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Il nome della rosa


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Così facemmo. E dico subito che fui io, Dio mi salvi dalla vanità, che scoprii qualcosa tra il recipiente e l’Edificio. Erano impronte di piedi umani, abbastanza fonde, in una zona in cui nessuno era ancora passato e, come notò subito il mio maestro, più lievi di quelle lasciate dai monaci e dai servi, segno che altra neve vi era caduta, e quindi erano state lasciate tempo addietro. Ma ciò che più ci parve degno di interesse, era che tra quelle impronte si frammischiava una traccia più continua, come di qualcosa trascinato da chi aveva lasciato le impronte. In breve, una scia che andava dalla giara alla porta del refettorio, sul lato dell’Edificio che stava tra la torre meridionale e quella orientale.

« Refettorio, scriptorium, biblioteca, » disse Guglielmo. « Ancora una volta la biblioteca. Venanzio è morto nell’Edificio, e più probabilmente nella biblioteca. »

« E perché proprio nella biblioteca? »

« Cerco di mettermi nei panni dell’assassino. Se Venanzio fosse morto, ucciso, nel refettorio, nella cucina o nello scriptorium, perché non lasciarlo là? Ma se è morto nella biblioteca occorreva trasportarlo altrove, sia perché nella biblioteca non sarebbe mai stato scoperto (e forse all’assassino interessava proprio che fosse scoperto), sia perché l’assassino probabilmente non vuole che l’attenzione si concentri sulla biblioteca. »

« E perché all’assassino poteva interessare che fosse scoperto? »

« Non so, faccio delle ipotesi. Chi ti dice che l’assassino abbia ucciso Venanzio perché odiava Venanzio? Potrebbe averlo ucciso, in luogo di chiunque altro, per lasciare un segno, per significare qualcosa d’altro.

« Omnis mundi creatura, quasi liber et scriptura... » mormorai. « Ma di che segno si tratterebbe? »

« Questo è ciò che non so. Ma non dimentichiamo che ci sono anche segni che sembrano tali e invece sono privi di senso, come blitiri o bu-ba-baff... »

« Sarebbe atroce, » dissi, « uccidere un uomo per dire bu-ba-baff. »

« Sarebbe atroce, » commentò Guglielmo, « uccidere un uomo anche per dire ’Credo in urlum Deum’... »

In quel momento fummo raggiunti da Severino. Il cadavere era stato lavato ed esaminato con cura. Nessuna ferita, nessuna contusione sul capo. Morto come per incanto.

« Come per castigo divino? » chiese Guglielmo.

« Forse, » disse Severino.

« O per veleno? »

Severino esitò. « Forse, anche. »

« Hai veleni nel laboratorio? » chiese Guglielmo mentre ci avviavamo verso l’ospedale.

« Anche. Ma dipende da cosa intendi per veleno. Ci sono sostanze che in piccole dosi sono salutari e in dosi eccessive procurano la morte. Come ogni buon erborista ne conservo, e le uso con discrezione. Nel mio orto coltivo, per esempio, la valeriana. Poche gocce in un infuso di altre erbe calmano il cuore che batte disordinatamente. Una dose esagerata provoca torpore e morte. »

« E non hai notato sul cadavere i segni di un veleno particolare? »

« Nessuno. Ma molti veleni non lasciano tracce. »

Eravamo giunti all’ospedale. Il corpo di Venanzio, lavato nei balnea, era stato quivi trasportato e giaceva sul gran tavolo nel laboratorio di Severino: alambicchi e altri strumenti di vetro e coccio mi fecero pensare (ma ne sapevo solo per racconti indiretti) alla bottega di un alchimista. Su una lunga scaffalatura lungo il muro esterno, si stendeva una vasta serie di ampolle, brocche, vasi, pieni di sostanze di diversi colori.

« Una bella collezione di semplici, » disse Guglielmo. « Tutti prodotti del vostro giardino? »

« No, » disse Severino, « molte sostanze, rare e che non crescono in queste zone, mi sono state portate lungo gli anni da monaci provenienti da ogni parte del mondo. Ho anche cose preziose e introvabili, frammiste a sostanze che è facile ottenere dalla vegetazione di questi luoghi. Vedi... aghalingho pesto, proviene dal Cataio, e lo ebbi da un sapiente arabo. Aloe socoltrino, viene dalle Indie, ottimo cicatrizzante. Ariento vivo, risuscita i morti, o per meglio dire, risveglia coloro che han perso i sensi. Arsenacho: pericolosissimo, veleno mortale per chi lo ingerisce. Boracie, pianta buona per i polmoni malati. Bettonica, buona per le fratture del capo. Masticie: raffrena i flussi polmonari e i catarri molesti. Mirra... »

« Quella dei magi? » chiesi.

« Quella dei magi, ma qui buona per prevenire gli aborti, colta da un albero che si chiama Balsamodendron myrra. E questa è mumia, rarissima, prodotta dalla decomposizione dei cadaveri mummificati, serve a preparare molti medicamenti quasi miracolosi. Mandragola officinalis, buona per il sonno... »

« E per suscitare il desiderio della carne, » commentò il mio maestro.

« Dicono, ma qui non la si usa in tal senso, come potete immaginare, » sorrise Severino. « E guardate questa, » disse prendendo una ampolla, « tuzia, miracolosa per gli occhi. »

« E cos’è questa? » domandò vivacemente Guglielmo toccando una pietra che giaceva su uno scaffale.

« Questa? Mi è stata donata tempo fa. Credo che sia lopris amatiti o lapis ematitis. Pare abbia varie virtù terapeutiche, ma non ho ancora scoperto quali. La conosci? »

« Sì, » disse Guglielmo, « ma non come medicina. » Trasse dal saio un coltellino e lo appressò lentamente alla pietra. Come il coltellino, mosso dalla sua mano con estrema delicatezza, giunse a poca distanza dalla pietra, vidi che la lama compiva un movimento brusco, come se Guglielmo avesse mosso il polso, che invece aveva fermissimo. E la lama aderì alla pietra con un lieve rumore di metallo.

« Vedi, » mi disse Guglielmo, « è un magnete. »

« E a che serve? » chiesi.

« A varie cose, di cui ti dirò. Ma per ora vorrei sapere, Severino, se non vi è nulla qui che potrebbe uccidere un uomo. »

Severino rifletté un istante, troppo direi, data la limpidità della sua risposta: « Molte cose. Ti ho detto, il limite tra il veleno e la medicina è assai lieve, i greci chiamavano entrambi ’pharmacon’. »

« E non vi è nulla che vi sia stato sottratto di recente? »

Severino rifletté ancora, poi, quasi soppesando le parole: « Nulla, di recente. »

« E in passato? »

« Chissà. Non ricordo. Sono in questa abbazia da trent’anni e sto all’ospedale da venticinque. »

« Troppo per una memoria umana, » ammise Guglielmo. Poi, di colpo « Parlavamo ieri di piante che possono dare visioni. Quali sono? »

Severino manifestò con gli atti e con l’espressione del viso il vivo desiderio di evitare quell’argomento: « Dovrei pensarci, sai, ho tante sostanze miracolose qui. Ma parliamo piuttosto di Venanzio. Cosa ne dici? »

« Dovrei pensarci, » rispose Guglielmo.

Prima.


Dove Bencio da Upsala confida alcune cose, altre ne confida Berengario da Arundel e Adso apprende cosa sia la vera penitenza.
Lo sciagurato incidente aveva sconvolto la vita della comunità. Il trambusto dovuto al ritrovamento del cadavere aveva interrotto l’ufficio sacro. L’Abate aveva subito risospinto i monaci nel coro, a pregare per l’anima del loro confratello.

Le voci dei monaci erano rotte. Ci ponemmo in una situazione adatta per studiare la loro fisionomia quando, secondo la liturgia, il cappuccio non era abbassato. Vedemmo subito il volto di Berengario. Pallido, contratto, lucido di sudore. Il giorno precedente avevamo udito due mormorazioni sul suo conto, come di persona che avesse a che fare in modo particolare con Adelmo; e non era il fatto che i due, coetanei, fossero amici, ma il tono elusivo di coloro che avevano alluso a questa amicizia.

Notammo accanto a lui Malachia. Scuro, accigliato, impenetrabile. Accanto a Malachia, altrettanto impenetrabile, il volto del cieco Jorge. Rilevammo invece i movimenti nervosi di Bencio da Upsala, lo studioso di retorica conosciuto il giorno innanzi nello scriptorium, e sorprendemmo un rapido sguardo che costui stava lanciando in direzione di Malachia. « Bencio è nervoso, Berengario è spaventato, » osservò Guglielmo. « Occorrerà interrogarli subito. »

« Perché? » chiesi ingenuamente.

« Il nostro è un duro mestiere, » disse Guglielmo. « Duro mestiere quello dell’inquisitore, bisogna battere sui più deboli e nel momento della loro maggiore debolezza. »

Infatti, appena finito l’ufficio, raggiungemmo Bencio che si stava dirigendo alla biblioteca. Il giovane sembrò contrariato di sentirsi chiamare da Guglielmo, e accampò qualche debole pretesto di lavoro. Pareva aver fretta di recarsi allo scriptorium. Ma il mio maestro gli ricordò che stava svolgendo un’indagine per mandato dell’Abate, e lo condusse nel chiostro. Ci sedemmo sul parapetto interno, tra due colonne. Bencio attendeva che Guglielmo parlasse, guardando a tratti verso l’Edificio.

« Allora, » domandò Guglielmo, « cosa si disse quel giorno che foste a discutere dei marginalia di Adelmo, tu, Berengario, Venanzio, Malachia e Jorge? »

« Lo avete udito ieri. Jorge osservava che non è lecito ornare di immagini ridicole i libri che contengono la verità. E Venanzio osservò che lo stesso Aristotele aveva parlato delle arguzie e dei giochi di parole, come strumenti per scoprire meglio la verità, e che pertanto il riso non doveva essere cosa cattiva se poteva farsi veicolo di verità. Jorge osservò che, per quanto ricordava, Aristotele aveva parlato di queste cose nel libro della Poetica e a proposito delle metafore. Che già si trattava di due circostanze inquietanti, primo perché il libro della Poetica, rimasto ignoto al mondo cristiano per tanto tempo e forse per decreto divino, ci è arrivato attraverso i mori infedeli... »

« Ma è stato tradotto in latino da un amico dell’angelico dottore d’Aquino, » osservò Guglielmo.

« E’ quanto gli dissi io, » fece Bencio subito rinfrancato. « Io leggo male il greco e ho potuto avvicinare quel gran libro proprio attraverso la traduzione di Guglielmo di Moerbeke. Ecco, è quanto gli dissi io. Ma Jorge aggiunse che il secondo motivo di inquietudine è che ivi lo stagirita parlasse della poesia, che è infima doctrina e che vive di figmenta. E Venanzio disse che anche i salmi sono opera di poesia e usano metafore e Jorge si adirò perché disse che i salmi sono opera di ispirazione divina e usano metafore per trasmettere la verità mentre le opere dei poeti pagani usano metafore per trasmettere la menzogna e a fini di mero diletto, cosa che molto mi offese... »

« Perché? »

« Perché io mi occupo di retorica, e leggo molti poeti pagani e so... o meglio credo che attraverso la loro parola si siano trasmesse anche verità naturaliter cristiane... Insomma, a quel punto, se ricordo bene, Venanzio parlò di altri libri e Jorge si arrabbiò molto. »

« Quali libri? »

Bencio esitò: « Non ricordo. Cosa importa di quali libri si sia parlato? »

« Importa molto, perché qui stiamo cercando di capire cosa sia avvenuto tra uomini che vivono tra i libri, coi libri, dei libri, e dunque anche le loro parole sui libri sono importanti. »

« E’ vero, » disse Bencio, sorridendo per la prima volta e quasi illuminandosi in volto. Noi viviamo per i libri. Dolce missione in questo mondo dominato dal disordine e dalla decadenza. Forse allora capirete cosa è accaduto quel giorno. Venanzio, che sa... che sapeva molto bene il greco, disse che Aristotele aveva dedicato specialmente al riso il secondo libro della Poetica e che se un filosofo di quella grandezza aveva consacrato un intero libro al riso, il riso doveva essere una cosa importante. Jorge disse che molti padri avevano dedicato libri interi al peccato, che è una cosa importante ma cattiva, e Venanzio disse che per quello che lui sapeva Aristotele aveva parlato del riso come cosa buona e strumento di verità, e allora Jorge gli chiese con scherno se per caso lui aveva letto questo libro di Aristotele, e Venanzio disse che nessuno poteva ancora averlo letto, perché non si era mai più trovato e forse era andato perduto. E infatti nessuno ha mai potuto leggere il secondo libro della Poetica, Guglielmo di Moerbeke non lo ebbe mai tra le mani. Allora Jorge disse che se non l’aveva trovato era perché non era stato mai scritto, perché la provvidenza non voleva che fossero glorificate le cose futili. Io volevo calmare gli animi perché Jorge è facile all’ira e Venanzio parlava in modo da provocarlo, e dissi che nella parte della Poetica che conosciamo, e nella Retorica, si trovano molte osservazioni sagge sugli enigmi arguti, e Venanzio fu d’accordo con me. Ora c’era con noi Pacifico da Tivoli, che conosce assai bene i poeti pagani, e disse che quanto a enigmi arguti nessuno supera i poeti africani. Citò anzi l’enigma del pesce, quello di Sinfosio:


Est domus in terris, clara quae voce resultat.

Ipsa domus resonat, tacitus sed non sonat hospes.

Ambo tamen currunt, hospes simul et domus una.

A quel punto Jorge disse che Gesù aveva raccomandato che il nostro parlare fosse sì o no e il di più veniva dal maligno; e che bastava dire pesce per nominare il pesce, senza celarne il concetto sotto suoni menzogneri. E aggiunse che non gli pareva saggio prendere a modello gli africani... E allora... »

« Allora? »

« Allora accadde una cosa che non capii. Berengario si mise a ridere, Jorge lo rimproverò e lui disse che rideva perché gli era venuto in mente che a cercar bene tra gli africani si sarebbero trovati ben altri enigmi, e non facili come quello del pesce. Malachia, che era presente, divenne furibondo, prese Berengario quasi per il cappuccio mandandolo ad accudire alle sue faccende... Berengario, lo sapete, è il suo aiuto... »

« E poi? »

« Poi Jorge pose fine alla discussione allontanandosi. Tutti ce ne andammo per le nostre cose, ma mentre lavoravo vidi che prima Venanzio e poi Adelmo avvicinarono Berengario per chiedergli qualcosa. Vidi da lontano che si schermiva, ma essi durante il giorno tornarono entrambi da lui. E poi quella sera vidi Berengario e Adelmo confabulare nel chiostro, prima di andare in refettorio. Ecco, è tutto quello che so. »

« Sai cioè che le due persone che recentemente sono morte in circostanze misteriose avevano chiesto qualcosa a Berengario, » disse Guglielmo.

Bencio rispose a disagio: « Non ho detto questo! Ho detto quello che è avvenuto quel giorno e come voi mi avete chiesto... » Rifletté un poco, poi aggiunse in fretta: « Ma se volete sapere la mia opinione Berengario ha parlato loro di qualcosa che sta in biblioteca, ed è là che dovreste cercare. »

« Perché pensi alla biblioteca? Cosa voleva dire Berengario con le parole cercare tra gli africani? Non voleva dire che bisognava leggere meglio i poeti africani? »

« Forse, così pareva, ma allora perché Malachia avrebbe dovuto infuriarsi? In fondo dipende da lui decidere se deve dare in lettura un libro di poeti africani, o no. Ma io so una cosa: chi sfogli il catalogo dei libri, troverà, tra le indicazioni che solo il bibliotecario conosce, una che dice sovente ’Africa’ e ne ho trovata persino una che diceva ’finis Africae’. Una volta chiesi un libro che recava quel segno, non ricordo quale, il titolo mi aveva incuriosito; e Malachia mi disse che i libri con quel segno erano andati perduti. Ecco quello che so. Per questo vi dico: è giusto, controllate Berengario, e controllatelo quando sale in biblioteca. Non si sa mai. »

« Non si sa mai, » concluse Guglielmo accomiatandolo. Poi si mise a passeggiare con me nel chiostro e osservò che: anzitutto, ancora una volta, Berengario era fatto segno alle mormorazioni dei suoi confratelli; in secondo luogo Bencio pareva ansioso di spingerci verso la biblioteca. Osservai che forse voleva che noi scoprissimo laggiù cose che anche lui voleva sapere e Guglielmo disse che probabilmente era così, ma che poteva anche darsi che spingendoci verso la biblioteca volesse allontanarci da qualche altro luogo. Quale?, domandai. E Guglielmo disse che non sapeva, magari lo scriptorium, magari la cucina, o il coro, o il dormitorio, o l’ospedale. Osservai che il giorno prima era lui, Guglielmo, a essere affascinato dalla biblioteca ed egli rispose che voleva essere affascinato dalle cose che piacevano a lui e non da quelle che gli altri gli consigliavano. Che però la biblioteca andava tenuta d’occhio, e che a quel punto non sarebbe stato male neppure cercare di penetrarvi in qualche modo. Le circostanze ormai lo autorizzavano a essere curioso ai limiti della cortesia e del rispetto per gli usi e le leggi dell’abbazia.

Ci stavamo allontanando dal chiostro. Servi e novizi stavano uscendo dalla chiesa dopo la messa. E mentre doppiavamo il lato occidentale del tempio scorgemmo Berengario che usciva dai portale del transetto e attraversava il cimitero verso l’Edificio. Guglielmo lo chiamò, quello si arrestò e lo raggiungemmo. Era ancora più sconvolto di quando lo avevamo visto in coro e Guglielmo decise evidentemente di approfittare, come aveva fatto con Bencio, del suo stato d’animo.

« Dunque pare che tu sia stato l’ultimo a vedere Adelmo vivo, » gli disse.

Berengario vacillò come stesse per cadere in deliquio: « Io? » domandò con un filo di voce. Guglielmo aveva buttato la sua domanda quasi a caso, probabilmente perché Bencio gli aveva detto di avere visto i due confabulare nel chiostro dopo vespro. Ma doveva avere colto nel segno e Berengario stava chiaramente pensando a un altro e veramente ultimo incontro, perché cominciò a parlare con voce rotta.

« Come potete dire questo, io l’ho visto prima di andare a riposare come tutti gli altri! »

Allora Guglielmo decise che valeva la pena di non dargli respiro: « No, tu l’hai visto ancora e sai più cose di quanto non voglia far credere. Ma qui sono in gioco ormai due morti e non puoi più tacere. Sai benissimo che vi sono molti modi per far parlare una persona! »

Guglielmo mi aveva detto più volte che, anche da inquisitore, aveva sempre rifuggito dalla tortura, ma Berengario lo fraintese (o Guglielmo voleva farsi fraintendere), in ogni caso il suo gioco risultò efficace.

« Sì, sì, » disse Berengario rompendo in un pianto dirotto, « io ho visto Adelmo quella sera, ma lo vidi già morto! »

« Come? » interrogò Guglielmo, « ai piedi della scarpata? »

« No, no, lo vidi qui nel cimitero, procedeva tra le tombe, larva tra le larve. Lo incontrai e subito mi accorsi che non avevo di fronte a me un vivo, il suo volto era quello di un cadavere, i suoi occhi guardavano già le pene eterne. Naturalmente solo il mattino dopo, apprendendo della sua morte, io capii che ne avevo incontrato il fantasma, ma già in quel momento mi resi conto che stavo avendo una visione e che davanti a me stava un’anima dannata, un lemure... Oh Signore, con quale voce di tomba mi parlò! »

« E che disse? »

« ’Sono dannato!’ così mi disse. ’Tal quale mi vedi hai di fronte a te un reduce dall’inferno e all’inferno bisogna che torni.’ Così mi disse. E io gli gridai: ’Adelmo, vieni davvero dall’inferno? Come sono le pene dell’inferno?’ E tremavo, perché da poco ero uscito dall’ufficio di compieta dove avevo udito leggere pagine tremende sull’ira del Signore. Ed egli mi disse: ’Le pene dell’inferno sono infinitamente maggiori di quanto la nostra lingua possa dire. Vedi tu,’ disse, ’questa cappa di sofismi della quale sono stato vestito sino a oggi? Questa mi grava e pesa come avessi la maggior torre di Parigi o la montagna del mondo in su le spalle e mai la potrò più porre giù. E questa pena m’è stata data dalla divina giustizia per la mia vanagloria, per aver creduto il mio corpo un luogo di delizie, e per l’aver supposto di sapere più degli altri, e per l’essermi dilettato di cose mostruose, che vagheggiate nella mia immaginazione hanno prodotto cose ben più mostruose nell’interno dell’anima mia — e ora con esse dovrò vivere in eterno. Vedi tu? Il fodero di questa cappa è come fosse tutto bracia e fuoco ardente, ed è il fuoco che arde il mio corpo, e questa pena m’è data per il peccato disonesto della carne, della quale mi viziai, e questo fuoco ora senza sosta mi divampa e mi arde! Porgimi la tua mano, mio bel maestro,’ mi disse ancora, ’affinché il mio incontro ti sia di utile ammaestramento, rendendoti in cambio molti degli ammaestramenti che mi desti, porgimi la tua mano mio bel maestro!’ E scosse il dito della sua mano che ardeva, e mi cadde sulla mano una piccola goccia del suo sudore e mi parve che mi forasse la mano, che per molti giorni ne portai il segno, solo che lo nascosi a tutti. Poi scomparve tra le tombe, e il mattino dopo seppi che quel corpo, che mi aveva così atterrito, stava già morto ai piedi della rocca. »

Berengario ansimava, e piangeva. Guglielmo gli domandò: « E come mai ti chiamava suo bel maestro? Avevate la stessa età. Gli avevi forse insegnato qualcosa? »

Berengario nascose il capo tirandosi il cappuccio sul volto, e cadde in ginocchio abbracciando le gambe di Guglielmo: « Non so, non so perché mi chiamasse così, io non gli ho insegnato nulla! » e scoppiò in singhiozzi. « Ho paura, padre, voglio confessarmi da voi, misericordia, un diavolo mi mangia le viscere! »

Guglielmo lo scostò da sé e gli porse la mano per rialzarlo. « No Berengario, » gli disse, « non chiedermi di confessarti. Non chiudere le mie labbra aprendo le tue. Quello che voglio sapere di te me lo dirai in altro modo. E se non me lo dirai lo scoprirò per conto mio. Chiedimi misericordia, se vuoi, non chiedermi il silenzio. Troppi tacciono in questa abbazia. Dimmi piuttosto, come hai visto il suo volto pallido se era notte fonda, come ha potuto bruciarti la mano se era notte di pioggia e di grandine e di nevischio, cosa facevi nel cimitero? Avanti, » e lo scosse con brutalità per le spalle, « dimmi almeno questo! »

Berengario tremava in tutte le sue membra: « Non so cosa facessi nel cimitero, non ricordo. Non so perché ho visto il suo volto, forse avevo una luce, no... lui aveva una luce, portava un lume, forse ho visto il suo volto alla luce della fiamma... »

« Come poteva portare una luce se pioveva e nevicava? »

« Era dopo compieta, subito dopo compieta, non nevicava ancora, ha cominciato dopo... Ricordo che cominciavano a scendere le prime raffiche mentre fuggivo verso il dormitorio. Fuggivo verso il dormitorio, in direzione opposta a quella nella quale andava il fantasma... E poi non so più nulla, vi prego, non interrogatemi più, se non volete confessarmi. »

« Va bene, » disse Guglielmo, « ora vai, vai nel coro, vai a parlare col Signore, visto che non vuoi parlare con gli uomini, o vai a cercarti un monaco che voglia ascoltare la tua confessione, perché se da allora non confessi i tuoi peccati, ti sei avvicinato da sacrilego ai sacramenti. Vai. Ci rivedremo. »

Berengario scomparve di corsa. E Guglielmo si sfregò le mani come lo avevo visto fare in molti altri casi in cui era soddisfatto di qualcosa.

« Bene, » disse, « ora molte cose diventano chiare. »

« Chiare, maestro? » gli domandai, « chiare ora che abbiamo anche il fantasma di Adelmo? »

« Caro Adso, » disse Guglielmo, « quel fantasma mi pare pochissimo fantasma e in ogni caso recitava una pagina che ho già letto su qualche libro a uso dei predicatori. Questi monaci leggono forse troppo, e quando sono eccitati rivivono le visioni che ebbero sui libri. Non so se Adelmo abbia detto davvero quelle cose o se Berengario le abbia udite perché aveva bisogno di udirle. E’ un fatto che questa storia conferma una serie di mie supposizioni. Per esempio: Adelmo è morto suicida, e la storia di Berengario ci dice che, prima di morire, girava in preda a una grande eccitazione, e rimorso per qualcosa che aveva commesso. Era eccitato e spaventato per il suo peccato perché qualcuno lo aveva spaventato, e forse gli aveva raccontato proprio l’episodio dell’apparizione infernale che egli ha recitato a Berengario con tanta e allucinata maestria. E passava dal cimitero perché veniva dal coro, dove si era confidato (o confessato) con qualcuno che gli aveva incusso terrore e rimorso. E dal cimitero si avviava, come ci ha fatto comprendere Berengario, in direzione opposta al dormitorio. Verso l’Edificio, dunque, ma anche (è possibile) verso il muro di cinta dietro gli stabbi, da dove ho dedotto debba essersi gettato nel dirupo. E si è gettato prima che sopravvenisse la tempesta, è morto ai piedi del muro, e solo dopo la frana ha portato il suo cadavere tra la torre settentrionale e quella orientale. »

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