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Lo svolgimento del processo


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<i: La domanda e’ se lei ha sentito dire qualcuno che mise in giro, la voce, la notizia, e da quali fonti proveniva che a volere uccidere il dott. Costa era stato Inzerillo, e che Stefano Bontade era contrario, e che erano contrari gli altri.

Di Carlo: Io l’ho sentito dire, non mi ricordo la fonte non lo so, ho sentito dire questa cosa, infatti quando l’ho letto, non so dove l’ho letto, ho detto “sbagliano”, però era una cosa che pensavo io.

Avv. Sbacchi: Ma lei ha detto poc’anzi che in Cosa Nostra fu deciso l’omicidio, cioè l’omicidio del dott. Costa fu deciso in Cosa Nostra nella commissione, nell’ambito della commissione.

Mi concilia queste due cose ?

Di Carlo: Certo perché un omicidio del genere non lo può fare Cosa Nostra per conto proprio>> (pag. 81 della trascrizione)

*****


Per quanto, più direttamente, concerne il contributo del Di Carlo rispetto alla contestazione di concorso esterno in associazione mafiosa, vengono in considerazione i due episodi riguardanti gli incontri tra Contrada e Riccobono cui il collaborante ha affermato di avere assistito.

Il Di Carlo ha dichiarato di essersi recato in un bar frequentato da Rosario Riccobono, proprio alle spalle di Via Don Orione, sito in una strada di cui inizialmente ha riferito di non ricordare la denominazione e nella quale, però, ha riferito che avevano costruito i fratelli Graziano.

Successivamente ha ricordato che quella strada era denominata <<via Jung… una cosa così>> (pagine 22-23) ed ha precisato che, nel frangente in esame, aveva intravisto l’imputato mentre si allontanava con lo stesso Riccobono (pag. 59).

Osserva questa Corte che, ancora una volta, le coordinate delle indicazioni del Di Carlo hanno ricevuto significative conferme.

Il teste Luigi Bruno, infatti, all’udienza dell’undici marzo 1999 ha riferito di avere accertato che, che nella zona tra via Ammiraglio Rizzo, via Jung e via Don Orione, i fratelli Graziano avevano realizzato numerosi immobili, anche attraverso società comunque riconducibili ai loro nuclei familiari.

Ha precisato, inoltre, di avere accertato che i due palazzi al civico 1, e al civico 7 di via Jung (rispettivamente, un fabbricato composto di sei piani fuori terra e un piano rientrato, ed uno di dodici piani elevati e un piano attico) erano stati costruiti dalla impresa di Graziano Domenico (pagine 21 e 24 della trascrizione).

E’ processuale, infine, che, negli anni indicati dal collaborante, tra i civici 1 e 7 era ubicato il bar “Bignè”.

Deve osservarsi, tuttavia, che sul contesto e le modalità di questo specifico episodio è mancato, sia in sede di esame che di controesame, un approfondimento idoneo a supplire alla indicazione del collaborante di avere non visto, ma intravisto, Contrada e Riccobono; derivandone, quindi, l’impossibilità di trarne sicuri elementi di giudizio e verificare i relativi riscontri (ad esempio, al Di Carlo non è stato chiesto a che distanza i due si trovassero dal suo punto di osservazione, da che punto di osservazione egli li avesse scorti, se li avesse visti di profilo o di spalle, cosa gli avesse fatto ritenere che si trattasse di loro).

Assai più circostanziata, pur nella sua stringatezza, è stata, invece, la narrazione dell’episodio dell’incontro con - e tra - Contrada e Riccobono nella villa in prossimità di Partanna Mondello, <<scendendo da Fondo Patti>>, narrazione di cui si è già rilevata la intrinseca coerenza.

Ora, premesso che <<Un fatto può essere qualificato come notorio qualora, seppure non faccia parte delle cognizioni dell'intera collettività, rientri - come i particolari geografici o topografici di una città - nelle circostanze conosciute e comunemente note nel luogo in cui abitano il giudice e le parti in causa>> (Cassazione civile, sez. III, 21 dicembre 2001, n. 16165), deve ritenersi riscontrata la localizzazione dell’incontro, riferita dal collaborante.

Ed invero, il Fondo Patti è un area situata tra la Via Castelforte, la Via Lanza di Scalea - grande arteria, quest’ultima, che attraversa quello che era l’omonimo fondo - e Partanna Mondello.

Il collaborante Cucuzza, come si è visto, ha indicato tra le molteplici residenze utilizzate di volta in volta dal Riccobono una villa nella zona del Fondo Scalea, mentre il pentito Francesco Onorato ha fatto, addirittura, riferimento alla disponibilità di ben tre ville in quella zona, di cui una in costruzione ed una con piscina (pag. 19 trascrizione udienza 19 gennaio 1999).

All’udienza del 19 settembre 1995, inoltre, il teste Luigi Bruno ha riferito di avere individuato, nell’ambito degli accertamenti di polizia giudiziaria a lui demandati, una delle residenze del Riccobono in una villa, intestata al genero Salvatore Lauricella, sita ai civici 1 e 3 della via Panzini, traversa di Via dell’Olimpo, strada che collega la borgata di Mondello con via Lanza di Scalea ed attraversa il fondo Patti.

Deve, poi, considerarsi che la zona indicata dal Di Carlo ricadeva in quello che era il territorio del mandamento mafioso già capeggiato dal Riccobono, da lui frequentato anche da latitante (pag. 932 della sentenza), nel quale egli aveva agio di predisporre tutte le necessarie coperture (lo stesso Di Carlo ha riferito di avere visto, nella villa, molti elementi, che conosceva, della sua “famiglia”) e farsi segnalare eventuali presenze indesiderate.

Sebbene, poi, sul punto il teste Bruno non abbia ricevuto una specifica delega di indagine (pag. 31 trascrizione udienza 18 marzo 1999), non ci si può esimere - a riprova della intensità del controllo esercitato sul proprio territorio dal Riccobono - dal rilevare che l’indicazione, operata dal Di Carlo, del maresciallo dei Carabinieri di Partanna Mondello come uno dei tutori della latitanza del Riccobono ha trovato riscontro nelle concordi dichiarazioni dei pentiti Cucuzza, Onorato e Ferrante.

Infine, a fare ritenere provato l’episodio dell’incontro nella villa indicata dal Di Carlo convergono, oltre ai riscontri rassegnati su questa specifica indicazione accusatoria, tutti i contributi riguardanti l’esistenza di una frequentazione diretta con il Riccobono, che Contrada ha sempre negato anche nella forma di una relazione tra confidente e poliziotto; rapporto che, come si è già avuto modo di rilevare, egli non avrebbe avuto ragione di nascondere ove si fosse davvero atteggiato in termini confidenziali piuttosto che collusivi.

Deve, dunque, concludersi che il contributo del Di Carlo, la cui attendibilità intrinseca è assai elevata, è stato di assoluto rilievo.

CAPITOLO XXV


Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Giovan Battista Ferrante.

Di Giovan Battista Ferrante, escusso all’udienza del 18 febbraio 1999, non si fa menzione nella sentenza assolutoria della Corte di Appello di Palermo del 4 maggio 2001, verosimilmente per lo scarsissimo contributo che egli ha offerto.

Le sue dichiarazioni possono, comunque, essere sinteticamente riassunte nei termini che seguono.

Il Ferrante, determinatosi a collaborare con la Giustizia il 15 luglio 1996, ha riferito di essere stato uomo d’onore della famiglia di San Lorenzo, formalmente affiliato nel 1980 quando il capofamiglia era Salvatore Buffa inteso “Nerone”, il sottocapo Pippo Gambino ed il capo del mandamento di competenza, cioè Partanna Mondello, era Rosario Riccobono.

Ha dichiarato di avere sentito parlare di Bruno Contrada in diverse occasioni.

Nella prima di esse, risalente al medesimo torno di tempo della sua formale affiliazione, avvenuta nel dicembre 1980, il suo sottocapo Pippo Gambino aveva comunicato che non c’erano soldi in cassa, giacchè Rosario Riccobono aveva preteso dalle quattro famiglie del suo mandamento un contributo di tre o quattro milioni di lire, destinato all’acquisto di una autovettura da regalare a Contrada.

Sempre nei primi anni 1980, conversando con Pippo Gambino sulla massoneria, gli aveva sentito dire che i mafiosi non potevano essere massoni, <<perché praticamente nella massoneria c'erano pure degli sbirri. Una delle persone che mi disse appunto era il Contrada>> (pag. 6 della trascrizione).

Richiesto dal Procuratore Generale di precisare da cosa fosse scaturita quella conversazione, ha risposto <<Ma guardi sicuramente per approfondire alcune mie conoscenze su quell'argomento, io chiaramente adesso non ricordo per quale motivo, quale è stato lo spunto che mi ha fatto fare quella domanda>> (ibidem, pag. 13).

Alla successiva domanda se gli constasse un rapporto di conoscenza tra Contrada e Riccobono, ha risposto <<Io so che chiaramente che si conoscevano anche perché spesso, succedeva che proprio dal Riccobono venivano alcune notizie che riguardavano delle operazioni che si dovevano fare, ad esempio veniva qualcuno a casa mia e mi diceva “vai da tuo zio, avverti “tizio” o “”Caio”, perché forse stanotte fanno qualche operazione”, e questo chiaramente nell’ambito delle persone che conoscevamo noi, quindi della nostra stessa famiglia, praticamente il discorso dice che veniva dal Contrada>> (pag.14).

Richiesto, quindi, dal Presidente di indicare almeno una di queste operazioni di polizia, ha risposto di non essere in grado di farlo non essendo mai stato arrestato (<<No, perché me ne dovrei ricordare, io non sono mai stato arrestato,quindi io non ho motivo di ricordare una data in particolare. Posso dirle questo, spesso quelle notizie che arrivavano, praticamente all’indomani non succedeva niente>> (pagine 14-15).

Invitato, ancora, a precisare come fosse al corrente del coinvolgimento di Contrada, ha dichiarato: <<Guardi io posso spiegare in parole semplici e che all'interno di Cosa Nostra e soprattutto io parlo per la conoscenza della nostra famiglia, si sapeva perfettamente che il rapporto che c'era, cioè la conoscenza fra il Contrada e il Riccobono, e quindi quando veniva da me o da mio zio Pino Buffa e mi diceva che molto probabilmente si sarebbe fatta nella notte una operazione perché probabilmente lo aveva mandato a dire Rosario Riccobono, è chiaro che i fatti che si collegavano erano quelli lì, Rosario Riccobono da chi lo aveva saputo, da chi può aver appreso queste notizie ?>> (pagina 16)98.

Ha soggiunto di avere saputo dal Buffa, da Mariano Troia e dal Gambino che la fonte delle informazioni di Riccobono era Contrada (pagine 18-19), e che lo stesso Riccobono si avvaleva, come informatore, anche del maresciallo dei Carabinieri di Partanna Mondello (pagine 10 e 38)99.

Nel prosieguo del suo esame, alla domanda se conoscesse i nomi di altri appartenenti alla massoneria, il Ferrante ha opposto una sua pretesa facoltà di non rispondere; quindi, ripreso dal Presidente (<<No, la facoltà bisogna dirla subito, amico mio>>), ha dichiarato <<Allora su questa domanda, preferisco non rispondere>> (pagine 24- 25).

Per quanto qui rileva, in sede di controesame egli ha ribadito di essere stato animato da semplice curiosità nell’interpellare Pippo Gambino sulla Massoneria (pag.30).

Richiesto di precisare se, come e quando avesse saputo della vicenda giudiziaria di Bruno Contrada, dapprima si è espresso in modo smaccatamente elusivo (<< Veramente io non me ne sono mai interessato del dott. Contrada>>, << Ma guardi io veramente non ho mai fatto caso a questa vicenda>>,<< Si, si, ma se mi chiede quando e è stato arrestato, io onestamente non era una cosa che ..>>) ; quindi, ha ammesso genericamente di averne avuto notizia << Io le ripeto a dire che non mi interessava quando l’ho saputa. L’ho saputa, ne ho sentito parlare sicuramente, e basta>>; infine, ha fatto riferimento alla stampa ed alla televisione, pur ribadendo di avere appreso nell’ambito della sua famiglia mafiosa quanto a sua conoscenza sui rapporti tra Contrada e Riccobono (pagine 32 e 33).

*****


In giurisprudenza è stato ampiamente chiarito che la circostanza che un collaboratore di giustizia renda dichiarazioni di segno conforme a quelle precedentemente rese da altri collaboratori non è, di per sé, sintomatica di inattendibilità essendo ben possibile la comune conoscenza dei medesimi fatti a fronte di una diversa tempistica delle risoluzioni a collaborare.

Ciò non esime, tuttavia, il giudice di merito da un vaglio rigoroso della attendibilità intrinseca ed estrinseca delle dichiarazioni successive, al fine di coglierne gli spunti di originalità laddove sussistano, e di escludere il sospetto di influenze o di pedissequi adeguamenti (cfr. ex plurimis, Cassazione penale , sez. I, 02 dicembre 1998 , n. 1495; Cassazione penale , sez. I, 31 marzo 1998 , n. 4807)

Orbene, le propalazioni del Ferrante sono apparse, in molte parti, generiche e fumose, sì da non superare in alcun modo il necessario vaglio di attendibilità intrinseca.

Pasticciate, farraginose, ed approssimative sono apparse le risposte del collaborante sul tema della massoneria.

La poco convincente spiegazione di avere parlato di questo argomento per mera curiosità (non è dato comprendere se a sfondo esoterico o sociologico), non vale, infatti, ad allontanare del tutto il sospetto che egli abbia voluto attingere, per accreditare il suo ruolo, ad un tema già trattato nel processo e, prima facie, suggestivo.

Troppo generiche, inoltre, sono risultate le notizie riguardanti il preavviso di imminenti operazioni di Polizia suscettibili di colpire esponenti del sodalizio “Cosa Nostra”.

In ordine all’unico episodio narrato con un minimo di specificità - quello della esazione, da parte di Rosario Riccobono, del denaro necessario all’acquisto di una autovettura da regalare a Contrada - il racconto del Ferrante presenta delle assonanze con quello del pentito Gaspare Mutolo, il quale aveva narrato che, nel fare i conteggi relativi alle ricche casse della “famiglia” nel periodo di Natale del 1981, Rosario Riccobono aveva accantonato quindici milioni di lire, anticipati per l’acquisto di una Alfa Romeo ad una donna di Contrada.

Tuttavia, come già osservato nell’ambito del capitolo dedicato alle censure riguardanti le accuse del Mutolo - cui si rinvia - l’episodio è stato narrato in modo talmente eterogeneo dai due collaboranti da non consentire di ritenere le loro dichiarazioni vicendevolmente riscontrate, pur rinvenendosi qualche elemento di conferma rispetto alla indicazione dell’acquisto di una autovettura Alfa Romeo, operata dallo stesso Mutolo.

Peraltro, nessuna attività integrativa di indagine risulta effettuata per la ricerca di eventuali riscontri alle dichiarazioni del Ferrante100.

Esse, in definitiva, come già rilevato nell’ambito dei richiami operati nel capitolo riguardante le propalazioni del Mutolo, appaiono positivamente apprezzabili unicamente come indicatore dell’assenza di qualsiasi ipotesi di complotto, la cui preordinazione avrebbe imposto una lettura lucida ed orientata degli atti del giudizio di primo grado ed una regia dei pentiti escussi nel primo dibattimento di appello.


CAPITOLO XXVI


Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza.
Nella sentenza assolutoria della Corte di Appello di Palermo del 4 maggio 2001 il profilo del collaboratore di giustizia Salvatore Cucuzza, il contenuto delle sue dichiarazioni e la valutazione della loro attendibilità sono stati così illustrati:

<< “Uomo d’onore” della famiglia di Borgo Vecchio già appartenente al mandamento di Partanna-Mondello, ne ha conosciuto il capo, Rosario Riccobono, ed ha riferito che lo stesso era accusato di avere rapporti con alcuni funzionari dello Stato; in particolare col dott. Contrada, specificando che era questi ad averlo in mano. Il Riccobono ammetteva la circostanza, ma assumeva che serviva e che molte volte aveva qualche soffiata, metteva a disposizione le sue conoscenze (f. 102 trascrizione).

Il collaborante ha tuttavia escluso di essere a conoscenza di fatti specifici (f. 104 trascrizione).

Appare evidente che anche questo enunciato non fornisce alcun contributo alla impostazione accusatoria per la genericità dei riferimenti, assolutamente scevri di fatti concreti circa comportamenti giudicati come espressione di attività diretta a sostenere l’organizzazione criminosa>> (pag. 96 sent. cit).

Ad integrazione di tali, stringate, notazioni, giova rilevare che il Cucuzza, escusso all’udienza del 16 dicembre 1998, premesso di avere iniziato il suo percorso di collaborazione con la giustizia nell’ottobre 1996, di essersi accusato di parecchi delitti e di avere riportato condanne anche definitive per associazione a delinquere ed estorsione, ha riferito di essere stato “combinato” nel 1975 alla presenza di Angelo Graziano, Giuseppe Giacomo Gambino e tale Di Vincenzo, quest’ultimo della famiglia del Borgo Vecchio.

Di tale famiglia, originariamente ricadente nel mandamento di Partanna Mondello, egli aveva fatto parte dapprima come soldato, diventandone reggente all’inizio degli anni ottanta del novecento. Dopo il 1984 egli era divenuto reggente del mandamento di Porta Nuova, che a quell’epoca, l’aveva attratta nel suo territorio (pagine 93 - 95 della trascrizione)

Ha dichiarato di avere ben conosciuto Rosario Riccobono; di essere stato con lui nel 1976, da latitante, nella medesima abitazione, dopo essere evaso dagli arresti ospedalieri e di averlo rivisto alcune volte, poco prima della sua morte <<perché si doveva tirare in un tranello una persona di Stefano Bontade>> (ibidem, pagg. 97 e 114).

Ha descritto la progressiva riduzione del territorio del mandamento di Partanna Mondello, coincisa con il mutamento degli equilibri determinato dalla guerra di mafia dei primi anni ottanta del novecento ( pagine 97 - 100).

Ha riferito di avere appreso da Giuseppe Giacomo Gambino - da lui costantemente indicato quale proprio referente - che Rosario Riccobono intratteneva rapporti con alcuni funzionari dello Stato, tra cui Contrada; rapporto, quest’ultimo, assai controverso, giacchè lo stesso Gambino sosteneva che avesse natura confidenziale, mentre, secondo il Riccobono, serviva per avere notizie riservate su operazioni di polizia: <<(..) Si parlava anche del dott. Contrada, però non che il dott. Contrada diciamo, fosse dalla parte di Rosario Riccobono ma noi lo accusavamo che era il dott. Contrada ad averlo in mano (…) . Lui si difendeva dicendo invece, ammettendo sì, la conoscenza, ma che serviva e che molte volte aveva qualche soffiata (…) >>.

Lo stesso Riccobono non gli aveva mai parlato di tali rapporti perché “molto personali”, e però, per quanto a conoscenza di esso collaborante, <<li ammetteva come tali, però l’accusa che faceva Toto‘ Riina sia in commissione sia con Badalamenti era quello era che Rosario Riccobono era “sbirro” per questo motivo>>.

Il Riccobono, cioè si giustificava dicendo che << ..questo rapporto favoriva Cosa Nostra perchè poteva avere in tempo alcune notizie, o di mandati di cattura o qualche altra cosa che certe volte effettivamente lui mandava a dire che c’era una retata, una cosa e magari il Gambino mi diceva che veniva da Rosario Riccobono perchè aveva questo rapporto, infatti mi diceva qualche …(..) Pensavamo noi da questo lato diciamo dalla fazione opposta, che ogni tanto il dott. Contrada gli dava qualche contentino, ma per avere in cambio qualcosa. Queste erano accuse da una parte e giustificazioni dall'altra>> (pagine 102-104).

Il collaborante, peraltro, ha puntualizzato che Giuseppe Giacomo Gambino <<era molto interessato a quel mandamento e quindi era diciamo, in guerra con Rosario Riccobono, dico una guerra fredda naturalmente>> (pag.105).

Lo stesso, doveroso atteggiamento di ossequio al Riccobono era tenuto da Angelo Graziano : <<Angelo Graziano e Riccobono erano vicini anche perché il suo ruolo glielo imponeva, faceva parte di quel mandamento e quindi era molto vicino Rosario Riccobono anche se non lo condivideva perché faceva parte di un'altra linea di schieramento, diciamo>> (pagine 106 – 107).

Ha soggiunto di essere stato avvisato in diverse occasioni e da fonti diverse dell’imminenza di possibili operazioni di Polizia <<.. Ma comunque alcune venivano da Rosario Riccobono, adesso non ricordo specificamente quale notizia>> .

Ha precisato, tuttavia, che, da quando si era dato alla latitanza, la cosa non lo aveva toccato più di tanto perché eravamo sempre fuori>> (pagine 104-105), e di non essere in grado ricordare in quale periodo ciò fosse successo, pur essendo certo che Contrada non era indicato come l’unica fonte di tali notizie (pagine 109-110).

Il collaborante ha riferito che Rosario Riccobono si era avvalso di varie abitazioni, ubicate nelle località di Ficarazzi, di Villagrazia, di Sferracavallo, e, a Palermo, aveva utilizzato un appartamento in un “piano alto del palazzo del bar Bignè” (esercizio ubicato nel corpo edilizio costituito dai palazzi con ingresso ai civici 1 e 7 della via Jung) ed una casa nella zona di Villa Scalea (pagine 116-119).

Ha ricordato che, nel 1977 o nel 1979, comunque in un periodo in cui era libero, vi era stata una irruzione della Polizia in via Jung, nel palazzo del bar Bignè, con l’ausilio del Vigili del Fuoco, della quale il Riccobono, poco tempo dopo il fatto, gli aveva riferito di essere stato preavvisato (pagine 119-120):



<: Ci fu in un periodo adesso non ricordo di inquadrarlo, che infatti mi raccontava lui stesso che, la polizia entrò in questa casa con tanto di scuse naturalmente avvertendolo prima di andarsene, e con la moglie sono stati molto gentili non hanno toccato niente, insomma lui raccontava così questa cosa (…) Lui sapeva che dovevano fare una perquisizione a casa sua, una irruzione per cercarlo, e non dormì a casa, comunque salirono dalla finestra con delle scale non so tipo dei pompieri, entrarono a casa sono stati molto gentili, se ne sono andati non l'hanno visto più>>.

In sede di controesame, il Cucuzza ha ribadito di avere avuto da Giuseppe Giacomo Gambino, dopo il 1975, i primi cenni sulla veste di informatore che Riccobono attribuiva a Contrada (pag. 128), e che l’esatta natura del rapporto tra il mafioso ed il funzionario di Polizia era controversa (pag. 131-132):



<

CUCUZZA: Io vicinanza non credo di averlo detto, io ho detto che c’erano dei rapporti che per noi erano rapporti in un senso, Saro Riccobono riteneva che quei rapporti erano diversamente. Quindi per noi, non era il dott. Contrada che faceva il doppio gioco, ma era Saro Riccobono a fare il dilatore. Saro Riccobono diceva che ogni tanto gli serviva per qualche cosa, c’era qualche notizia, qualche cosa.

AVVOCATO MILIO:Qualche cosa sarebbe solo qualche notizia ?

CUCUZZA: Io nello specifico non ci sono mai entrato sin dall’inizio, e non posso perché’ i rapporti erano personali, e io ogni tanto sentivo che c’era qualche notizia che arrivava da Saro Riccobono e quindi non sapevo chi a Riccobono glieli riferiva, perché’ non si parlava solo del dott. Contrada>>.

Ha precisato, tuttavia, di non avere mai concretamente fatto parte della “Commissione” provinciale di Cosa Nostra, ribadendo di avere saputo dal Gambino delle diffidenze verso Riccobono e delle giustificazioni di questi, e di averne anche parlato, certe volte, con Totò Riina.

Ha confermato che il Riccobono, comunque, non gli aveva mai direttamente detto nulla dei suoi rapporti con uomini delle istituzioni (<<No, no, personalmente no>>, pag. 149-150).

Infine, ha fatto cenno, sempre de relato di Giuseppe Giacomo Gambino, ad un rapporto collusivo tra Riccobono ed un maresciallo dei Carabinieri di Partanna Mondello (pag. 152).

*****

La intraneità di Salvatore Cucuzza al sodalizio “Cosa Nostra” , presupposto della possibile conoscenza di fatti e voci riguardanti il capo del suo ex mandamento Rosario Riccobono, è stata riconosciuta anche dai difensori appellanti: a pagina 109 del volume I tomo I dei Motivi nuovi, infatti, viene ricordato che il Cucuzza era stato arrestato da Contrada unitamente ad “altri individui legati al Riccobono da stretti vincoli criminali”.



Lo stesso imputato, del resto, parlando della attività investigativa svolta nei confronti del costruttore mafioso Angelo Graziano, nel corso delle dichiarazioni spontanee rese all’udienza del 20 maggio 1999 ha ricordato di avere arrestato il Graziano il 23 luglio del 1975 per una serie di estorsioni,e di averlo denunciato <<il mese successivo, ad agosto l’ho denunciato per altre estorsioni a lui insieme con il Cucuzza>>.

Peraltro, all’udienza del 13 giugno 2000 il Procuratore Generale ha depositato la sentenza della Corte di Appello di Palermo del 27 maggio 1998, resa nei confronti di Cucuzza Salvatore + 21, irrevocabile il 2 dicembre 1999, con la quale è stata confermata la condanna del predetto alla pena di anni quattro di reclusione per il delitto di partecipazione aggravata ad associazione mafiosa, inflitta in aumento rispetto alla pena di anni quattordici e mesi sei di reclusione, comminata con la sentenza della Corte di Assise di Appello del 10 dicembre 1990, irrevocabile il 30 gennaio 1992, emessa all’esito del primo maxi processo.

Per quanto qui rileva, a pag. 189 della sentenza prodotta dal Procuratore Generale si afferma : <<.. Le acquisite risultanze processuali hanno evidenziato la posizione di assoluto rilievo del Cucuzza, il quale ha assunto, dapprima, la carica di reggente della”famiglia” di borgo vecchio e nel 1994, come riferito da Di Filippo Pasquale, quella di capo della " famiglia " di Porta Nuova, a seguito dell'arresto di Mangano Vittorio>>.

Tanto premesso, rileva questa Corte che non constano né una specifica illustrazione delle ragioni sottese alla determinazione del Cucuzza a collaborare, né una verifica giudiziale, in altri processi, della fondatezza, della originalità e della concreta utilità delle sue indicazioni accusatorie.

Al di là di questo, tuttavia, pur dovendosi dare atto del distacco che caratterizza le dichiarazioni del collaborante (tale da fare escludere un movente vendicativo nei confronti dell’odierno imputato) e della costante tendenza dello stesso Cucuzza a precisare i limiti delle sue conoscenze - mai direttamente attinte dal Riccobono - deve rilevarsi che manca, pur in presenza di una evidente assonanza con le propalazioni del pentito Salvatore Cancemi, una indicazione di particolari originali, che è legittimo esigere a fronte della notorietà del processo Contrada e della condanna dell’imputato in primo grado.

L’unico, specifico episodio del quale il collaborante ha riferito di essere stato messo a conoscenza dal Riccobono, quello, cioè, della irruzione nell’appartamento al sesto piano di via Jung n° 1 << dalla finestra con delle scale non so tipo dei pompieri>>, è stato riferito in maniera difforme rispetto a quanto emerso dalle risultanze processuali.

Ad onta, infatti, di quanto il collaborante ha dichiarato di avere appreso dal Riccobono, non è vero che la Polizia << entrò in questa casa con tanto di scuse naturalmente avvertendolo prima di andarsene, e con la moglie sono stati molto gentili non hanno toccato niente>>.

Nella sentenza appellata, infatti, è stata valorizzata la testimonianza, lucida, puntuale, ricca di dettagli, resa all’udienza del 7 luglio 1995 dell’Ispettore di Polizia Gianfranco Firinu (pagine 451-543) nuovamente escusso nel primo dibattimento di appello all’udienza del 14 aprile 2000.

Per quanto qui interessa, il Firinu partecipò all’operazione di Polizia, finalizzata alla cattura del Riccobono, svoltasi il 30 aprile 1980.

Nell’occasione, alle cinque del mattino, dopo un primo tentativo di suonare al campanello dell’appartamento al sesto piano con ingresso al centro del ballatoio, sito nello stabile di via Guido Jung n° 1, trascorsi circa venti minuti venne richiesto l’intervento dei vigili del fuoco. Dopo il loro arrivo, la porta di casa venne spontaneamente aperta e gli ufficiali operanti verificarono che all’interno dell’appartamento si trovavano, effettivamente, la moglie del Riccobono e la figlia Giuseppina, all’epoca fidanzata con Salvatore Lauricella.

Ora, nel corso dell’esame svoltosi nel primo dibattimento di appello, il teste Firinu ha ribadito essere salito unitamente al brigadiere Maggio con la scala volante dei Vigili del Fuoco, chiamati perché la porta (blindata) dell’appartamento non era stata aperta (pag. 38 trascrizione udienza 14 aprile 2000).

Ha precisato <<salimmo sulla scala dei vigili del fuoco fino al sesto piano, perchè la serranda era chiusa, entrando abbiamo preso 1 serranda da un lato e nell'altro abbiamo tentato di alzarla, abbiamo visto gente correre verso di noi e istintivamente abbiamo lasciato serranda e abbiamo preso l'arma di dotazione.



Abbiamo riaperto la serranda, frattempo dall'interno ci hanno ..anche la porta, ci hanno insultato a iosa fra i presenti che erano la moglie, la figlia del Riccobono, più credo che ci fosse la figlia del Lauricella il cui figlio praticamente era fidanzato con la figlia del Riccobono>> (ibidem, pag41).

Ha riferito, inoltre, di avere personalmente constatato che il letto della camera nuziale <<era stato palesemente rifatto>> (pag. 42). Più esattamente, da uno dei due lati il lenzuolo e le coperte erano sollevati; dall’altro lato, il letto, apparentemente chiuso e quindi non utilizzato, in realtà << era caldo>>, cosa che lo aveva indotto a dedurre che il Riccobono fosse riuscito a fuggire nelle more dell’intervento dei Vigili del fuoco (pagine 42-45).

La testimonianza dell’ispettore Firinu è logica e ben centrata: il letto matrimoniale, rifatto da una parte e “caldo” dall’altra, appare descritto come oggetto di una constatazione, non di un giudizio, perfettamente in sintonia con la circostanza che la porta di ingresso venne aperta alla Polizia soltanto dopo l’arrivo del Vigili del Fuoco.

Va ricordato, del resto, che gli accertamenti di Polizia Giudiziaria hanno confermato una confidenza che il collaboratore di giustizia Maurizio Pirrone ha riferito essergli stata fatta da Margherita Riccobono e dalla sorella Giuseppina, in presenza anche della loro madre, e cioè che nella abitazione del padre, sita in un attico di via Guido Jung in Palermo, vi era un particolare accorgimento che consentiva di fuggire dal retro senza essere scoperti, costituito da una doppia porta con scala posteriore.

Gli indugi dei familiari del Riccobono, le condizioni del talamo nuziale e le emergenze appena evidenziate, depongono, in conclusione, nel senso che Rosario Riccobono non venne preavvertito dell’irruzione, pur riuscendo, comunque, a dileguarsi.

Non può escludersi che il Cucuzza sia stato fuorviato dal mendacio del Riccobono, animato dall’intento di non vedere ridimensionato - all’esterno - il suo prestigio. In ogni caso, tuttavia, la distorta rappresentazione del fatto, già noto nel giudizio di primo grado, impedisce di escludere l’ipotesi che su di esso siano state costruite delle false accuse.

Ne resta, comunque, pregiudicata la concretezza ed affidabilità di un racconto che, per il resto non ha una specificità sufficiente da essere considerato una fonte di arricchimento del quadro probatorio a carico dell’imputato.

CAPITOLO XXVII


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