. »

« E cosa c’entra questo coi delitti, o col delitto? »

« Non lo so ancora. Ma ora vorrei salire. Vieni. »

I monaci erano già al lavoro. Nello scriptorium regnava il silenzio ma non era quel silenzio che consegue alla pace operosa dei cuori. Berengario, che ci aveva preceduto di poco, ci accolse con imbarazzo. Gli altri monaci levarono il capo dal loro lavoro. Sapevano che eravamo lì per scoprire qualcosa intorno a Venanzio, e la direzione stessa dei loro sguardi fissò la nostra attenzione su un posto vuoto, sotto una finestra che si apriva all’interno sull’ottagono centrale.

Benché la giornata fosse molto fredda la temperatura nello scriptorium era abbastanza mite. Non a caso era stato disposto sopra le cucine da cui proveniva abbastanza calore, anche perché le canne fumarie dei due forni sottostanti passavano dentro i pilastri che sostenevano le due scale a chiocciola poste nei torrioni occidentale e meridionale. Quanto al torrione settentrionale, dalla parte opposta della grande sala, non aveva scala, ma un grande camino che ardeva diffondendo un lieto tepore. Inoltre il pavimento era stato ricoperto di paglia, che rendeva i nostri passi silenziosi. Insomma, l’angolo meno riscaldato era quello del torrione orientale e infatti notai che, poiché rimanevano posti liberi rispetto al numero di monaci al lavoro, tutti tendevano a evitare i tavoli collocati in quella direzione. Quando più tardi mi resi conto che la scala a chiocciola del torrione orientale era l’unica che conduceva, oltre che in basso al refettorio, anche in alto alla biblioteca, mi domandai se un calcolo sapiente non avesse regolato il riscaldamento della sala, in modo che i monaci fossero distolti dal curiosare da quella parte e fosse più facile al bibliotecario controllare l’accesso alla biblioteca. Ma forse esageravo nei miei sospetti, diventando povera scimmia del mio maestro, perché subito pensai che questo calcolo non avrebbe dato gran frutto d’estate — a meno (mi dissi) che d’estate quello non fosse stato proprio il lato più assolato e quindi ancora una volta il più evitato.

Il tavolo del povero Venanzio dava di spalle al grande camino, ed era probabilmente uno dei più ambiti. Avevo allora passato piccola parte della mia vita in uno scriptorium, ma molta ne passai in seguito e so quanta sofferenza costi allo scriba, al rubricatore e allo studioso trascorrere al proprio tavolo le lunghe ore invernali, con le dita che si rattrappiscono sullo stilo (quando già con una temperatura normale. dopo sei ore di scrittura, prende alle dita il terribile crampo del monaco e il pollice duole come se fosse stato pestato). E questo spiega perché sovente troviamo in margine ai manoscritti frasi lasciate dallo scriba come testimonianza di sofferenza (e di insofferenza) quali « Grazie a Dio presto si fa buio », oppure « Oh, avessi un bel bicchiere di vino! », o ancora « Oggi fa freddo, la luce è tenue, questo vello è peloso, qualcosa non va ». Come dice un antico proverbio, tre dita tengono la penna, ma il corpo intero lavora. E dolora.

Ma dicevo del tavolo di Venanzio. Più piccolo di altri, come del resto quelli posti intorno al cortile ottagonale, destinati a studiosi, mentre più ampi erano quelli sotto alle finestre delle pareti esterne, destinati a miniatori e copisti. Peraltro anche Venanzio lavorava con un leggìo, perché probabilmente consultava manoscritti in prestito all’abbazia, di cui si faceva copia. Sotto al tavolo era disposta una scaffalatura bassa, dove erano ammucchiati fogli non rilegati, e poiché erano tutti in latino ne dedussi che erano le sue traduzioni più recenti. Erano scritti in modo affrettato, non costituivano pagine di libro e avrebbero dovuto essere affidati poi a un copista e a un miniatore. Per questo erano difficilmente leggibili. Tra i fogli, qualche libro, in greco. Un altro libro greco era aperto sul leggìo, l’opera su cui Venanzio stava compiendo nei giorni scorsi il suo lavoro di traduttore. Io allora non conoscevo ancora il greco, ma il mio maestro disse che era di un tale Luciano e narrava di un uomo trasformato in asino. Ricordai allora una favola analoga di Apuleio, che ai novizi era di solito severamente sconsigliata.

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