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Lo svolgimento del processo


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Siino: certamente. allora il discorso è questo. L'accoppiata vincente era Riccobono e Scaglione.

Cioe' nel senso che erano molto vicini, per cui evidentemente questo mio "de visu", lo debbo, per onesta' di cose, lo debbo correggere con il fatto che io non ho visto mai con il dottor Contrada insieme a Scaglione. Sapevo di una avvicinanza del dottor Contrada a Scaglione e a Riccobono.

era mutuale, pero' effettivamente io..

PG dott. Gatto: era un ?

Siino:era un discorso che essendo vicino scaglione a Riccobono, diciamo che c'era una certa transitivita', e questo era un po' quello che si diceva in cosa nostra, e poi piu' che si diceva in cosa nostra, era quello che diceva Bontade, che si divertiva a stigmatizzare questo tipo di rapporto, dovendo fare apparire come confidente del dottor contrada, Riccobono.

questo era.. >>.

Avendo il Procuratore Generale perseverato nella contestazione (a seguito della quale è stato acquisito il verbale nella parte di interesse), il Siino ha abbozzato la risposta :<< praticamente ho visto in un uno di questi convivi…>>.

Il presidente ha immediatamente obiettato che la dichiarazione contestata faceva riferimento a molteplici occasioni (pagina 88 della trascrizione), ed il collaborante ha spostato l’accento logico della sua risposta non sulla contestuale presenza di Contrada e Scaglione, ma sulla partecipazione dello stesso Scaglione a molteplici convivi, dichiarando, poi, di avere visto l’imputato partecipare ad uno o due di tali banchetti:

<< Siino:parecchie volte, si'.

allora io confermo quanto appena, cioè quello che lei ha letto, come da me effettivamente dichiarato, e devo dire che a queste mangiate, partecipava anche il signor Scaglione.

per cui guardi onestamente, io in questo momento non ricordo di questo fatto, però se io allora l'ho detto, evidentemente è cosi'.

PG dott. Gatto: …ci vuol chiarire che cosa intendeva dire allora quando ha reso quella dichiarazione ? non le dispiaccia.

lo chiarisca.

Siino:

cioè che anticamente in occasione di queste mangiate a cui partecipava Scaglione, Inzerillo, altri, Pizzetta, altri personaggi, Pizzeta era Federico, e praticamente altri personaggi ..c'era anche Scaglione il pugile.

PG dott. Gatto:il pugile, e c'era anche il dottor Contrada allora ?

Siino:si', certo , io questo l'ho detto anche prima.

PG dott. Gatto: allora queste mangiate sono state parecchie, parecchie volte ?

Siino:no, io ho visto il dottor Contrada una o due volte in queste mangiate.

Pg dott. Gatto: una, o due volte>> (pagine 89 e 90 trascrizione udienza 4 dicembre 1999).

Un ulteriore vulnus alla intrinseca attendibilità di Angelo Siino deriva dalle risposte alle contestazioni mosse dal Procuratore Generale nel corso dell’esame assunto in questo giudizio di rinvio; esame disposto perché lo stesso Siino, nel processo a carico del funzionario di Polizia Ignazio D’Antone (condannato per concorso esterno in associazione mafiosa), aveva narrato circostanze di interesse in ordine ai rapporti tra Contrada, Bontate e Riccobono.

Egli, in particolare, aveva fatto riferimento al contesto dell’omicidio dell’agente di Polizia Gaetano Cappiello, avvenuto a seguito di un tentativo di estorsione nel territorio di influenza mafiosa dello stesso Riccobono.

Come si rileva dalla sentenza appellata (pagine 557- 558) <

La sera del 2/7/1975, venne predisposto un servizio di appostamento, nel tentativo di sorprendere gli ignoti malfattori che avevano concordato telefonicamente, con il predetto industriale un appuntamento per la consegna del denaro. Il Randazzo si presentò all’appuntamento a bordo della propria macchina, dentro la quale aveva preso posto, nascosto nella parte posteriore, l’agente di P.S. Gaetano Cappiello, mentre altro personale della Squadra Mobile, con varie forme di copertura, presidiava la zona.

Quando due individui, con il volto parzialmente coperto, si avvicinarono al Randazzo, l’agente Cappiello uscì dallo sportello posteriore dell’autovettura nel tentativo di sorpenderli, ma fu immediatamente raggiunto da alcuni colpi esplosigli contro da uno dei due malfattori, che lo ferirono mortalmente, mentre altri colpi ferirono gravemente il Randazzo>>.

Il Procuratore Generale ha contestato al collaborante le dichiarazioni rese, nel processo D’Antone, all’udienza del 22 gennaio 2000. Segnatamente il Siino aveva riferito che, a seguito dell’omicidio Cappiello e delle attenzioni investigative che ne erano derivate nei riguardi della sua cosca, Rosario Riccobono era intenzionato a fare sopprimere Angelo Randazzo. Tale eventualità, tuttavia, era stata scongiurata, a fronte del pagamento di una forte somma grazie, ai buoni uffici di Stefano Bontate, spinto sia da esponenti massoni, sia da Contrada, a perorare la sua salvezza:

<< A conseguenza di questo, il… Angelo Randazzo doveva essere ucciso però era massone. A un certo punto, quando capì il danno che aveva fatto, intervenne Stefano Bontade in persona nei confronti di Rosario Riccobono e fu salvato. Fu salvato, gli costò carissimo, addirittura lo mise quasi sul lastrico perché praticamente tutta questa operazione gli costò centinaia di milioni di allora che erano miliardi di oggi. Per cui, evidentemente, ebbe poi grosse conseguenze finanziarie da questo problema. Però naturalmente in tutto questo, so ce c'è stato l'apporto preciso anche del dottor Contrada”>>, apporto consistito nell’interessarsi con Stefano Bontate per <<mettere a posto la cosa>> (pagine 20,21 e 25 trascrizione udienza 30 gennaio 2004).

Nel presente procedimento, invece, il Siino ha attribuito l’interessamento del Bontate unicamente ad una iniziativa sua, di Michele Barresi e di Giacomo Vitale (quest’ultimo cognato del Bontate) massoni iscritti alla loggia Orion della Camea, al pari di lui stesso e di Angelo Randazzo.

Alla domanda del Procuratore Generale <<E nessun altro ebbe a sollecitarlo?>> ha risposto <<Io, che io ricordi in questo momento, no, non mi pare>> (ibidem, pag. 17).

Incalzato dal Procuratore Generale, ha dichiarato: << Che poi quale sia stato il… cioè, praticamente io non posso… non ricordo in questo momento quale possa essere stato invece l’apporto attivo, come sembra trasparire da quello che ho dichiarato io>>, (ibidem, pag. 26).

Alle successive sollecitazioni del Presidente, infine, ha sfumato in termini ipotetici il tema del presunto interessamento di Contrada:

<<PRESIDENTE : Sì, ma la domanda è chiara a questo punto: quale contributo ha dato, se contributo vi è stato, Contrada…

SIINO – Ah, questo non lo so.

PRESIDENTE - …a fare evitare l'omicidio Randazzo?

SIINO – Ma avrà parlato con Bontade, gli avrà detto…

PRESIDENTE – No, i processi non è che si fanno con le ipotesi. Dico, “se le consta” noi le chiediamo, se no le sa dice “non lo so”.

SIINO - Signor Presidente, che cosa abbia fatto precisamente non lo so>>(ibidem, pag. 26).

Le contestazioni in esame, riguardanti temi centrali nel narrato di Siino, pesano in punto di attendibilità intrinseca.

A questa stregua, ad avvalorare le ulteriori propalazioni del collaborante non basta il richiamo al principio di frazionabilità della chiamata in correità, secondo cui l'attendibilità delle dichiarazioni accusatorie di un collaborante <<anche se denegata per una parte del racconto, non coinvolge necessariamente tutte le altre che reggano alla verifica giudiziale del riscontro; così come, per altro verso, la credibilità di una parte dell'accusa non può significare l'automatica attribuzione di attendibilità dell'intera narrazione, giacchè, accertata l’attendibilità di talune circostanze non può automaticamente comunicarsi a quelle non riscontrate, non essendo ipotizzabili reciproche inferenze totalizzanti>> (in termini, Cass. pen. sez. I sentenza n. 4495 del 1997, sez. VI 17248 del 2004; sez. I sentenza 468/2000).

Occorre, piuttosto, sceverare i riscontri alle dichiarazioni del Siino, valorizzando unicamente quelli di estrema pregnanza, in ossequio al principio secondo cui la verifica intrinseca ed estrinseca della chiamata rappresentano due temi di indagine strettamente interdipendenti, nel senso che un giudizio fortemente positivo di attendibilità intrinseca può bilanciare la minore valenza dei riscontri esterni, che devono essere comunque sussistenti; per converso, un minor grado di intrinseca attendibilità delle accuse impone una verifica rigorosa circa la concorrenza di riscontri esterni di più accentuato spessore, restando, comunque, rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito la valutazione della consistenza e della pregnanza dei riscontri (cfr. Cass. pen. sez. I, sentenza n. 4547 del 1995).

*****

In tale cornice, a fronte delle ondivaghe dichiarazioni sulla contemporanea presenza di Contrada e Scaglione in una, in nessuna o in centomila occasioni, non può dirsi raggiunta la prova della comune partecipazione dell’imputato e di esponenti mafiosi a banchetti o “mangiate” pre-elettorali.



Né una considerazione diversa può essere riservata all’episodio dell’incontro tra Bruno Contrada e Rosario Riccobono nel fondo Scalea, del quale si fa cenno nella sentenza di appello annullata.

Segnatamente, il collaborante ha dichiarato che, intorno alla seconda metà degli anni settanta, mentre si trovava con Blasco Lanza di Scalea - figlio del principe Francesco Lanza di Scalea, proprietario del fondo - nei pressi di una torre piezometrica per la distribuzione dell’acqua nelle saie, aveva notato sul posto Bruno Contrada ed il medico Camillo Albeggiani.

In questo frangente, insieme ad uno dei due fratelli Micalizzi (non ricordava se Michele o Salvatore), era sopraggiunto Rosario Riccobono; il Micalizzi si era allontanato ed era iniziata una conversazione a tre tra lo stesso Riccobono, Albeggiani e Contrada (pagine 60-70 trascrizione udienza 4 dicembre 1999).

La teste Giovannella De Lorenzo, seconda moglie del principe Lanza di Scalea, escussa all’udienza del 17 marzo 2000, ha riferito di avere abitato a Roma, venendo solo saltuariamente a Palermo, dove si era stabilita soltanto dagli anni ottanta del novecento in poi (pagine 6 e 7 della trascrizione); ha soggiunto che il marito aveva rapporti assai scarsi con i suoi figli (ibidem, pag. 14); ha confermato l’esistenza, nel fondo Scalea, di una torre piezometrica per la distribuzione dell’acqua (ibidem, pagina 27). Ha, parimenti, confermato il rapporto di conoscenza tra il marito e l’odierno imputato, da lei conosciuto in occasione di una rapina nella villa, allorquando Contrada era venuto a prenderla a casa per la denuncia (ibidem, pagine 14, 27 e 37), ed il rapporto di amicizia tra lo stesso Principe ed il dottor Albeggiani, suo medico curante per decenni.

Quest’ultimo, a sua volta, parimenti escusso all’udienza del 17 marzo 2000, ha dichiarato di non avere mai conosciuto Angelo Siino, e di non avere mai incontrato, nel fondo Scalea, Rosario Riccobono o l’odierno imputato, né Michele o Salvatore Micalizzi.

Infine, il teste Blasco Lanza di Scalea, escusso all’udienza del 2 marzo 2000, ha riferito di avere conosciuto Angelo Siino in un periodo in cui aveva vissuto a bordo della propria barca, ormeggiata in porto. Il Siino, lo aveva invitato, in due occasioni, sulla propria imbarcazione, con le rispettive mogli (nella seconda occasione era anche presente tale Fauci, amico del collaborante).

Successivamente, egli aveva chiesto al collaborante di procurargli un escavatore per l’espianto di alcune palme nella sua villa, ma all’appuntamento fissato a questo scopo non si era presentato nessuno, e quindi si era rivolto ad altri (pagine 1-15 della trascrizione).

Il teste Lanza di Scalea ha escluso, quantomeno sino a quando aveva abitato stabilmente nella villa, cioè intorno al 1970, che vi fossero presenze mafiose nel fondo (ibidem, pag. 25).

Osserva questa Corte, in ordine alle dichiarazioni della De Lorenzo, che il carattere sporadico della presenza della teste a Palermo sino agli anni ottanta del novecento e la scarsa frequentazione del marito con il di lui figlio Blasco possono spiegare l’affermazione di non conoscere il Siino, il quale aveva collocato l’episodio della torre piezometrica nella seconda metà degli anni settanta. La stessa De Lorenzo, ha riferito che alla proprietà, allora estesa circa trenta ettari, si accedeva senza che vi fossero cancelli (pagina 37 della trascrizione) e quindi senza necessariamente passare dalla villa ed essere notati da chi vi abitava.

Quanto alle smentite del dottor Albeggiani, deve considerarsi che questi, nel corso del giudizio di primo grado, aveva addirittura negato di essere massone (cfr. pagina 20 trascrizione udienza 24/7/1995), venendo smentito, prima ancora che dal Siino, dal capitano Luigi Bruno della D.I.A., che ne aveva accertato l’iscrizione alla Loggia “Orion” della Camea, al pari di quella dello stesso Siino, di Giacomo Vitale, cognato del Bontate e di Francesco Foderà (cfr. la deposizione resa dal cap. Bruno all’udienza del 12/10/1995).

Il medesimo teste, inoltre, come puntualmente evidenziato dal Tribunale, non soltanto aveva falsamente negato di essere stato il medico di Rosario Riccobono, ma aveva, altrettanto falsamente, negato l’unica circostanza nella quale Bruno Contrada aveva ammesso di avere avuto da lui notizie dirette delle stesso Riccobono (pagine 548-544 della sentenza appellata).

Segnatamente, l’imputato aveva dichiarato di avere ricevuto tempestiva comunicazione dal dott. Albeggiani del fatto che, nella notte tra l’1 ed il 2 Dicembre del 1982, questi era stato chiamato dalla moglie e dalle figlie del Riccobono, che si erano fatte trovare vestite a lutto, avendo ricevuto la notizia certa della uccisione, seguita alla contestuale scomparsa, del loro congiunto e del genero Salvatore Lauricella. Tale circostanza è documentata in un appunto del 3 dicembre 1982, acquisito in atti, con cui Contrada riferiva la notizia della scomparsa per “lupara bianca” del Riccobono e dei suoi uomini piu’ fidati, sulla base di fondati indizi in suo possesso.

La negazione dell’Albeggiani - ritenuta dal Tribunale non spiegabile se non con l'intenzione del teste di nascondere la vera natura dei rapporti esistenti tra lui, l’imputato ed il Riccobono - indurrebbe a considerare non decisiva la sua smentita alle dichiarazioni del Siino circa l’incontro nel fondo Scalea.

L’episodio, tuttavia, è stato escluso, in sede di esame, da Blasco Lanza di Scalea - la cui testimonianza non presenta brecce tali da porne in dubbio la credibilità - non apparendo sufficiente evocare un ipotetico interesse del teste a nascondere un più duraturo, intenso e compromettente rapporto con il Siino, che, in concreto, non è emerso.

Ad avviso di questa Corte, comunque, gli elementi che potrebbero confermare l’attendibilità delle dichiarazioni del Siino circa l’episodio in parola - e cioè i rapporti di amicizia tra Contrada ed Albeggiani e tra Albeggiani ed il principe Lanza di Scalea, i rapporti di conoscenza tra quest’ultimo e Contrada e tra Blasco Lanza di Scalea e Siino, la comprovata esistenza della torre piezometrica nel fondo Scalea, l’inaffidabilità del teste Albeggiani sulle circostanze comunque tali da evocare il suo rapporto con Riccobono, la frequentazione (provata aliunde) tra Contrada e Riccobono - non assumono quella elevata pregnanza imposta dalla non piena attendibilità intrinseca del collaborante.

****


Di non agevole decifrazione è apparso, nel narrato del Siino, l’unico specifico episodio riguardante un favore fatto dall’imputato ad un mafioso, e cioè il suo presunto interessamento per il rinnovo (pagina 133 trascrizione udienza 4 dicembre 1999) del porto di fucile in favore di tale Lo Verde detto il monocolo.

Su sollecitazione del Procuratore Generale, il Siino ha ricordato, con il beneficio del dubbio, che il prenome del Lo Verde era Giovanni, ed ha riferito che, per quanto a sua conoscenza, questi era <


>> .

Ha specificato che il Lo Verde era <<un personaggio di Villagrazia, gran cacciatore>> (ibidem, pag. 125) e di averlo visto spesso perché frequentava il Tiro al volo. Ha ricordato che, a cagione del suo deficit visivo (l’essere guercio) e di qualche precedente penale, egli aveva avuto dei problemi per l’ottenimento del titolo di polizia.

L’incertezza nella identificazione del Lo Verde preclude, inevitabilmente, una compiuta valutazione della condotta attribuita all’odierno imputato dal collaborante.

E’ presumibile che si tratti del medesimo Giovanni Lo Verde che fu arrestato a seguito dell’operazione di Polizia del 19 ottobre 1981, nota come il “blitz di Villagrazia”, al pari di numerosi uomini d’onore della famiglia di Santa Maria di Gesu’, tra cui i reggenti Pietro Lo Iacono e Giovan Battista Pullarà (cfr. ff. 1316 e ss. tomo n° 9 della sentenza resa all’esito del primo Maxi processo, prodotta in atti).

Il Siino, tuttavia, ha collocato la vicenda in un periodo immediatamente precedente all’apertura primaverile della caccia alla quaglia, << che allora era un fatto di rilevanza nazionale e siciliana, perché praticamente morivano se non facevano questa apertura della caccia>>.

Ha precisato che, per questa ragione, era stato <<interessato il ministro dell’interno, e ci fu una riunione fatta alla presenza del ministro degli interni, allora Franco Restivo>> (pag. 120-121 trascrizione udienza 4 dicembre 1998) .

Orbene, è notorio che l’On. Restivo, famoso politico cittadino, ricoprì, per l’ultima volta, la carica di ministro nel 1972, e cioè in un periodo in cui Contrada era considerato un avversario dalle cosche mafiose e non poteva, dunque, consapevolmente dispensare favori a Stefano Bontate o suo tramite.

In effetti, non si evince in modo univoco e costante, dal narrato del Siino, l’affermazione che Stefano Bontate avrebbe interloquito con l’odierno imputato. Né è certo che, all’epoca in cui è stata collocata la vicenda, la caratura mafiosa di Giovanni Lo Verde (ammesso che il “monocolo” fosse proprio lui) fosse nota agli organi investigativi.

Resta il fatto, però, che le dichiarazioni dello stesso Siino, sul punto, difettano della necessaria chiarezza.

Il collaborante, infatti, ha riferito dapprima che Stefano Bontate si era adoperato per il rinnovo del porto di fucile al “monocolo”, raccomandandolo a Contrada (ibidem, pagine 126-127); quindi che, nel dare la notizia del buon esito del suo interessamento, lo stesso Bontate aveva << fatto riferimento al dott. Contrada>> (pagina 128) o aveva detto che << che era stato parlato con Contrada>> (pagina 129). Con l’ulteriore conseguenza che la sua attendibilità intrinseca non ne trae, comunque, giovamento.

*****

Sufficienti, invece, appaiono i riscontri dell’episodio, narrato dal collaborante, della visita di Bruno Contrada a Stefano Bontate nel periodo delle indagini relative al sequestro di persona dell’esattore Luigi Corleo, risalente al luglio 1975.



Nel caso di specie, è fuor di dubbio che il collaborante non avrebbe mai avuto titolo per accompagnare il colonnello Giuseppe Russo da Stefano Bontate - per di più ad un incontro riservato - se non avesse avuto un rapporto di conoscenza personale con l’uno e con l’altro.

Ora, assodata la frequentazione con il Bontate, significativi elementi di giudizio militano anche nel senso il Siino avesse intrattenuto rapporti diretti anche con il colonnello Russo.

Segnatamente, il collaborante ha riferito di essere stato invitato alla prima comunione della figlia dell’Ufficiale, di nome Benedetta. In tale circostanza nella quale aveva visto Bruno Contrada, da lui conosciuto nel 1971, in occasione della morte di un suo amico, tale Maurizio Messineo, ucciso in sua presenza da un colpo partito accidentalmente da una pistola che stava maneggiando (pagine 30 e 31. 31 trascrizione udienza 4 dicembre 1999).

Ha dichiarato, inoltre, di avere accompagnato lo stesso colonnello Russo - presente anche un collaboratore di questi, che il Siino ha ritenuto di ricordare chiamarsi Provenzano - presso un centro di demolizione di automobili sito di fronte << a villa Diana>> 89, vicino al quartiere “Zen” di Palermo, nell’ambito delle indagini da questi condotte sul sequestro di persona della signora Graziella Mandalà in Quartuccio.

Lì, secondo un’informazione che l’Ufficiale avrebbe avuto tramite il capo mafia Gaetano Badalamenti, avevano trovato la donna sequestrata.

Lo sfasciacarrozze, ha riferito il Siino, qualche giorno dopo era stato trovato “morto incaprettato” (ibidem, pagine 27-29).

Orbene, escusso all’udienza del 24 marzo 2000, il maresciallo Giovanni Provenzano, collaboratore del colonnello Russo dal 1971 al 1977, ha confermato che questi aveva una figlia di nome Benedetta, alla cui prima comunione non era stato invitato (pagine 6, 23 e 24 della trascrizione).

Ha dichiarato di non conoscere Angelo Siino e che non gli risultava che fosse amico del colonnello Russo (<< rapporti di amicizia non credo>>), pur non escludendo che i due si conoscessero (<< di conoscenza forse, si, perché dal nostro ufficio passava un centinaio di persone di tutti i tipi>>, ibidem pagine 8 e 9).

Ha affermato che il colonnello Russo aveva avuto rapporti “ottimi” e di intensa collaborazione con Bruno Contrada (pagine 14- 15) ed ha escluso che conoscesse Stefano Bontate ( <<Né il colonnello Russo ha mai visto questo Bontate, né ho mai sentito parlare Russo di questo Bontate>> , ibidem pag. 12).

La palese inverosimiglianza di quest’ultima proposizione si correla alla reticenza mostrata dal teste in ordine alla vicenda del sequestro Mandalà.

Il maresciallo Provenzano, infatti, dopo avere riferito di avere preso parte alle indagini unitamente al colonnello Russo, alla domanda del Procuratore Generale : << Si ricorda chi liberò la Graziella Mandalà?>> ha risposto << Non lo dico>>.

Il successivo sviluppo dell’esame ha rivelato l’atteggiamento elusivo dello stesso maresciallo Provenzano:



<< PRESIDENTE : Cioè a dire chi materialmente si recò sul posto dove era sequestrata la Mandalà e la rimise libertà>>.

MARESCIALLO PROVENZANO: sì, noi abbiamo fatto indagini…

PRESIDENTE: questo è un conto. Materialmente chi la fece questa operazione?

MARESCIALLO PROVENZANO: Chi la fece? Un poco di noi del nucleo. Eravamo in chi faceva una cosa, chi faceva l'altro.

PRESIDENTE: Organi di polizia.

MARESCIALLO PROVENZANO: Ma non è che particolarmente posso dire..

PRESIDENTE: ci fu una operazione di polizia che portò alla liberazione della Graziella Mandalà:

MARESCIALLO PROVENZANO: si.

PRESIDENTE: Si ricorda se fu verbalizzata questa operazione di polizia? Se ci fu un verbale?

MARESCIALLO PROVENZANO: non lo ricordo>> (…)

PRESIDENTE : veramente maresciallo mi scusi, anche nell'ambito di un'attività come la sua di polizia giudiziaria protrattasi per un tempo così lungo, queste cose non è che si dimenticano.

Non capitano della vita di un poliziotto o forse poco purtroppo, quindi i dettagli lei si dovrebbe ricordare se li sa.

Se non li sa è un altro discorso.

Lei si ricorda se fu il colonnello Russo materialmente a intervenire nella operazione di polizia che portò alla liberazione, proprio quel giorno stesso in cui fu liberata.

MARESCIALLO PROVENZANO: questa operazione non la posso ricordare.

Può darsi pure che io sia andato sul posto, io non lo ricordo se oggi sono andato personalmente non ho.

Ma non so che è andato lì, noi tutti facevano delle indagini.

PRESIDENTE: Va bene non solo ricorda> (pagine 28-31 della trascrizione).

Parimenti riscontrato, ad onta di quanto sostenuto dal teste Provenzano, che vi fosse uno scambio di informazioni - che il Siino ha indicato come esempio di una pratica non disdegnata dagli investigatori degli anni settanta del novecento - tra il colonnello Russo e Stefano Bontate.

Premesso, infatti che lo stesso Provenzano ha definito ottimi i rapporti personali e professionali dell’imputato con lo stesso colonnello Russo, all’udienza del 13 dicembre 1999, dopo il controesame di Siino, Bruno Contrada ha ribadito di non avere mai avuto alcun rapporto, nemmeno da confidente a Poliziotto, con Rosario Riccobono.

Ha rimarcato la sua contrarietà a rapporti siffatti con esponenti mafiosi di rilievo, motivandola con i pericoli e l’evidente rischio di strumentalizzazioni ad essi correlati, ed ha manifestato il proprio dissenso dalla diversa scelta fatta, tra gli altri, dal colonnello Russo:



<< ….signor Presidente, io ho avuto nei miei trentotto anni di carriera, centinaia di confidenti di polizia, e nella polizia di stato e nel SISDE, perché' io ho lavorato dieci anni nel SISDE con i confidenti, che noi pagavamo, e pagavamo bene, realizzando operazioni notevolissime specialmente negli ultimi della mia attivita' di servizio.

ma io sono stato sempre della massima attenzione in questi rapporti.

io mi incontravo alle tre di notte con i confidenti davanti agli ingressi dei cimiteri, dove non andavano neppure le coppiette di fidanzati a fermarsi.(…)

io, dal primo momento in cui iniziato a occuparmi di mafia e di reati di mafia, mi sono previsto di non avere mai nessun rapporto confidenziale con gli esponenti di rilevo della mafia, con i capi della mafia.

altrimenti90 colleghi lo hanno fatto, cominciando dal colonnello russo.

lui aveva una strategia investigativa diversa dalla mia.

io ero perfettamente convinto che e qualora avessi avuto un rapporto con un capo di mafia, sarebbe rimasto imbrigliato in maniera irrimediabile.

i miei confidenti erano quelli che avevano un piede dentro e un piede fuori>>(pagine 110-112 trascrizione udienza 13 dicembre 1999).

Alla stregua delle considerazioni sin qui svolte, la dichiarazione del Siino di avere casualmente visto Bruno Contrada, all’interno di un automobile civetta, in via Villagrazia, all’uscita della strada di accesso all’abitazione di Stefano Bontate, deve ritenersi riscontrata.

L’episodio in sé, pur non avendo una specifica valenza dimostrativa della agevolazione del sodalizio mafioso, rafforza tuttavia, la prova dell’esistenza di contatti diretti tra Contrada e Bontate nella seconda metà del 1975, in sintonia con quanto riferito dai collaboranti Mutolo, Marino Mannoia e Cancemi; contatti propedeutici a quelli con Riccobono ed ai favori dispensati a lui, e, in prosieguo di tempo, ad altri esponenti del sodalizio stesso.

L’altro segmento del racconto del Siino che risulta presidiato da riscontri talmente pregnanti da supplire alla inappagante verifica della sua complessiva attendibilità intrinseca, riguarda la diffidenza manifestata dallo stesso Stefano Bontate nei riguardi dell’imputato e del suo rapporto con Rosario Riccobono.

Di tale atteggiamento, infatti, hanno dato contezza, corroborando le affermazioni del Siino, indirettamente Tommaso Buscetta e Salvatore Cancemi , e, direttamente, Francesco Marino Mannoia91.

Analogamente, il collaborante Giovanni Brusca, escusso nel primo dibattimento di appello, ha specificato che Salvatore Riina riteneva il Riccobono confidente del funzionario, così come era convinto che Stefano Bontate, Giuseppe Di Cristina ed anche Gaetano Badalamenti fossero stati confidenti del colonnello Giuseppe Russo.

In particolare, il Marino Mannoia aveva riferito che, dopo avere contribuito alla soppressione del mafioso Stefano Giaconia - decisa anche perché questi aveva mosso al Riccobono l’accusa di averlo tradito con una delazione fatta a Contrada - Stefano Bontate aveva iniziato a manifestargli i suoi dubbi sulla lealtà mafiosa dello stesso Riccobono.

Morto quest’ultimo, analoghi dubbi, ed anzi veri e propri sospetti, erano stati esternati al Marino Mannoia dal codetenuto Pietro Lo Iacono, orientato a credere che il “blitz di Villagrazia” del 19 ottobre 1981, in occasione del quale egli era stato arrestato, fosse scaturito da una delazione del capo mandamento di Partanna Mondello.

Da tali risultanze, come già osservato, è emersa la problematicità con cui, nell’ambito dell’organizzazione mafiosa, veniva visto il personale rapporto - dato per ciò stesso come acclarato - tra Bruno Contrada e Rosario Riccobono.

In conclusione, nei limiti in cui è risultata precisa ed adeguatamente riscontrata, la deposizione di Angelo Siino ha contribuito a colorare di attendibilità l’ipotesi accusatoria che, alla base della condotta di concorso esterno ascritto all’imputato, pone l’instaurazione di rapporti diretti con Stefano Bontate e Rosario Riccobono.

CAPITOLO XXIII
Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Giovanni Brusca
Giovanni Brusca, uomo d’onore della “famiglia” di san Giuseppe Jato, con i ruoli di “soldato” e, successivamente di reggente e di capo dell’omonimo mandamento, premettendo di avere riportato svariate condanne definitive per partecipazione ad associazione mafiosa ed omicidi, ha sommariamente descritto le ragioni della sua collaborazione, individuate in “problemi personali”, in una condizione di “nausea” ed in un conseguente un percorso di riflessione iniziato con il suo arresto, eseguito il 20 maggio 1996; collaborazione formalmente intrapresa con le dichiarazioni rese all’Autorità Giudiziaria il 9 agosto 1996 (pagine 1-4 trascrizione udienza 16 dicembre 1998).

Il suo profilo ed il contenuto delle sue dichiarazioni, rese all’udienza del 16 dicembre 1998, sono stati così delineati nella sentenza della Corte di Appello di Palermo, sezione II penale, in data del 4 maggio 2001, annullata in sede di legittimità (pagine 94-95):



<Il collaborante ha soggiunto che tale collaborazione rappresentava la ragione del contrasto fra i personaggi sopra menzionati ed il Riina; costui l’aveva tollerata per un certo tempo, sperando di sfruttarla anche lui per ottenere informazioni idonee per rintracciare i c.d. “scappati” (cioè gli ex appartenenti alla organizzazione divenuti oggetto di ostracismo, n.d.r.); ha chiarito che gli uomini d’onore che mantenevano tale tipo di rapporto con gli uomini delle istituzioni se ne avvantaggiavano per sottrarsi al confino, ottenere la patente di guida o la licenza di caccia.

Il Brusca ha escluso di essere stato informato di accadimenti specifici che giustificassero l’opinione del Riina.

La genericità dell’assunto di Giovanni Brusca rende evidente la impossibilità di considerarlo idoneo a sostenere l’accusa di collusione mafiosa nei confronti del giudicabile; inoltre, il relativo costrutto si fonda esclusivamente su confidenze di Salvatore Riina, sicuramente inquinate dall’astio che notoriamente costui manteneva nei confronti di Rosario Riccobono e di tutti gli appartenenti al gruppo associativo opposto al suo.

In una parte del suo racconto il Brusca ha tuttavia riferito di un episodio del quale egli stesso fu protagonista, narrando del suo intervento nel trasferimento di Salvatore Riina e dei suoi familiari dalla residenza di Borgo Molara (Palermo) in una casa di campagna ubicata in contrada Dammusi di San Giuseppe Jato; la iniziativa sarebbe stata attuata nel 1981 per sottrarre il capo-famiglia a paventate aggressioni da parte degli “scappati”. Il collaborante ha affermato di ignorare se l’anzidetta fuga del Riina avesse avuto un seguito o un antecedente, ma è da credere che tale eventualità possa escludersi in quanto, stante l’asserita ordinaria frequentazione del Brusca con il Riina, l’accadimento non avrebbe potuto sfuggirgli.

Conseguentemente, il fatto asserito dal Brusca accresce le perplessità sulla autenticità dei riferimenti di Giuseppe Marchese in ordine al presunto trasferimento del Riina dal Borgo Molara, avvenuto a seguito di soffiata dell’imputato trasmessa dallo stesso Marchese>>.

Osserva questa Corte che la parte più significativa delle propalazioni di Giovanni Brusca, concerne il definitivo allontanamento di Totò Riina dalla villa di Borgo Molara.

Essa è stata vagliata nell’ambito del giudizio sulla attendibilità intrinseca ed estrinseca e sul contributo del collaboratore di giustizia Giuseppe Marchese.

Rinviando, dunque, alla trattazione dell’episodio, verificatosi agli inizi del 1981, mette conto unicamente ricordare che, sull’implicito presupposto della loro attendibilità - quella generale del Brusca ha trovato un pur sintetico riconoscimento nella sentenza resa dal Tribunale di Palermo il 9 luglio 1997 nei confronti di Mandalari Giuseppe, irrevocabile il 7 aprile 1999 e prodotta all’udienza del 24 marzo 2000 - la Difesa ha ritenuto di individuare nelle dichiarazioni del Brusca una smentita alle accuse del Marchese.

Quest’ultimo, in particolare, nel corso del suo esame, aveva collocato il fatto all’<<inizio '81>> (trascrizione udienza, pagg. 29 e 54 trascrizione udienza 22 aprile 1994), con assoluta costanza di riferimenti temporali rispetto alle indicazioni date nel corso dell’interrogatorio reso al Pubblico Ministero il 4 novembre 1992.

Si era, cioè, riferito ad un allontanamento provvisorio, intervenuto agli inizi del 1981 a seguito della segnalazione fatta dall’odierno imputato a Michele Greco, trasmessa a Filippo Marchese e girata, suo tramite, al Riina.

Nell’ambito, tuttavia, di un precedente interrogatorio, reso il 2 ottobre 1992, il Marchese aveva narrato dell’allontanamento definitivo di Totò Riina poco prima degli inizi della cd. seconda guerra di mafia, e cioè nell’imminenza dell’uccisione di Stefano Bontate (soppresso il 23 aprile 1981); allontanamento motivato dal timore del capomafia di essere rintracciato dai suoi oppositori.

Orbene, sul presupposto che gli <<inizi del 1981, cioè primi mesi del 1981>> coincidessero <<col “poco prima dell’inizio della guerra di mafia>> (pag. 135 vol. II dell’Atto di impugnazione), la Difesa aveva sostenuto che il Marchese avrebbe cambiato la versione dei fatti dal 2 ottobre 1992 al successivo 4 novembre, essendo stato indotto a farlo perché, nel corso dell’interrogatorio del 23 ottobre 1992, il pentito Gaspare Mutolo aveva enunciato accuse a carico di Contrada, che occorreva che qualcuno precisasse e presidiasse.

La deposizione del Brusca avrebbe, dunque, avvalorato la tesi difensiva che uno, ed uno soltanto, era stato l’allontanamento del Riina da Borgo Molara, determinato da ragioni del tutto estranee a qualsiasi intervento dell’imputato.

Si è già osservato, a confutazione del costrutto difensivo ed in dissenso dalle conclusioni cui è pervenuta la Corte di Appello di Palermo nella sentenza del 4 maggio 2001:


  • che Giovanni Brusca ha riferito di essere andato a prendere personalmente a casa il Riina per accompagnarlo a San Giuseppe Jato, ed ha collocato questo episodio a ridosso della esplosione della seconda guerra di mafia: <<Quando sta per scoppiare la guerra di mafia con l’uccisione di Stefano Bontade e lui smette di abitare in contrada Molara...>>.
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