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Lo svolgimento del processo


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che gli allontanamenti rispettivamente descritti dai due collaboranti si differenziano non solo la per la loro differente cronologia, ma anche per altri elementi, come le diverse autovetture utilizzate dal Riina, e la diversa composizione del gruppo familiare che, nelle due circostanze, aveva accompagnato il capo mafia (soltanto il Marchese, infatti, ha menzionato, oltre alla moglie ed ai figli del Riina, la di lui cognata Manuela, che il Brusca ha escluso essere stata presente in occasione del definitivo allontanamento, quello da lui curato).

Assodato, dunque, che il Brusca ha fornito un contributo di segno ben diverso da quello postulato dalla Difesa a proposito del ruolo avuto dall’imputato nel favorire l’allontanamento di Salvatore Riina, la residua parte delle sue dichiarazioni, rese all’udienza del 16 dicembre 1998, corrisponde alla sintesi operata nella sentenza assolutoria della Corte di Appello di Palermo del 4 maggio 2001.

Questo collegio, peraltro, dissente dalla conclusione secondo cui <>.

Il Brusca, invero, ha lumeggiato il contesto e le ragioni della soppressione di Rosario Riccobono in termini coerenti con quelli descritti da Tommaso Buscetta, il quale ha narrato che i “corleonesi” avevano fatto credere allo stesso Riccobono di considerarlo un loro alleato, uccidendolo dopo avere << eliminato quelli che potevano darci più disturbi>> (pagina 71 trascrizione udienza 25 maggio 1994).

Fuorviante, poi, ad avviso di questa Corte, è l’affermazione - espressa nella citata sentenza del 4 maggio 2001 - che le confidenze di Salvatore Riina vennero <>.

Il Brusca, infatti, ha illustrato le ragioni che avevano indotto Totò Riina a nutrire sospetti sulla affidabilità di Rosario Riccobono.

Ha spiegato che, alla fine degli anni settanta del novecento, lo stesso Riina aveva chiesto a suo padre, Bernardo Brusca, di contattare il Riccobono - nel cui territorio di egemonia mafiosa ricadeva il carcere dell’Ucciardone - per averne il benestare al progetto di fare evadere il mafioso Luciano Liggio, ivi ristretto.

Nel giro di un paio di giorni, tuttavia, la struttura carceraria era stata presidiata dai Carabinieri e Luciano Liggio era stato trasferito altrove, sicchè il progetto era sfumato (pagine 7-10 della trascrizione).

La convinzione del Riina che vi fosse una “cordata” di delatori (Badalamenti, Bontate, Inzerillo, Di Cristina, il Riccobono) che intrattenevano rapporti privilegiati con esponenti delle Forze dell’ordine, si era, poi, rafforzata nel frangente in cui egli era sfuggito all’arresto, rinunciando - all’ultimo momento - ad un appuntamento presso lo studio del commercialista Mandalari, perquisito quello stesso giorno dai Carabinieri (ibidem, pagine 12-13).

Ciò che più rileva, comunque, non sono le spinte psicologiche sottese ai giudizi di Salvatore Riina, ma il fatto che questi avesse esternato al Brusca la sua personale convinzione che il rapporto tra Riccobono e Contrada fosse una relazione da confidente a poliziotto;esternazione della cui genuinità non è dato dubitare, atteso lo stretto legame di Giovanni Brusca con Salvatore Riina.

Ancora una volta, cioè, l’istruzione dibattimentale ha dato contezza della diffidenza che, in vasti settori dell’organizzazione mafiosa, circondava il personale rapporto tra Contrada e Rosario Riccobono. Tale diffidenza presuppone e manifesta la sussistenza di quel rapporto, che lo stesso Riccobono non avrebbe avuto ragione di millantare, rischiando, come ben chiarito dal Buscetta, la sua stessa vita nel caso in cui le sue assicurazioni fossero state smentite da operazioni di Polizia condotte a buon fine nel suo territorio.

Nell’ambito della disamina delle censure riguardanti le dichiarazioni di Gaspare Mutolo è stata citata, a questo riguardo, la testimonianza del Prefetto Vincenzo Parisi, già capo della Polizia e Direttore del S.I.S.D.E., (pagine 544-545 della sentenza appellata), secondo cui il rapporto che si instaurava tra operatori della Polizia giudiziaria e confidenti era “talvolta equivoco”, giacchè l’operatore di Polizia affermava di avere acquisito una sua fonte in ambiente criminale e la stessa fonte, dal canto suo, sosteneva di avere “contattato” in termini negativi l’operatore di Polizia.

E’ stato osservato che, proprio perché l’imputato ha costantemente negato in radice un qualsivoglia rapporto con Rosario Riccobono, precisando che non avrebbe avuto ragione di nasconderlo ove vi fosse stato, non è possibile applicare il paradigma descritto dal teste Parisi; apparendo, dunque, legittimo inferire che il nascondimento di una tale frequentazione fosse scaturito, sin dal 1984 - epoca dell’inchiesta giudiziaria derivata dalle prime dichiarazioni di Tommaso Buscetta - proprio dalla sua non confessabilità.

CAPITOLO XXIV
Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo
Francesco Di Carlo, premettendo di avere fatto parte della famiglia mafiosa di Altofonte a partire dagli anni ’60 del novecento (dapprima come soldato, quindi come consigliere, poi in veste sottocapo ed infine quale rappresentante), di essere stato estromesso da “Cosa Nostra” nell’autunno del 1982 e di non essere più venuto in Sicilia dal 1983, ha dichiarato di avere beneficiato del trasferimento, in Italia, dell’esecuzione della pena di venticinque anni di reclusione, comminatagli in Gran Bretagna per delitti in materia di stupefacenti; pena prossima alla completa espiazione e scontata, alla data dell’esame, in stato di detenzione domiciliare (pagine 9-11-40 trascrizione udienza 6 febbraio 1999) 92.

Ha riferito di essere stato latitante dal 2 febbraio 1980 al 21 giugno 1985, giorno del suo arresto in Inghilterra; di avere iniziato a collaborare con la giustizia nel giugno 1996; di non riconoscersi più nell’attuale modello di Cosa Nostra, profondamente diverso da quello da lui conosciuto trent’anni prima; di non avere condiviso, infatti, la scelta stragista del 1992 e di essere stato colpito dalla soppressione del piccolo Giuseppe Di Matteo, figlio del mafioso Santino Di Matteo, che egli si era vanamente adoperato per fare liberare; di avere deciso, per queste ragioni, di cambiare vita (ibidem, pagine 12-13).

Ha soggiunto di avere impiantato e gestito in società di fatto con il principe Alessandro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo, sin dal 1975, la discoteca-pizzeria “Al Castello”, allocata nel castello di San Nicola L’Arena di proprietà di questi; attività formalmente intestata, per ridurre il rischio di ostacoli nei rinnovi delle licenze, ad un barman incensurato, tale Giuseppe Cusimano (pagine 14-17).

Ha dichiarato che nel 1979, dopo l’omicidio del vice-questore Giuliano, il Vanni Calvello lo aveva avvertito di un imminente controllo di polizia nel locale “Al Castello”, ove, quindi, egli aveva ritenuto opportuno non farsi trovare, sebbene, a quell’epoca, non fosse ancora ricercato.

Successivamente, egli aveva appreso dal Vanni Calvello che la notizia era pervenuta da Michele Greco, ed in prosieguo di tempo aveva saputo che quest’ultimo era stato informato da Rosario Riccobono, alla “Favarella (cioè la tenuta del Greco, cfr. pagine 17-18-44-45).

Il collaborante, inoltre, ha riferito di avere interessato Contrada, intorno al 1976 - tramite un certo Tusa, titolare di un centro estetica e benessere (<<dove si facevano saune, e docce, e cose, piscine>>), contattandone il cognato, cioè il mafioso Giuseppe Buffa, della “famiglia” di Resuttana - per agevolare il rinnovo della licenza del locale “Al Castello” in favore del suo apparente titolare, il prestanome Giuseppe Cusimano, operazione che era andata a buon fine (pag. 21)93.

Ha soggiunto di avere visto l’imputato, nella seconda metà o intorno alla fine del 1980, in una delle residenze di Rosario Riccobono, e cioè una villa ubicata prima di Partanna Mondello, <<scendendo da Fondo Patti>>; di avere preso, alcuni giorni prima, un appuntamento con il Riccobono tramite Salvatore Micalizzi perché avevano << qualche traffico in comune>>; di avere notato, arrivando, parecchi giovani della “famiglia”; di essere stato fatto entrare in una stanza nella quale si trovavano, da soli, lo stesso Riccobono e Contrada, da lui riconosciuto; di essersi trattenuto per un minuto e poi di essere andato via, e dunque di non sapere di cosa stessero parlando.

Il collaborante ha, altresì, spiegato <<certo, io ero latitante, un po’ ho guardato cosi però sapevo dell’amicizia che aveva Saro Riccobono con Contrada>>, amicizia non nascosta dal capo mafia, che anzi la metteva a disposizione per eventuali problemi degli associati (pagine 20-21).

Aveva visto l’imputato, comunque, mentre egli stesso era latitante <<in un altro bar che frequentava Saro Riccobono proprio alle spalle di Via Don Orione>>, in una strada di cui inizialmente ha riferito di non ricordare la denominazione e nella quale avevano costruito i Graziano, che successivamente ha ricordato essere <<via Jung… una cosa così>> (pagine 22-23).

Più esattamente egli stesso si era recato in quel bar ed aveva intravisto l’imputato mentre si allontanava con lo stesso Riccobono (pag. 59). Aveva, comunque, in precedenza sentito parlare di lui, così come del magistrato Domenico Signorino (<<A volte si parlava di una casa che avevano là’, di un appartamento perchè si vedevano ogni tanto>>) , dai fratelli Graziano, perché gli era sovente capitato di trovarsi nella zona di Via Ammiraglio Rizzo, essendo socio in una impresa di autotrasporti con Antonino Pipitone, abitante nella via Don Orione e, per un periodo, rappresentante della “famiglia” dell’Acquasanta.

Il Di Carlo, infine, ha escluso di avere mai sentito tacciare Riccobono, negli ambienti di mafia, di essere un confidente della Polizia o dei Carabinieri; ha ribadito che, al contrario, erano le forze dell’Ordine a garantire la sua impunità (segnatamente, il maresciallo dei Carabinieri della Stazione di Partanna Mondello, che faceva finta di non vederlo, oltre che, per quanto riferitogli dal Riccobono stesso, Contrada con le sue informazioni, cfr. pagine 69 ed 86).

****


La credibilità di Francesco Di Carlo è già stata positivamente valutata con la sentenza resa dal Tribunale di Palermo il 9 luglio 1997 nei confronti di Mandalari Giuseppe, imputato del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa; sentenza confermata in grado di appello, divenuta irrevocabile a seguito del rigetto del ricorso per Cassazione in data 7 aprile 1999, prodotta nel primo dibattimento di appello all’udienza del 24 marzo 2000.

In essa, invero (pagine 59-60 ) si afferma che <

L'esposizione dei fatti relativi alla latitanza del Riina ed alle attività illecite dei componenti della famigli Badalamenti sono apparse talmente circostanziate che nessun dubbio può sussistere in ordine alla diretta partecipazione del Di Carlo ai cennati episodi criminosi sicché, sotto tale aspetto, la collaborazione fornita dallo stesso può ritenersi di elevata attendibilità.

Tale giudizio trova conferma anche in relazione alle specifiche accuse mosse dallo stesso nei confronti dell'imputato del quale il Di Carlo ha indicato le molteplici frequentazioni tutte, come si vedrà, integralmente confermate dall'esito delle deposizioni testimoniali oltre che in parte ammesse da parte del Mandalari medesimo (…) .

Le predette considerazioni, pertanto, fanno propendere per un giudizio di piena attendibilità intrinseca del collaboratore di giustizia Di Carlo Francesco>>.

L’intraneità del collaborante al sodalizio mafioso (e dunque la possibilità di svelarne i segreti e le dinamiche), ed in particolare i suoi legami con il principe Alessandro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo, già condannato con sentenza irrevocabile per il reato di associazione per delinquere di tipo mafioso nell’ambito del procedimento penale denominato maxi-bis, sono stati evocati dallo stesso imputato che, all’udienza del 6 febbraio 1999 ha spontaneamente dichiarato di avere denunciato con rapporto del 7 febbraio 1981 per l’omicidio del capo della Squadra Mobile Boris Giuliano trentasei persone, tra cui il collaborante ed i suoi due fratelli Andrea e Giulio (pagine 34-35 della trascrizione).

Risulta per tabulas, inoltre, che nel luglio del 1979 il capitano Basile, comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale, nel quadro delle indagini relative alla scomparsa dei fratelli Sorrentino di Altofonte, richiese alla Procura della Repubblica di Palermo l’emissione di provvedimenti tendenti ad accertare la consistenza patrimoniale e le disponibilità bancarie dei fratelli Di Carlo, dei fratelli Gioè, di Marchese Antonino e di Vanni Calvello Mantegna Alessandro, motivando la sua richiesta con il fondato convincimento che tali individui fossero coinvolti in traffici illeciti ed in particolare in quello della droga. Lo stesso capitano Basile riferì alla Procura che a San Nicola L’Arena esisteva un’infrastruttura alberghiera denominata “Al Castello” dove fondatamente si riteneva che avvenisse lo spaccio di droga e che apparteneva alla società di fatto costituita da Vanni Calvello Mantegna Alessandro ed i fratelli Di Carlo (cfr. ff. 38 e ss.- 54 e ss. rapporto del 7/2/1981 acquisito all’udienza del 6/5/1994).

Sono rimasti accertati, inoltre, i molteplici rapporti d’affari intrattenuti da Michele Greco detto il “papa” - concordemente indicato da più collaboratori di giustizia, nell’ambito del primo maxi processo, come “capo” della “commissione”, organismo posto al vertice dell’organizzazione criminale - con altri coimputati, tra cui i fratelli Di Carlo (cfr. tomo 28 - ff. 5300 e ss. sent. I° grado maxi processo).

Ed ancora, con sentenza resa il 15 dicembre 1992 dalla Corte di Appello di Palermo, sezione prima penale, passata in giudicato il 15 novembre 1993 e prodotta dal Procuratore Generale all’udienza del 13 giugno 2000, è stato pronunziato il riconoscimento della sentenza irrevocabile di condanna a venticinque anni di reclusione emessa l’undici marzo 1987 dalla Central Criminal Court di Londra nei confronti di Francesco Di Carlo, dichiarato colpevole di “Conspiracy” (cioè di un accordo criminoso esplicitato in atti concreti) in importazione illegale, nel Regno Unito, di partite di hashish e di eroina94.

Il positivo giudizio sulla credibilità del Di Carlo è rafforzato dalla considerazione che, nei suoi riguardi, non è ipotizzabile la calunnia per vendetta in ragione del rapporto di denuncia a firma dell’imputato in data 7 febbraio 1981, riguardante l’omicidio del capo della Squadra Mobile Boris Giuliano.

Lo stesso Di Carlo, invero, ha affermato di avere appreso soltanto nel corso del proprio esame, interrotto dalle citate dichiarazioni spontanee dell’imputato, che quest’ultimo era stato artefice del rapporto di denuncia a suo carico:

<< Di Carlo: Io che sono stato denunciato del dott. Contrada l’ho saputo qua, mentre l’ha detto poco fa il dott. Contrada, perché’ non so, io ero latitante, io mi ricordo solo che ero latitante per l’associazione che aveva fatto il capitano Basile, poi sono stato assolto, mentre per il rapporto che dice il dott. Contrada che e’ stato dopo la morte di Boris giuliano, infatti sono stato prosciolto.

Ma i miei fratelli non sono stati mai imputati, fa un errore il dott. Contrada dire che ha fatto un associazione i miei fratelli a me.

Ero solo io però sono stato prosciolto dal dott. Borsellino

Avv. Milio: Quindi lei era a conoscenza che c’era stato un rapporto di denuncia del dott. Contrada per l’omicidio ..., e l’omicidio Boris Giuliano a carico di tante persone tra cui lei ?

Di Carlo: Ma non so chi l’aveva fatto.

L’ho saputo adesso mezz’ora fa, quando l’ha detto il dott. Contrada che era stato suo il rapporto, ma non l’avevo saputo mai>>.

Tali affermazioni sono state plausibilmente argomentate dal collaborante con il proscioglimento intervenuto per l’omicidio Giuliano, e con la conoscenza del fatto che le indagini che più direttamente lo avevano riguardato erano state condotte dal capitano Basile.

Peraltro, lo stesso rapporto del 7 febbraio 1981, riguardante l’omicidio Giuliano, è formalmente rubricato come << Rapporto congiunto del 7 febbraio 1981 della Squadra Mobile e del Nucleo Operativo dei Carabinieri di Palermo>>, e reca, in calce, le firme del maggiore CC Santo Rizzo, del dr. Contrada e del Dirigente la Squadra Mobile Impallomeni; apparendo, dunque, ben possibile che la sua paternità non avesse dato luogo a marcate personalizzazioni95.

Lo stesso Di Carlo, oltretutto, ha mostrato un evidente distacco nei riguardi della posizione dell’imputato: non lo ha menzionato, anche in momenti rilevanti delle sue dichiarazioni, quando il suo nome non gli era stato fatto (si è detto del preavviso del controllo di Polizia presso la discoteca “Al Castello” e si dirà appresso della vicenda dell’arresto di Giovanni Bontate), ovvero ha preso le distanze da indicazioni della cui veridicità si è detto non certo (come accaduto a proposito della notizie sulla vicenda del rinnovo del porto di pistola ad Alessandro Vanni Calvello, v. infra).

Ha ammesso, inoltre, senza alcuna difficoltà, ed anzi fornendo dei particolari che non sarebbero stati, altrimenti, tutti facilmente accertabili, di avere avuto conoscenza dell’arresto di Contrada mentre era detenuto in un carcere fuori Londra, dove aveva possibilità di leggere i quotidiani italiani (pag. 65); di essere stato trasferito in Italia il 13 giugno 1996; di avere continuato a leggere sistematicamente il “Corriere della Sera”, passatogli dall’amministrazione carceraria, e occasionalmente, il “Giornale di Sicilia”; di avere letto articoli sul processo (pag. 67 della trascrizione).

Alla medesima stregua, ha ammesso di avere avuto occasioni di incontro con il pentito Francesco Onorato, nel 1997, all’interno del carcere di Rebibbia nel 1997, anche se per pochissimo tempo, senza discutere né di processi né di collaborazioni in quanto espressamente vietato (pag. 81 della trascrizione); circostanza, questa, che trova riscontro nelle analoghe dichiarazioni rese dall’Onorato, il quale ha precisato che Di Carlo era tenuto sotto stretta sorveglianza, e che egli stesso era stato condotto a Rebibbia dopo avere reso le proprie dichiarazioni (esame Onorato, pag. 93,95,96 trascrizione udienza 19 gennaio 1999).

*******

La positiva verifica dell’attendibilità intrinseca del collaborante discende anche dalla logicità e coerenza delle sue dichiarazioni.



Ad onta, infatti, di quanto sostenuto dai difensori dell’imputato, appaiono congrue le giustificazioni offerte dal Di Carlo circa il proprio comportamento in occasione del controllo di Polizia presso la Discoteca “Al Castello”, così come nella circostanza dell’incontro con Bruno Contrada in una delle residenze di Rosario Riccobono.

All’obiezione, infatti, secondo cui, non essendo all’epoca ricercato, non avrebbe avuto alcuna ragione di non farsi trovare nel locale che gestiva in società di fatto con Alessandro Vanni Calvello, il Di Carlo ha persuasivamente opposto ragioni di cautela, peraltro pienamente giustificate alla stregua dei sospetti e delle già descritte investigazioni del capitano Basile : <<Ma non sapendo per che cosa venivano, mi sono “canziato”96 subito, .....sbirri, mi scusi la parola, perché si usava in questo modo, ma sempre una precauzione uno prendeva (…)Signor Presidente, ma nessuno era ricercato, ma tutti potevamo essere indagati. Io sapevo che ero Cosa nostra, un esponente di Cosa Nostra, nell’aria si sapeva, tanta gente lo sapevamo ma non parlavano>> (pagine 44-45 e 78 della trascrizione)97.

Né, peraltro, incide sulla credibilità del collaborante, non riguardando il nucleo essenziale della sua narrazione, il fatto che il controllo di Polizia presso la discoteca “Al Castello” risulti effettuato prima e non dopo l’omicidio di Boris Giuliano (perpetrato il 21 luglio 1979), e cioè il 14 luglio 1979, come si evince dalla annotazione nell’agenda dell’imputato, a quella data, dell’appunto “ore 20.30, servizio S. Nicola Arena”; indicazione, questa coerente con la testimonianza resa all’udienza del 20 gennaio 1995 dall’ispettore di Polizia Calogero Buscemi su tale operazione.

Le medesime ragioni di cautela sono state addotte in relazione al breve incontro che egli ha affermato di avere avuto in una villa ubicata prima di Partanna Mondello, <<scendendo da Fondo Patti>>.

E’ del tutto plausibile, infatti, che il collaborante, condotto al cospetto del Riccobono, con il quale aveva un appuntamento per <<traffici>> (evidentemente illeciti) in comune con lui, pur dichiarandosi <<non stupito>> della presenza di Contrada - i cui rapporti con il capo mafia gli erano già noti - avesse, in ragione del disagio determinato dalla sua condizione di latitante e della qualità stessa dell’imputato, preferito defilarsi e rinviare l’incontro.

Né, ancora, appaiono idonee ad infirmare la credibilità del Di Carlo le dichiarazioni rese su quanto a sua conoscenza circa il rinnovo, nel 1980, del porto di pistola ad Alessandro Vanni Calvello di San Vincenzo.

Egli, infatti, ha dichiarato di non essersi mai interessato di tale pratica, giacchè, per queste faccende, il Vanni Calvello faceva riferimento al funzionario di Polizia Pietro Purpi, sensibile al suo blasone, il quale, dopo avere retto il Commissariato di Polizia di Via Roma, ubicato a breve distanza dal Palazzo nobiliare della famiglia (cioè il palazzo Ganci) aveva diretto il Commissariato di Polizia di Via Libertà : <<Questo Purpi cercava di avere più confidenza possibile nel senso amichevole con i Principi .

E quando è stato una volta per il rinnovo dei problemi, dei problemi a cui si riferiva Alessandro erano, perché ce l’ha raccontato anche il vicequestore Purpi, che poi è andato in via Libertà a comandare (pag. 32 della trascrizione).

Per inciso, va rilevato che le indicazioni del Di Carlo sugli incarichi del Purpi, sulla ubicazione dei distretti di Polizia da lui diretti e sul ruolo da lui avuto nella vicenda sono state pienamente riscontrate.

Lo stesso imputato, infatti, ha dichiarato che nel 1971 il Purpi aveva lasciato la Squadra Mobile per andare al I° Distretto di Polizia nella via Roma (al civico 111) ed in seguito, intorno al 1977, al II Distretto di Polizia, nella via Libertà, fino all’epoca del proprio collocamento in pensione.

Parimenti riscontrata è risultata l’indicazione del ruolo avuto nella vicenda dal dr. Pietro Purpi.

Risulta, infatti, per tabulas che il 10 ottobre 1978 il Vanni Calvello avanzò nuova istanza per ottenere licenza di porto di pistola, concessagli con provvedimento emesso il 16 ottobre 1978 dal Prefetto di Palermo Giovanni Epifanio, licenza successivamente rinnovata a seguito dei reiterati pareri favorevoli formulati dal II° Distretto di Polizia diretto dal Purpi, territorialmente competente, avendo il Vanni Calvello la propria residenza anagrafica in via Marchese di Villabianca n.101 (cfr. ff. 92-93-94 - 102 -103-107 del fascicolo, pag. 1376 della sentenza appellata).

Il Di Carlo, poi, ha precisato che i “problemi” nel rinnovo del porto d’armi erano stati determinati:



  • dall’amicizia del Vanni Calvello con lui (circostanza pienamente verificata, come si desume dalle note del 22 marzo 1980 e del18 dicembre a firma dell’imputato, delle quali si è detto nel capitolo dedicato a quella vicenda);

  • dal risentimento di Contrada per non essere stato invitato al pranzo tenuto a palazzo Ganci in occasione della visita a Palermo della regina Elisabetta II di Inghilterra (il collaborante ha riferito di averne avuto notizia dallo stesso Vanni Calvello, ma di non ricordare se questi gli avesse detto di averne parlato con Purpi o con un maresciallo che gli sembrava si chiamasse Siracusa).

Ha precisato, tuttavia, di non sapere se la giustificazione del risentimento di Contrada fosse vera o fosse una semplice boutade : <<ci era stato a giugno la visita a casa di questo mio amico Alessandro, a Palazzo Ganci, la visita della Regina col marito d’Inghilterra, avevano pranzato là, e che non era stato invitato, almeno questo e’ il riferimento, poi se l’ha detto vero il dott. Contrada non lo so>> (pag. 32 della trascrizione) .

Nel corso suo controesame il collaborante ha ribadito il suo distinguo : <<Per quello che ho avuto detto da Alessandro San Vincenzo, però lui ce l’ha riferito, mi sembra che e’ stato Purpi proprio, che Contrada l’aveva con San Vincenzo perché Contrada essendo, non so cosa era nella polizia, che grado era arrivato, non era stato invitato.



C’era il Questore, c’erano politici, c’erano tutti a questo pranzo, e allora Alessandro ci ha detto a San Vincenzo “ma guarda che il cerimoniale non lo facciamo noi, lo fa la Prefettura”, perciò non potevo invitare, io quelli della famiglia propria, abbiamo un limite chi poteva essere nei tavoli perché bisogna darlo prima tutto chi si siede là.

E questa, l’unica storia che ho saputo e’ questa, però sapevo per quello che ci hanno riferito, può darsi che magari il Purpi non diceva la verità, però ci hanno riferito questo…>> (ibidem, pag.55) ,

I dubbi del Di Carlo sulla serietà di tale indicazione sono emersi anche dalla narrazione degli eventi successivi: egli aveva riferito di questo presunto sgarbo di Contrada a Rosario Riccobono, il quale, in prosieguo di tempo, gli aveva detto di averne discusso con Alessandro Vanni Calvello, che aveva negato il fatto: <<Saro mi ha visto un po’ incavolato, mi ha detto “tu sai chi mi tocca Alessandro, io ci tolgo la vita”, “no, adesso ci parlo io ...saranno cose dette avvolte”, poi mi ha dato la risposta “..no, non c’e’ niente, lui nega di avere detto questo,”(…) >> ( pag. 33 della trascrizione).

A questa stregua, posto che - per la notoria complessità della macchina organizzativa di tali eventi - non si può dubitare che nel mese di marzo 1980 la visita della regina Elisabetta a Palermo fosse stata già prevista, non può escludersi che il Vanni Calvello avesse espresso una sua personale ipotesi, ovvero ripetuto una congettura ascoltata da altri : quella, cioè, che gli ostacoli nel rinnovo del porto di pistola, poi assentito il 22 ottobre dal Questore di Palermo, fossero stati inizialmente frapposti da Contrada in quanto - per esigenze di protocollo - non previsto tra gli invitati. Il successivo ridimensionamento del fatto da parte del Vanni Calvello troverebbe, in tale ottica, un logico addentellato in una sorta di “cessazione della materia del contendere”, determinata dal parere favorevole espresso dall’imputato con la nota del 18 ottobre 1980.

In conclusione, l’erronea indicazione dell’epoca del pranzo (giugno 1980, in luogo del 20 ottobre 1980) non intacca la credibilità del collaborante rispetto ad un episodio che, comunque, nell’economia del suo narrato, resta del tutto marginale.

Deve, poi, ritenersi riscontrata anche la narrazione riguardante l’interessamento dell’imputato per il primo rinnovo della licenza relativa all’attività di discoteca e bar esercitata nel locale “Al Castello” di San Nicola L’arena.

La vicenda non investe la prova dell’addebito di concorso esterno in associazione mafiosa - considerati, infatti, l’intervento di un soggetto estraneo al sodalizio come il Tusa e l’epoca remota del fatto, non è certo che Contrada fosse consapevole di contribuire al rafforzamento di “Cosa Nostra” - ma è comunque rilevante ai fini della valutazione della generale credibilità e della attendibilità intrinseca del Di Carlo.

Dal compendio documentale acquisito presso la Questura di Palermo nel corso del primo dibattimento di appello, pervenuto in Cancelleria il 13 febbraio 1999, è dato rilevare che l’intestatario della licenza per la gestione del locale denominato “Al Castello” fu, effettivamente, tale Giuseppe Cusimano sin dall’aprile 1977 - e, dopo alcuni esercizi nei quali lo fu tale Antonino Lucani - dal luglio 1983 in poi (cfr. la nota della Questura di Palermo, Divisione Polizia Amministrativa del 13 febbraio 1999).

La vicenda, poi, è stata ricostruita in modo logico dal collaborante, il quale ha riferito di essersi rivolto a tale Tusa, titolare di un centro di estetica e benessere frequentato dall’imputato, per il tramite del di lui cognato Giuseppe Buffa, associato mafioso del mandamento di Resuttana.

Il Di Carlo, in particolare, nel corso del suo controesame, ha spiegato di non essersi rivolto direttamente a Rosario Riccobono in quanto, a quell’epoca, non era al corrente che l’imputato fosse in rapporti personali con lui, cosa che aveva saputo intorno al 1978 (pag. 78 della trascrizione).

Un indiretto ma significativo riscontro alle sue affermazioni è stato offerto dalla testimonianza resa all’udienza del 2 marzo 2000 dell’architetto Matteo Tusa, titolare del centro di fisiochinesi terapia ed estetica denominato “Shavara”, sito a Palermo tra la Via Valdemone e la via Ausonia.

Il teste, infatti, ha indicato tra i numerosi esponenti della istituzioni che frequentavano il centro anche l’imputato, dichiarando di avere avuto con lui <<rapporti di cordialità tra persone che si stimano>> (pagine 85 – 87 della trascrizione).

Ha negato di essere stato interessato da chicchessia, e di avere interessato Contrada, perché fosse sollecitamente rinnovata la licenza dell’esercizio “Al Castello”.

La testimonianza del Tusa, che prima facie costituisce una smentita alla affermazioni del Di Carlo, presenta, in realtà, due punti critici che ne inficiano l’attendibilità.

Il teste, innanzitutto, ha ammesso di avere conosciuto negli anni della comune infanzia un Giuseppe Cusimano, di professione barman, offrendo delle coordinate perfettamente rispondenti a quelle indicate dal Di Carlo a proposito del suo prestanome (<>>, pag. 14 trascrizione udienza 6 febbraio 1999).

Lo stesso Tusa ha affermato di non vedere il Cusimano da circa ventinove anni (pag. 82 trascrizione udienza 2 marzo 2000) salvo poi a dichiarare che, forse, gli aveva affidato la gestione del bar all’interno del Centro, aperto nel febbraio 1972 e chiuso il 28 dicembre 1980 (<<non ricordo se Pino Cusimano, perché di lui si tratta, ha gestito per un breve periodo, gli ho fatto gestire il bar all’interno del mio centro>>, ibidem, pag. 83).

Nel corso del controesame, condotto dal Procuratore Generale, si sono dissipate le incertezze del teste sull’affidamento in gestione, al Cusimano, del bar dello “Shavara” <<..perché' io avevo dei ragazzi barman che non erano, io se non ricordo male lui era un ragazzo raffinatissimo, cioè il suo mestiere lo faceva veramente bene, se lo fa ancora non lo so, dico per cui mi ha istruito un ragazzo, cioè l'ha ripulito diciamo, per stare dietro il banco, servire, perché andava sul locale della sauna, ora i clienti lì erano nudi, coperti, per cui ci voleva un certo garbo, ecco Pino mi ha aiutato..>>.

Ha precisato che tale rapporto si era instaurato quando aveva incontrato lo stesso Cusimano presso il bar “Life”, dove questi lavorava, sito nella Via Ausonia, non lontano dal Centro “Shavara”, ed ha soggiunto che il predetto era, grosso modo, suo coetaneo (il Tusa ed il Cusimano risultano rispettivamente nati il 18 aprile 1949 ed il 24 giugno 1950).

Ha eluso, peraltro, la specifica domanda del Procuratore Generale circa l’epoca nella quale il Cusimano avrebbe gestito il bar del Centro “Shavara” (pagine 92-97).

Il Tusa, in secondo luogo, pur non potendo fare a meno di negare un dato agevolmente verificabile come il suo rapporto di affinità con Giuseppe Buffa, marito della di lui sorella Carolina Tusa, ha escluso che questi gli si fosse rivolto per perorare il rinnovo della licenza di esercizio del locale “ Al Castello”.

Ha affermato di non avere, con lui, rapporti diversi da quelli familiari, ed anzi di non vederlo da dieci anni, specificando che << anche all’epoca non c’era proprio una frequentazione>>, al di là di occasioni familiari come matrimoni, funerali e battesimi.

Ha riferito, tuttavia, che il Buffa abitava nel suo stesso stabile in un appartamento al terzo piano, precisando, contraddittoriamente, << io abitavo sotto per cui ci si vedeva quando io scendevo negli uffici della Shavara, lui magari aveva fatto la spesa e saliva al terzo piano, ma erano limitati a questo tipo di frequentazione>> (pagine 77 – 80 della trascrizione).

In sede di controesame, poi ha riferito che il Buffa era stato, sia pure come prestanome, socio del centro ”Shavara” , avendo acquistato tra il 1975 ed il 1976 una quota del 20% nella effettiva titolarità di tale Ernesto Piraino, stabilitosi a Milano e quindi non facilmente reperibile per eventuali atti di gestione da compiere congiuntamente (ibidem, pagine 98-99).

Quanto ai rapporti tra l’odierno imputato ed il Tusa, all’udienza dell’undici marzo 1999 il teste Luigi Bruno (incaricato della ricerca di eventuali riscontri anche alle dichiarazioni del Di Carlo) ha riferito <<Dalle agende, dalle analisi delle agende a suo tempo sequestrate al dott. Contrada, risultano alcune annotazioni, e tra questi 19/10/1976 Spedalieri Alfredo 1948 - shavara , e abbiamo visto che la società shavara, tra i soci ha avuto un certo Spedalieri Alfredo nato a Palermo il 16 settembre 1948.

Poi in data 20/10/1976, quindi un giorno dopo la nascita della figlia dell’architetto Tusa, c’è una annotazione e dice “clinica Orestano - Tusa Donatella e Matteo, poi il 7 febbraio 1979 risulta una annotazione, Tusa M. e il 30/10/1979 risulta un’altra annotazione, Arch. Tusa qui>> (pag. 57 della trascrizione).

In conclusione, il maldestro tentativo del teste Tusa di minimizzare i rapporti con Giuseppe Cusimano, così come quelli con il cognato Giuseppe Buffa, ma anche quelli, asseritamente di mera conoscenza e di stima, con lo stesso imputato, non solo non vale a smentire le dichiarazioni del Di Carlo riguardanti il rinnovo della licenza di esercizio della discoteca “Al Castello”, ma costituisce una significativa conferma della generale attendibilità del collaborante.

La positiva verifica di tale attendibilità non risente, ad avviso di questa Corte, della affermazione, vivamente contestata, secondo cui Contrada si sarebbe avvicinato a Rosario Riccobono per paura, preavvisandolo in anticipo di eventuali, imminenti,operazioni di polizia.

A ben guardare, infatti, il collaborante si è limitato a riferire una valutazione che ha dichiarato di avere sentito esprimere al Riccobono.

Lo stesso Tribunale, d’altra parte, pur non ritenendo tale condizione accertata come sicuro movente della condotta dell’imputato, ha comunque ritenuto di sottolinearne la plausibilità (cfr. le lucide e puntuali considerazioni svolte alle pagine 1731-1739 della sentenza appellata, cui si rinvia per esigenze di brevità espositiva).

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Il positivo giudizio di attendibilità intrinseca del Di Carlo, e, al contempo, anche la positiva verifica della sua attendibilità estrinseca e del suo contributo, si correlano in modo particolarmente significativo alle dichiarazioni riguardanti le circostanze dell’arresto di Giovanni Bontate, fratello di Stefano, che il collaborante ha narrato di avere incontrato a Roma tra il marzo e l’aprile 1980, fermandosi a pranzo con lui e con Pietro Lo Iacono, consigliere della “famiglia “ di Santa Maria di Gesù ed all’epoca latitante.

Giovanni Bontate - ha dichiarato il Di Carlo - in quel frangente gli aveva detto di avere saputo da Rosario Riccobono di figurare tra i denunciati in un rapporto della Questura di Palermo relativo a fatti di traffico di stupefacenti. Il Riccobono, tuttavia, gli aveva assicurato che quel rapporto non avrebbe portato a provvedimenti restrittivi della sua libertà personale perché “vacante”, cioè non abbastanza incisivo nei suoi riguardi (<< ma lui ha detto per quello come era stato fatto, non ci dovrebbero essere i presupposti che i magistrati spiccherebbe un mandato di cattura>>, pag. 26 della trascrizione).

Lo stesso Di Carlo ha soggiunto che Giovanni Bontate, contrariamente alle sue aspettative, era stato successivamente tratto in arresto (pagine 24-27).

Richiesto, quindi, di spiegare se e come fosse venuto a conoscenza delle circostanze in cui era maturato l’omicidio del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa, consumato il 6 agosto 1980, il Di Carlo ha riferito di averne discusso durante l’estate del 1980 e quella del 1981 con Rosario Riccobono e Salvatore Micalizzi, a Capo D’Orlando, località in cui egli trascorreva le vacanze.

In tali occasioni egli aveva avuto conferma di quanto già aveva saputo lo stesso giorno dell’omicidio, quando egli si era trovato a Catania per un appuntamento con Nitto Santapaola e con il proprio capomandamento Bernardo Brusca: il Procuratore Costa, cioè, si era personalmente esposto, nel dissenso – reso pubblico – di alcuni dei suoi sostituti, “firmando” per arresti eseguiti nell’ambito di quel rapporto che si presumeva fosse “vacante” nei riguardi di Giovanni Bontate.

Questa era stata la ragione della sua eliminazione, caldeggiata sia da Stefano Bontate, sia da Salvatore Inzerillo : << Già sapevo un po’ che doveva succedere questo omicidio, da quando aveva spiccato i mandato di cattura a Inzerillo e famiglia, Boccadifalco, Passo di rigano, aveva spiccato mandato di cattura e si era preso lui la responsabilità, era venuto fuori dal Tribunale che i Procuratori che c’erano, i sostituti Procuratori che c’erano in quel periodo, non so chi, non tutti, non avevano voluto firmare e si era preso la responsabilità a firmare il Costa (…)L’hanno chiesto sia Inzerillo che Stefano Bontade, anche perché c’era incluso suo fratello (…)Questo e’ il rapporto di cui parlavo prima>> (pag. 28-29).

Si è già evidenziata, nel capitolo relativo all’operazione di Polizia del 5 maggio 1980, la pregnante valenza del richiamo operato dal Di Carlo alle assicurazioni che Giovanni Bontate gli avrebbe riferito di avere ricevuto da Rosario Riccobono.

Ed invero, nei primi giorni del mese di Aprile del 1980, Bruno Contrada non aveva ancora portato a compimento l’incarico - conferitogli dal Questore Epifanio all’indomani dell’assassinio del dirigente la Squadra Mobile Boris Giuliano e riconfermato nel dicembre 1979 dal Questore Immordino, che ne aveva quotidianamente sollecitato l’adempimento - di redigere un rapporto di denunzia che fosse, almeno in parte,funzionale ad un’operazione di arresti di mafiosi nella flagranza del reato permanente di associazione per delinquere.

Lo stesso Questore Immordino, quindi, ne affidò l’adempimento ad un gruppo di lavoro appositamente creato ed operante in condizioni di assoluta segretezza in una stanza degli uffici della DIGOS.

Nell’ultima decade del mese di Aprile gli elaborati dal gruppo di lavoro vennero consegnati al Questore, che si era consultato con il Procuratore della Repubblica dott. Costa, il quale gli aveva assicurato il suo preventivo assenso a procedere alla fase esecutiva degli arresti in flagranza, e dunque alla loro convalida.

Quanto al contenuto degli elaborati, per il gruppo di mafia più numeroso e pericoloso, facente capo alle famiglie Spatola, Gambino, Inzerillo e Di Maggio, si era ritenuto di poter procedere ad un’operazione di arresti in flagranza.

Per un secondo rapporto, relativo a soggetti collegati alle famiglie Badalamenti, Bontate e Sollena, non si era ritenuta praticabile la soluzione dell’operazione di polizia con arresti in flagranza, essendo stato, in precedenza, inoltrato un rapporto per traffico di stupefacenti. Pertanto, si era adottata la decisione di presentare al Consigliere Istruttore presso il Tribunale di Palermo, dott. Rocco Chinnici, quale seguito, un ulteriore rapporto di denuncia per associazione per delinquere, recante la data del 30 aprile 1980, firmato dal capo della Squadra mobile dr. Impallomeni e riguardante, tra gli altri, Giovanni Bontate.

Per un terzo rapporto, contenente circa dodici nominativi di personaggi ritenuti di minor spessore delinquenziale, infine, erano stati individuati vincoli associativi al loro interno,ma non con il gruppo criminale principale.

Gli arresti in fragranza vennero eseguiti la notte tra il 5 ed il 6 maggio (Salvatore Inzerillo era risultato irreperibile), e vennero convalidati dal Procuratore Costa, mentre il primo rapporto di denuncia venne inoltrato il 6 maggio 1980.

L’undici maggio 1980 Giovanni Bontate venne colpito dalla seconda tornata di arresti, compiuta su mandato del G.I. Chinnici a conclusione dell’operazione di polizia ideata ed organizzata dalla Questura di Palermo in collaborazione con l’Arma di Carabinieri e la Guardia di Finanza.

Si è osservato che la bozza di rapporto presentata da Contrada al Questore il 24 aprile 1980 (Badalamenti Gaetano + 63), contemplava unitariamente il gruppo Spatola-Gambino-Inzerillo-Di Maggio e quello Badalamenti - Sollena, giacchè la scelta di separare i due gruppi di denunciati era maturata, ad insaputa dell’imputato, nell’ambito dell’equipe costituita dal Questore Immordino.

Si è, rilevato, per altro verso, come la preannunciata “leggerezza” del rapporto rispetto alla posizione di Giovanni Bontate abbia trovato riscontro nella impostazione della minuta a firma Contrada.

Ora, nella “Memoria in replica alla requisitoria del 30 marzo 2001 del Procuratore Generale”, depositata il 2 maggio 2001 nel primo dibattimento di appello, i difensori dell’imputato hanno tacciato il Di Carlo di mendacio, assumendo che la sua menzogna sarebbe documentata <<dall’accorpamento di vicende giudiziarie diverse, maturate in tempi diversi e culminate in provvedimenti restrittivi di uffici diversi>>.

In realtà, come già osservato da questa Corte trattando della vicenda del “blitz” del 5 maggio 1980, il Di Carlo non ha mentito, ma è stato indotto in errore da Giovanni Bontate.

Questi, infatti, non poteva essere a conoscenza della iniziativa del Questore Immordino e delle scelte del gruppo di lavoro da lui creato, come non lo era stato Contrada, e per tale ragione le aveva accomunate in un unico rapporto, così come aveva fatto l’imputato.

A questa stregua, sono pienamente condivisibili le conclusioni cui è pervenuto il Procuratore Generale nella memoria depositata il 14 novembre 2005 in questo dibattimento di rinvio (già richiamate trattando della vicenda relativa al blitz del 5 maggio 1980) secondo cui:


  • solo colui (cioè l’imputato) che aveva predisposto un unico rapporto per le posizioni dei Bontate e quelle degli Spatola- Inzerillo poteva far giungere a Giovanni Bontate, per il tramite di Rosario Riccobono, notizia della sua inclusione in quel rapporto;

  • solo colui (cioè l’imputato) che aveva predisposto quell’unico rapporto, anzi bozza di rapporto, in modo che non fosse funzionale ad arresti in flagranza, poteva fornire assicurazioni circa l’inconsistenza probatoria di esso;

  • era plausibile che la notizia dell’esistenza di un unico rapporto e la quasi contestualità tra gli arresti in flagranza del 5 maggio e quelli, in esecuzione di mandato di cattura, dell’11 maggio ingenerassero, nell’immediatezza dei fatti, l’erroneo convincimento – espresso dal Di Carlo – che il Procuratore Costa “ si era preso la responsabilità a firmare” anche per l’arresto di quegli individui, e tra costoro Giovanni Boutade, attinti, invece, dal mandato di cattura emesso dal Consigliere Istruttore Chinnici.

In altri termini, sebbene nel racconto del Di Carlo non venga indicata la fonte primigenia delle rassicurazioni date da Riccobono a Giovanni Bontate, convergono nell’individuare nell’imputato l’autore di quelle rassicurazioni:

  • le emergenze processuali circa il rapporto personale tra Contrada e Riccobono;

  • la paternità della bozza di rapporto, correlata alla possibilità di fornire assicurazioni su di esso;

  • la quasi contestualità tra gli arresti in flagranza del 5 maggio, la loro convalida ed i successivi arresti, in esecuzione di mandato di cattura, dell’undici maggio;

  • la fuga di notizie, divulgate dalla stampa (si rinvia, al riguardo, al capitolo riguardante il blitz del 5 maggio 1980), a proposito della eliminazione del nome di Sindona - compreso tra i denunciati nella minuta Contrada - nel rapporto del 6 maggio 1980, fuga di notizie che era obiettivamente valsa a scindere la posizione dell’estensore della minuta rispetto a quelle del Questore e dei componenti il gruppo di lavoro da lui insediato.

Se ne evince che, lungi dall’esserne infirmata, l’attendibilità del Di Carlo è uscita rafforzata dalla narrazione della vicenda dell’arresto di Giovanni Bontate.

In tale cornice, del resto, l’indicazione del gruppo di mafia di Salvatore Inzerillo - operata de relato dal collaborante - quale responsabile dell’omicidio del Procuratore della Repubblica Gaetano Costa si pone in sintonia con le conclusioni del rapporto del Dicembre 1980,a firma congiunta del dirigente della Criminalpol Contrada, del dirigente della Squadra Mobile, dott. Impallomeni e del Maggiore dei C.C. Santo Rizzo.

Lo stesso imputato, all’udienza del 26 maggio 1995 ha spontaneamente dichiarato <<…a dicembre del 1980 io personalmente redigo il rapporto per l'omicidio del Procuratore della Repubblica Costa a carico del gruppo Inzerillo ed apertamente, chiaramente, indiscutibilmente accuso dell'omicidio il gruppo di mafia che ha parte che fa capo a Salvatore Inzerillo, capo mafia, classe 1944, indicando quale possibile esecutore materiale il nipote di costui, omonimo, Salvatore Inzerillo classe 1956>>.

Né è sintomatico di mendacio il fatto che Di Carlo abbia indicato quale mandante dell’omicidio anche Stefano Bontate, dovendosi guardare al contesto del suo racconto: il collaborante, infatti, ha spiegato di avere sentito manifestare sia al Bontate che all’Inzerillo comuni propositi di vendetta quando, nell’immediatezza degli arresti, si era intrattenuto con loro nel fondo “Favarella” di Michele Greco, prima che i predetti prendessero parte ad una riunione della “Commissione Provinciale” ivi convocata (pagine 35-36 della trascrizione).

Il Di Carlo, del resto, nel corso del suo controesame ha chiarito di avere, sì, sentito dire - precisando di non ricordare la fonte - che la determinazione di fare uccidere il Procuratore Costa era stata assunta dal solo Salvatore Inzerillo senza che la “Commissione” lo avesse consentito, ma ritenere erronea tale ricostruzione:

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