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Lo svolgimento del processo


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L’intercettazione della conversazione telefonica intercorsa il 7/10/1983 tra l’imputato e Antonino Salvo
Come ricordato dal Tribunale (pagine 1450 e segg. della sentenza appellata) alle ore 11,26 del 7 Ottobre 1983, sull’utenza 091-296572, in uso ad Antonino Salvo, già raggiunto nel luglio 1983 da una comunicazione giudiziaria nell’ambito di un procedimento, assegnato al G.I. dott. Giovanni Falcone, relativo ad una vasta associazione di tipo mafioso, era stata intercettata una comunicazione telefonica tra il predetto e Bruno Contrada.

Nel corso della telefonata, pervenuta presso gli Uffici dell’Alto Commissario siti nella via Cavour, Antonino Salvo aveva richiesto - ed ottenuto immediatamente - un incontro con l’odierno imputato: (cfr. il processo verbale di intercettazione e registrazione: <<Donna forma l'utenza n. 235540 ed all'uomo che risponde passa il dott. Salvo Antonino, il quale chiede ed ottiene di parlare con il dott. Contrada, i due dopo i convenevoli dicono:

Salvo:“Pronto” -Contrada:“ Sono Contrada, con chi parlo?- Salvo:“ Buon giorno sig. Questore, Salvo sono.- Contrada:“dott. Salvo chi?”- Salvo:“Antonino”. - Contrada:“ah, buon giorno”- Salvo:“Buon giorno dottore”- Contrada:“Buon giorno”- Salvo:“ io sentirei il bisogno, se lei è disponibile, di incontrarla per dieci minuti, vorrei venirla a trovare.” Contrada:“ Qui, in Prefettura?” Salvo: “ Si” Contrada:“ Ah!” Salvo:“ nel suo ufficio” Contrada: “ Si” Salvo: “ il fatto diciamo..non è ufficiale, ma è istituzionale diciamo” Contrada:“ ho capito va bene quando vuole” Salvo: “ eh, io posso venire anche subito” Contrada: “ Va bene” Salvo: “ va bene ...là in via Cavour”).

Sottoposto ad interrogatorio il 5/12/1984 dai Giudici Istruttori Falcone, Borsellino e Guarnotta, alla presenza del P.M. Domenico Signorino, Antonino Salvo aveva dichiarato di essere venuto a conoscenza, attraverso notizie di stampa, del fatto di essere stato indicato insieme al cugino Ignazio Salvo - nell’ambito del rapporto giudiziario per l’omicidio del giudice Chinnici - quale possibile mandante di tale fatto delittuoso. Pertanto, aveva ritenuto opportuno parlare dell’argomento con il capitano dei Carabinieri Angiolo Pellegrini, con cui si era messo in contatto tramite il suo commilitone colonnello Enrico Frasca, nonchè con il dott. Contrada, affinché segnalasse al proprio superiore dott. De Francesco che si riteneva vittima di una congiura politica.

Il teste Pellegrini aveva premesso di essersi occupato, congiuntamente alla Squadra Mobile ed alla Criminalpol, delle indagini relative alla strage di via Pipitone Federico, in cui aveva perso la vita il giudice Chinnici.

I firmatari del rapporto giudiziario a carico di Greco Michele +5, relativo a tale fatto delittuoso, trasmesso all’A.G. in data 31/8/1983, erano stati lui stesso per i Carabinieri ed il dott. De Luca, all’epoca dirigente della Criminalpol, per la Polizia.

Il predetto teste aveva, quindi, riferito che il consigliere istruttore Chinnici, poco prima di essere ucciso, gli aveva personalmente comunicato che era in procinto di emettere mandato di cattura nei confronti dei cugini Salvo quali associati mafiosi. Tale sua intenzione, tradottasi anche in una richiesta di parere trasmessa alla Procura, e nota nell’ambiente investigativo palermitano, era stata evidenziata nel predetto rapporto giudiziario, trasmesso all’A.G. di Caltanissetta dopo la sua uccisione.

Il teste Pellegrini aveva soggiunto:



  • di essere stato subito informato, dal personale che eseguiva le operazioni di intercettazione telefonica, della telefonata tra Antonino Salvo ed Contrada del 7 ottobre 1983;

  • di essere stato contattato, la stessa sera, dal colonnello Enrico Frasca, il quale gli aveva riferito che i cugini Salvo intendevano parlargli per fornire alcuni chiarimenti in merito alla loro posizione processuale ed in relazione al rapporto giudiziario sulla strage Chinnici;

  • di essersi riservato di dargli una risposta, di essersi stupito che i predetti sapessero del rapporto e della sua veste di estensore, di avere informato tempestivamente il giudice Falcone sia della richiesta fattagli pervenire dai Salvo attraverso il colonnello Frasca;

  • di avere,quindi,comunicato al Frasca che non riteneva opportuno incontrare i Salvo, perché colpiti da comunicazione giudiziaria nell’ambito del procedimento penale istruito dal giudice Falcone;

  • di essersi determinato a ricevere Antonino Salvo soltanto il primo dicembre 1983, di ritorno da una missione in Brasile e dopo reiterate richieste da parte del colonnello Frasca (in tale circostanza, il Salvo aveva lamentato di essere vittima di un complotto politico ordito dal partito comunista,che non essendo stato finanziato dal suo gruppo, aveva strumentalizzato la magistratura e la polizia giudiziaria);

  • di avere riferito per iscritto a Falcone ed al colonnello Castellano, suo Comandante di legione, della telefonata del 7 ottobre e dell’incontro del primo dicembre;

  • di avere occasionalmente appreso dallo stesso Falcone, nella primavera del 1984, che Contrada non lo aveva mai informato del suo colloquio con Antonino Salvo (“aspetto ancora di avere notizie di quella telefonata”, cfr. ff. 177 trascrizione udienza 31 maggio 1994).

Detta circostanza aveva trovato conferma, secondo il Tribunale, nella deposizione del teste Giuseppe Ayala.

Questi aveva riferito di essere stato messo in guardia sul conto di Contrada da Giovanni Falcone (“Accura a Contrada”), il quale aveva motivato tale sua diffidenza anche con l’episodio della telefonata intercettata con Antonino Salvo, rimarcando che l’odierno imputato non lo aveva informato di essa, a differenza di quanto aveva fatto il colonnello Pellegrini per la telefonata a lui fatta dal colonnello Frasca (cfr. pagine 49 e segg., 126 e segg trascrizione udienza 1/7/1994).

Il Tribunale, poi, (pagine 1465- 1466 della sentenza appellata) riteneva <<del tutto incredibile la circostanza addotta dall’imputato secondo cui, nell’Ottobre 1983, alla data di quel colloquio, che ha tentato di far apparire come un fatto assolutamente ordinario, egli non fosse a conoscenza nè delle indagini in corso sui Salvo da parte dell’Ufficio Istruzione di Palermo, che già dal Luglio precedente aveva emesso a carico dei predetti una comunicazione giudiziaria, nè delle indagini condotte sia dai C.C. che dalla P.S. sugli stessi, confluite nel rapporto giudiziario inoltrato nell’Agosto del 1983, nel quale entrambi i cugini erano indicati quali possibili mandanti della strage Chinnici>>. Ancorava tale convincimento sia alla natura dell’incarico di Capo di Gabinetto dell’Alto Commissario, ricoperto da Contrada, sia a quanto detto dallo stesso imputato all’udienza del 25/11/1994, e cioè di essere stato sempre stato il punto di riferimento di tutte le notizie riguardanti indagini di mafia ed in particolare l’interlocutore esclusivo e privilegiato dei funzionari della P.S. D’Antone e De Luca, tanto da essere stato preavvisato del mandato di cattura emesso a carico di entrambi i Salvo nel novembre 1984.

Quel giudice, inoltre, a fronte delle convergenti dichiarazioni dei testi Pellegrini ed Ayala, disattendeva l’assunto dell’imputato di avere informato il giudice Falcone della telefonata e dell’incontro del 7 ottobre 1983, peraltro senza essere tenuto a farlo, non avendo la veste di ufficiale di Polizia Giudiziaria (segnatamente, Contrada aveva dichiarato di averne ravvisato l’opportunità quando il colonnello dei C.C. Castellano era venuto in visita dal Prefetto De Francesco per comunicare che era stata intercettata una telefonata tra Antonino Salvo ed il suo capo di Gabinetto).

Reputava, ancora, non credibile l’ulteriore affermazione di Contrada di avere redatto per l’Alto Commissario, come era solito fare secondo una prassi consolidata, un appunto scritto del colloquio, atteso che di quell’appunto non era stata rinvenuta traccia nonostante le ricerche che l’Alto Commissario De Francesco, escusso come teste, aveva riferito di avere disposto, e considerato che lo stesso De Francesco non conservava alcun ricordo dell’episodio.

Reputava, infine, destituita di fondamento la tesi, sostenuta dall’imputato, della mancata disponibilità di apparecchi di registrazione presso i locali dell’Alto Commissario, tesi smentita dal teste De Francesco ed in ogni caso palesemente pretestuosa, dato che il colloquio con Antonino Salvo avrebbe potuto essere ritardato per il tempo necessario a procurarsi l’apparecchio di registrazione nei vicini uffici in dotazione al S.I.S.D.E., ubicati nella via Roma.

In definitiva, la condotta tenuta dall’imputato in occasione della telefonata del 7 ottobre 1983 - segnatamente, l’avere immediatamente ricevuto Antonino Salvo presso l’Ufficio dell’Alto Commissario - ed il suo comportamento processuale sono stati valutati dal Tribunale come sintomatici di un rapporto personale esistente tra i due, celato a ragion veduta da Contrada all’Alto Commissario, ma anche al Giudice Istruttore dottor Giovanni Falcone, che procedeva nei confronti dei cugini Antonino ed Ignazio Salvo per il reato di associazione mafiosa (pag. 1470 della sentenza appellata).

*****


Sulla vicenda in esame si appuntano le censure svolte alle pagine 100 -104 del volume VI capitolo VI paragrafo VI. 4 dell’atto di impugnazione e, assai più diffusamente, nel volume IX dei Motivi nuovi (pagine 1-100).

Deducono i difensori appellanti che:



  1. l'assenza totale di qualsiasi familiarità o frequentazione o conoscenza non istituzionale si evince chiaramente non solo dal tenore della telefonata (Salvo:“ Buon giorno sig. Questore, Salvo sono.- Contrada:“dott. Salvo chi?”83) ma dal fatto che Contrada fu chiamato attraverso il centralino della Prefettura e non attraverso il numero diretto dell'ufficio o dell'abitazione;

  2. se ci fosse stata familiarità o motivi inconfessabili, Antonino Salvo avrebbe preferito l’ufficialità di un incontro in ambiente istituzionale alla segretezza di un ambiente riservato;

  3. l'oggetto del colloquio, riferito dall’imputato (la denuncia di un complotto politico) corrispondeva perfettamente a quello dell’incontro ottenuto il primo dicembre 1983 con il colonnello Pellegrini da Antonino Salvo, il quale aveva interesse di incontrare gli ufficiali di P.G. che indagavano su di lui - il dott. De Luca ed il capitano Pellegrini - per chiarire la sua posizione;

  4. l’imputato, che peraltro non aveva una veste formale di ufficiale di Polizia Giudiziaria, - non aveva riferito immediatamente del colloquio, al giudice Falcone perché nulla di utile sotto il profilo investigativo o di penalmente rilevante si era prospettato;

  5. il comportamento di Contrada era stato del tutto simmetrico a quello del capitano Pellegrini, il quale aveva riferito a Falcone della prima richiesta di incontro, rivoltagli il 7 ottobre 1983, soltanto con l’appunto scritto del 3 dicembre 1983, così come l’imputato aveva riferito della telefonata e dell’incontro del 7 ottobre 1983 al Comandante legione CC di Palermo, colonnello Castellano, dopo la visita di questi all’Alto Commissario;

  6. Antonino Salvo aveva chiesto di incontrare l’Alto Commissario De Francesco, che lo aveva dirottato su Contrada, circostanza che il teste Antonino De Luca aveva dichiarato, nel corso del suo esame, di avere appreso dallo stesso imputato (cfr. pagine 236-237 trascrizione udienza 28-10-1994);

  7. a conferma della assenza di rapporti collusivi con Antonino Salvo (che Contrada aveva conosciuto unicamente per ragioni di ufficio, nell’ambito delle indagini per il sequestro di persona del suocero, l’esattore Luigi Corleo), militava anche il fatto che l’imputato, pur preavvisato dell’imminente arresto dei cugini Salvo nel novembre 1984, non aveva fatto loro alcuna “soffiata”;

  8. l’Alto Commissario De Francesco, nel corso del proprio esame, non aveva escluso, ed anzi aveva considerato verosimile, pur dicendo di non ricordarsene, che Contrada lo avesse avvisato della telefonata e della visita di Antonino Salvo;

  9. l’Ufficio dell’Alto Commissario non disponeva di registratori portatili, come confermato dal teste Paolo Splendore, né, data la subitaneità dell’arrivo di Antonino Salvo, era stato possibile reperirne uno presso i vicini uffici del SISDE.

*****

In questo dibattimento, il Procuratore Generale si è uniformato alla impostazione del Tribunale secondo cui la condotta di Contrada sarebbe stata sintomatica di un suo rapporto personale con Antonino Salvo e della volontà di celare quanto detto in occasione del colloquio con lui.

Ha sostenuto che il contenuto ermetico della conversazione telefonica, l'immediatezza dell’incontro, la sua mancata documentazione ed il successivo silenzio su di esso andrebbero correlate alla conoscenza - sia da parte di Contrada, sia da parte di Antonino Salvo - del rapporto di Polizia Giudiziaria a firma congiunta del capitano Pellegrini e del dott. De Luca, inoltrato alla Procura della Repubblica di Caltanissetta il 31 agosto 1983.

L’incontro del 7 ottobre 1983, cioè, si sarebbe svolto in un frangente in cui il procedimento, istruito in sommaria, non era stato ancora formalizzato. Ciò spiegherebbe l’allusione del Salvo ad un fatto <<non ufficiale… ma istituzionale, diciamo >>, colta al volo dall’imputato con l’espressione <<ho capito va bene quando vuole>>.

A sostegno di tale costruzione, il Procuratore Generale, oltre a riproporre le valutazioni già svolte dal Tribunale in ordine alle ritenute anomalie del comportamento dell’imputato, ha richiamato una specifica circostanza riferita dal teste Pellegrini, e cioè il fatto che - in occasione del primo contatto (quello del 7 ottobre 1983) - il colonnello Enrico Frasca aveva specificamente menzionato il rapporto giudiziario inoltrato alla Procura di Caltanissetta il 31 agosto 1983, ricollegandolo alla richiesta di Antonino Salvo di avere un colloquio per chiarire la sua posizione (pag. 174 trascrizione udienza 31 maggio 1994):

<<PELLEGRINI A.: La stessa sera venni contattato da un Colonnello in pensione, il Colonnello dei Carabinieri, il Colonnello Frasca, che mi chiese, mi disse che i due cugini Salvo, sia Salvo Nino che Ignazio, intendevano parlare con me, per chiarire la loro posizione in merito al rapporto a carico di Greco Michele + 5 persone, imputati per la strage di via Pipitone Federico.

P.M.: E la circostanza che detto rapporto fosse a firma anche sua era di dominio pubblico?

PELLEGRINI A.: Io in questo momento ho dei dubbi. Allora mi pare di aver ritenuto che non fosse di dominio pubblico, ma mi pare che non fosse ancora depositato, pero bisognerebbe vedere un po' il momento in cui e stato depositato dal Procuratore della Repubblica di Caltanissetta, che procedeva con rito sommario e quindi rinvio, quindi non posso dirlo di preciso>>.

(…)

P.M.: Puo riferire il contenuto di questo incontro?

PELLEGRINI A.: Sommariamente posso riferirlo. Nino Salvo iniziò col dire che rappresentava la potenza politica- economica della Sicilia e che quindi ogni azione nei suoi confronti, specie giudiziaria, era voluta dal Partito Comunista, in quanto voleva osteggiare la sua corrente politica, in qualche modo osteggiare l'On. Lima e l'On. Gullotti. Successivamente disse anche che aveva presentato o stava per presentare un esposto alla Procura della Repubblica di Palermo contro coloro che avevano riferito che il Dr. Chinnici era in procinto di emettere dei provvedimenti nei suoi confronti e disse anche che Gassan84 era stato presso il suo albergo, a Ficarazzi se non sbaglio, nel suo albergo a richiesta di funzionari della Polizia e quindi lui non ci entrava nulla e quindi cercò di giustificare un po' la sua posizione>>.

*****


Ad avviso di questa Corte la vicenda, nel suo complesso, non assume una sufficiente valenza indiziante, perché priva dei caratteri della gravità e precisione.

A sfavore dell’imputato milita, in primo luogo, la non veridicità dell’assunto difensivo secondo cui Antonino Salvo avrebbe chiesto di incontrare l’Alto Commissario De Francesco, pur avendo interloquito, in concreto, con Contrada in quanto questi svolgeva una funzione di filtro nella sua veste di Capo di gabinetto.

Esso, infatti, è smentito dall’univoco tenore del verbale relativo alla intercettazione telefonica del 7 ottobre 1983, che recita, nel suo incipit << Donna forma l'utenza n. 235540 ed all'uomo che risponde passa il dott. Salvo Antonino, il quale chiede ed ottiene di parlare con il dott. Contrada>>.

Una seconda anomalia consiste nella insostenibilità dell’affermazione dello stesso Contrada di non essere stato al corrente - prima del 7 ottobre 1983 - dello svolgimento indagini per mafia a carico dei cugini Salvo.

Un terzo elemento è dato dalla smentita dell’allegazione di Contrada di avere riferito della telefonata e del colloquio con Antonino Salvo al G.I. Falcone poco dopo che il colonnello Castellano, comandante la Legione Carabinieri di Palermo, aveva riferito all'Alto Commissario De Francesco dell'avvenuta intercettazione.

Il Tribunale, inoltre, ha dimostrato che il comportamento di Contrada non era stato affatto simmetrico a quello del capitano Pellegrini, come invece ha continuato a sostenere la Difesa sul rilievo che, soltanto con l’appunto del 3 dicembre 1983, quest’ultimo avrebbe reso edotto il giudice Falcone di essere stato contattato da Antonino Salvo tramite il colonnello Frasca.

Ed invero, lo stesso Pellegrini, in sede di esame, ha riferito di avere subito riferito oralmente al giudice Falcone della prima richiesta di incontro, rivoltagli il 7 ottobre 1983, e averne rassegnato il contenuto per iscritto con la nota del 3 dicembre 1983, nella quale aveva fatto menzione anche del colloquio del primo dicembre 1983 con Antonino Salvo.

Il teste ha dato una logica spiegazione dell’immediato resoconto a Falcone, e cioè la meraviglia indotta in lui dal fatto che Antonino Salvo lo individuasse come estensore del rapporto sulla morte di Chinnici quando ancora l’istruttoria non era stata nemmeno formalizzata. Il suo narrato, oltretutto, ha trovato piena conferma nella deposizione del teste Ayala, che, tra gli episodi cui Falcone aveva collegato l’avvertimento di non fidarsi di Contrada, aveva citato il differente comportamento dello stesso Pellegrini e dell’odierno imputato in relazione agli approcci di Antonino Salvo (cfr. pag. 49 trascrizione udienza primo luglio 1995 : << .. ha telefonato sia al colonnello Pellegrino dei Carabinieri, sia a Contrada chiedendo un colloquio. Falcone mi raccontò che mentre Pellegrino era andato subito da Falcone per avvertirlo, Contrada non c’era andato, senza ulteriori commenti, così mi disse>>).

La vicenda, tuttavia, prospetta anche elementi che ridondano a favore della linea difensiva dell’imputato.

In primo luogo, l’avere dato per accertata la disponibilità di registratori presso uffici dell’Alto Commissario è frutto di un possibile fraintendimento della testimonianza del Prefetto De Francesco.

Il teste Paolo Splendore, infatti, ha chiarito che, all’occorrenza, si andava a prenderli presso il vicino centro SISDE di via Roma (pagine 83-86 trascrizione udienza 3 febbraio 1995).

Sulla attendibilità del teste Splendore non è dato dubitare, se si considera che questi, pur essendo, per sua stessa ammissione, legato a Contrada da uno stretto rapporto di amicizia e di natura professionale - Contrada lo volle come suo collaboratore non soltanto per tutto il periodo della sua permanenza all’Alto Commissario, ma anche in altre successive occasioni, durante la permanenza al SISDE a Roma cfr. pagine 31 e ss. 37 e ss. 5 e ss. trascrizione udienza 3/2/1995) - ha riferito, come si è detto trattando delle propalazioni di Gaspare Mutolo, circostanze non favorevoli alla Difesa a proposito della genesi dell’affiliazione dell’imputato all’Ordine Equestre del Santo Sepolcro.

Il teste De Francesco, del resto, ha riferito di avere avuto nella propria stanza un registratore, collegato col suo telefono - e quindi, intuitivamente, non soggetto ad essere rimosso e prestato - e di averlo usato soltanto due o tre volte durante i trentuno mesi del suo incarico.

Ha soggiunto che il suo ufficio disponeva “sicuramente” di apparecchi di registrazione.

Tuttavia, a fronte della nitidezza dei ricordi del teste Splendore, non è perfettamente chiaro se la disponibilità di apparecchi di registrazione sia stata riferita dal prefetto De Francesco agli Uffici dell’Alto Commissario, ovvero a quelli del SISDE. Senza dire che lo stesso De Francesco ha dichiarato che non era <<un'abitudine usuale registrare>> (pag. 68 e ss. trascrizione udienza 31/5/1994) sicchè il suo ricordo appare meno affidabile di quello del teste Splendore.

D’altra parte, qualora i registratori portatili fossero stati davvero disponibili presso gli Uffici dell’Alto Commissario, Contrada non avrebbe avuto ragione di menzionare lo specifico particolare costituito dall’invito dell’Alto Commissario a registrare il colloquio, così esponendosi al rischio di aggravare la sua posizione ove fosse stato smentito circa la loro esistenza.

Ed ancora non è dato sapere con quali modalità e sulla base di quali istruzioni lo stesso Salvo venne introdotto nella stanza di Contrada, non apparendo, dunque, decisiva l’osservazione del Tribunale secondo cui sarebbe stato possibile far fare un po’ di anticamera a Antonino Salvo per il tempo strettamente necessario alla installazione di un registratore. Non può escludersi, tra l’altro, che l’arrivo del Salvo fosse stato davvero subitaneo, attesa la vicinanza tra suoi uffici di concessionario per la riscossione dei tributi, siti in via del Parlamento, e la sede dell’Alto Commissario, sita in via Cavour.

Appare poco plausibile inoltre, che Antonino Salvo avesse scelto gli uffici dell’Alto Commissario, contesto nel quale la conversazione avrebbe potuto essere intercettata, quale sede per rivolgere all’imputato richieste di ingerenza diretta nelle indagini che lo riguardavano. Senza dire che la sua telefonata delle 11.26 era stata fatta al centralino dell’Alto Commissario e non al numero diretto dell’imputato.

Il mancato ricordo di De Francesco ed il mancato rinvenimento dell’appunto dell’incontro con Antonino Salvo, che l’imputato assume di avere redatto, non bastano, poi, a dimostrare che Contrada ne avesse tenuto all’oscuro lo stesso De Francesco.

Va considerato, inoltre, che il Salvo cercò nell’imputato - lo afferma lo stesso Contrada in sede di esame all’udienza dell’otto novembre 1994, (cfr. la trascrizione riportata alle pagine 50 e 51 del volume IX dei Motivi Nuovi di appello) - non soltanto un tramite per rendere edotto delle sue proteste l’Alto Commissario, ma anche una sponda per un contatto con l’altro estensore del rapporto, e cioè il dott. Antonio De Luca, dirigente della Criminalpol.

Tale condotta dello stesso Antonino Salvo è simmetrica al tentativo di avere un incontro con il capitano Pellegrini, esperito già il 7 ottobre 1983 per il tramite del colonnello Frasca, né tale simmetria viene meno per il fatto che, alla data del colloquio del Salvo con il capitano Pellegrini (primo dicembre 1983) era stata, ormai, formalizzata l’istruzione nel procedimento relativo alla strage Chinnici.

La formalizzazione, infatti, non implicava la desegretazione degli atti, e quindi la conoscenza del contenuto del rapporto giudiziario del 31 agosto 1983, della cui esistenza il Salvo aveva dimostrato di essere al corrente sin dal sette ottobre, e cioè sin da prima dell’incontro con Contrada.

La simmetria tra l’approccio di Antonino Salvo nei riguardi di Bruno Contrada e quello nei confronti del capitano Pellegrini emerge anche dal contenuto dei colloqui avuti con l’uno (il 7 ottobre) e con l’altro (Il primo dicembre).

Anche il capitano Pellegrini, infatti, ha riferito che Antonino Salvo aveva lamentato di essere vittima di una congiura politica ordita dai comunisti strumentalizzando la magistratura e la Polizia Giudiziaria; rimostranze, all’evidenza, del tutto analoghe a quelle che l’imputato ha riferito essere state rivolte a lui.

Anzi, la denuncia di un complotto, confermata dalla successiva presentazione di un esposto al Procuratore della Repubblica di Palermo <<a tutela del proprio nome e della propria posizione sociale,perché fosse aperta un'inchiesta sugli autori delle false affermazioni contenute nel rapporto per la strage di via Pipitone Federico>> (in termini, l’appunto indirizzato dal capitano Pellegrini, trasmesso il 3 dicembre 1983 al G.I. Giovanni Falcone ed al Comandante della Legione carabinieri di Palermo), denota l’intendimento del Salvo di “creare il caso”, bussando a più porte, in relazione alla propria notorietà di ricco e potente concessionario del pubblico servizio di riscossione dei tributi in Sicilia, capace di influire sulla vita politica regionale.

Il fatto, dunque, poteva intendersi come “istituzionale” per la veste pubblica del Salvo e per il presunto tentativo di una forza politica di indebolire esponenti di spicco della Democrazia Cristiana dei quali il Salvo si considerava uno sponsor, e “non ufficiale” perché riguardante un rapporto di polizia giudiziaria.

Alla stregua delle considerazioni che precedono, non è dato attribuire all’episodio in esame l’idoneità a rafforzare il quadro collusivo delineatosi a carico dell’imputato; idoneità che non può essere riconosciuta a degli addendi di segno neutro, non certi nella loro configurazione e non dotati di una sufficiente prossimità logica al fatto da provare.

CAPITOLO XXI


La pratica relativa al rinnovo del porto di pistola all’indagato mafioso Alessandro Vanni Calvello
Nel vagliare la vicenda del rinnovo del porto di pistola al principe Alessandro Vanni Calvello Mantegna di San Vincenzo, il Tribunale ricordava che, tra gli atti sequestrati presso l’abitazione dell’imputato al momento dell’esecuzione dell’ordinanza di custodia cautelare in carcere, erano state rinvenute le copie di due note a sua firma, una del 22 marzo 1980 e l’altra del 18 ottobre 1980.

Entrambe facevano riferimento alla pratica relativa a quella licenza, ricostruita, nelle sue fasi, nei termini che seguono.

Il 16 maggio 1968 il Vanni Calvello aveva ottenuto un rilascio del porto di pistola, cui, negli anni successivi, erano seguiti regolari rinnovi.

In data 15 febbraio 1974 la Squadra Mobile di Palermo aveva inviato alla Questura un rapporto informativo, a firma del dirigente Bruno Contrada, con il quale si segnalava che il mafioso Leonardo Vitale, nel corso delle rivelazioni rese all’ufficio, aveva, tra gli altri, indicato quale affiliato alla mafia lo stesso Vanni Calvello.

In data 4 maggio /1975 il Prefetto di Palermo aveva revocato la licenza di porto di pistola in possesso del predetto, sia pure con la motivazione della sua non indispensabilità e senza uno specifico riferimento alle accuse del Vitale.

Il 10 ottobre 1978 il Vanni Calvello aveva avanzato nuova istanza per ottenere il porto di pistola, che gli era stata concesso con provvedimento emesso il 16 ottobre 1978 dal Prefetto di Palermo Giovanni Epifanio, e che, successivamente, gli era stato rinnovato a seguito dei reiterati pareri favorevoli formulati dal 2° Distretto di Polizia, diretto dal dott. Purpi.

Con nota in data 22 marzo 1980 a firma del dirigente Bruno Contrada, il centro Criminalpol di Palerno aveva comunicato alla Questura di Palermo, Polizia Amministrativa, di avere riferito al Centro Nazionale Criminalpol - in risposta ad una richiesta di informazioni da questo avanzata nell’ambito delle indagini sul sequestro Sindona - che non erano emersi elementi idonei a spiegare i contatti telefonici intercorsi di Erasmo Victor Gambino (implicato in quelle indagini) con Pietro Vanni Calvello e la sua convivente, la cittadina britannica Marcia Radclif 85.

Con la medesima nota, tuttavia, si era ritenuto opportuno segnalare che Alessandro Vanni Calvello, fratello di Pietro, aveva costituito oggetto di particolare interesse investigativo nel quadro delle indagini svolte, sia dalla Polizia che dai Carabinieri, su un gruppo di mafia costituito da elementi di Palermo, Corleone ed Altofonte.

Successivamente a tale segnalazione, in data 20 settembre 1980 il Vanni Calvello aveva chiesto il rinnovo della licenza di porto di pistola, in scadenza il successivo 10 ottobre. A fronte della predetta nota del 22 marzo 1980, il Questore di Palermo, nonostante il parere favorevole già espresso dal 2° Distretto di Polizia il 23 settembre 1980, aveva richiesto ulteriore, motivato parere alla Criminalpol.

Con nota in data 18 ottobre 1980 a firma del dirigente Bruno Contrada, la Criminalpol aveva espresso parere favorevole ed il successivo 22 ottobre il Questore aveva concesso ad Alessandro Vanni Calvello il chiesto rinnovo.

Infine, in data 3 novembre 1984, a seguito del mandato di cattura emesso il 24 ottobre 1984 dall’Ufficio Istruzione presso il Tribunale di Palermo a carico di Alessandro Vanni Calvello in relazione al reato di associazione mafiosa, il Questore ed il Prefetto di Palermo avevano rispettivamente disposto la revoca della licenza di porto di fucile e di porto di pistola per difesa personale rilasciati al predetto e, nelle more, rinnovati anno per anno.

Fatte queste premesse, il Tribunale operava una sinossi del rapporto del 15 febbraio 1974, scaturito dalle propalazioni di Leonardo Vitale, della nota informativa del 22 marzo 1980 e del parere favorevole al rinnovo del porto di pistola del 18 ottobre 1980, atti, tutti a firma dell’imputato.

Quel giudice quindi, perveniva alla conclusione che l’esigenza, prospettata nella motivazione del parere del 18 ottobre 1980 e d anche rappresentata da Contrada in dibattimento, di accogliere l’istanza di rinnovo avanzata dal Calvello per evitare di destare i suoi sospetti, e quindi di intralciare le indagini in corso su di lui, era stata un mero pretesto.

Rilevava, al riguardo, che sui rapporti mafiosi del Vanni Calvello non aveva avuto dubbi il capitano dei Carabinieri Emanuale Basile, ucciso da mano mafiosa il 4 maggio 1980.

Osservava, dunque, che Contrada, il quale nel 1974 aveva adottato un comportamento ben diverso, rassegnando alle Autorità competenti per le determinazioni sui porti d’arma che il Calvello era stato indicato come affiliato mafioso da Leonardo Vitale, nel 1980 lo aveva agevolato con il parere favorevole, che egli stesso aveva avuto cura di caldeggiare, discutendone personalmente con il Questore ell’epoca, il dott. Nicolicchia. Quest’ultimo, pur considerando l’odierno imputato come proprio braccio destro”, degno di massima fiducia, aveva avuto delle perplessità, al punto da consultarsi anche con il Prefetto, tanto che, contrariamente alla prassi, era stata adottata una motivazione molto dettagliata del provvedimento di rinnovo del porto di pistola, di cui era stato evidente ispiratore lo stesso Contrada.

Tale <> si poneva <>, contribuendo <> (pag. 1398 della sentenza appellata).

********

Le conclusioni del Tribunale sono state vivamente contestate alle pagine 184-186 del volume VII capitolo VI paragrafo VI. 5 dell’Atto di impugnazione, i cui spunti sono stati ripresi nel volume XV dei Motivi nuovi (pagine 1-80).

I difensori appellanti, innanzitutto, sulla base del compendio documentale in atti, hanno sostenuto che svariate anomalie avevano caratterizzato, negli anni, i rilasci ed i rinnovi del porto di pistola ad Alessandro Vanni Calvello Mantegna, principe di San Vincenzo.

A titolo di esempio, la licenza, rilasciata per la prima volta nel 1960 e revocata dopo meno di un anno (essendosi il Vanni Calvello reso responsabile di omicidio colposo per negligenza nella custodia dell'arma), nuovamente richiesta dall’interessato, era stata negata con decreto del 31 marzo 1968 dal Prefetto di Palermo nonostante il parere favorevole dell'Ufficio di Polizia e dell'Arma dei CC. Lo stesso Prefetto, però, a distanza di meno di due mesi, con decreto del 16 maggio 1968 aveva annullato la precedente decisione negativa ed il Questore - i questori avevano una delega in via generale, per il rilascio, da parte dei prefetti, che mantenevano l’esercizio del potere di revoca - aveva rilasciato il porto di pistola.

Analogamente, quando il 10 ottobre 1978 Alessandro Vanni Calvello, che nel 1975 aveva avuto revocato il titolo di Polizia, ne aveva chiesto nuovamente il rilascio, lo aveva ottenuto subito, e cioè il successivo 16 ottobre, senza le rituali informazioni dei Carabinieri e della Polizia, come si desume dalla apposizione, nella pratica, della dicitura: "Informazioni da chiedere".

I medesimi difensori, poi, hanno rilevato che la nota del 22 marzo 1980 aveva tratto origine dalla autonoma determinazione dell’imputato di segnalare alla Divisione di Polizia Amministrativa che Alessandro Vanni Calvello, fratello di Pietro, aveva formato <<di recente argomento di particolare interesse investigativo nel quadro delle indagini svolte su un gruppo di mafia costituito da elementi di Palermo, Corleone ed Altofonte>>, e che entrambi i fratelli Vanni Calvello erano titolari di porto di Pistola.

Hanno sottolineato che l’allora Questore Vincenzo Immordino aveva assunto un atteggiamento di attesa in vista di una eventuale revoca, tanto da annotare di suo pugno, in data 24 marzo 1980, in margine alla nota del 22 marzo 1980,: <<Sig. Dirigente III° Divisione : conferire insieme al dott. Contrada>>, e, più sotto: << Conf.to il 24.3 : tenersi in contatto per la tempestiva adozione del provvedimento di revoca...>> (cfr. annotazioni contenute nella copia del provvedimento acquisito all’udienza del 19/5/1995).

Hanno evidenziato, ancora, che, nel corso del proprio esame, il Questore Giuseppe Nicolicchia (subentrato ad Immordino nel giugno 1980) aveva riferito che nel provvedimento di rinnovo erano state trasfuse le indicazioni della scheda - prospetto predisposta dal dirigente della Divisione di Polizia amministrativa, dottor Rino Amato (pagg. 132-133-134-135-136 trascrizione udienza 17 marzo 1995). Su detta scheda, inoltre, risultava vergata l’annotazione "Conf.to con S.E. - si rinnovi", di pugno dello stesso Nicolicchia, da questi spiegata con l’esigenza di parlare di una pratica che riteneva dubbia con il Prefetto, che aveva dato il suo avallo al rinnovo.

Hanno richiamato, quindi, le giustificazioni prospettate dall’imputato alle udienze del quattro novembre 1994, dell’undici novembre 1994 e del 27 dicembre 1994, e cioè:


  • la percezione <<che c'erano stati degli interventi in Prefettura>> (pag. 156 trascrizione udienza 4 novembre 1994) in ragione della elevatissima posizione sociale del Vanni Calvello, esponente di una famiglia talmente blasonata da ospitare a pranzo, nel proprio palazzo di Palermo, la Regina di Inghilterra proprio alla fine di ottobre del 1980;

  • la scelta di attendere gli sviluppi di eventuali indagini (in concreto non intervenuti tra il marzo e l’ottobre 1980) senza mettere in allarme, con un diniego di rinnovo, il Vanni Calvello, nei cui riguardi il titolo di Polizia avrebbe potuto comunque essere revocato in qualsiasi momento;

  • la difficoltà di mettere a fuoco una posizione che, pur essendo negativamente connotata dalle cointeressenze in affari con Francesco Di Carlo, indiziato di appartenere ad una vasta associazione a delinquere di stampo mafioso dedita al traffico internazionale di stupefacenti, riusciva difficile inquadrare nel programma associativo, dati l’ambiente sociale e le ricchezze familiari del Vanni Calvello (pagine 16-17 trascrizione udienza 11 novembre 1994);

  • la considerazione che, in ogni caso, tutti gli atti ed i documenti riguardanti i rilasci ed i rinnovi del porto di pistola - nella specie, anche la segnalazione del 15 febbraio 1974, scaturita dalle propalazioni del pentito Leonardo Vitale, non espressamente menzionata né nella nota del 22 marzo 1980, né in quella del 16 ottobre 1980 - erano contenuti nel fascicolo 6 G (armi corte), a disposizione del funzionario chiamato ad esaminare la pratica.

I medesimi difensori, poi, hanno stigmatizzato il tenore, a loro avviso vago, generico ed evasivo, delle risposte del teste Nicolicchia, essenzialmente preoccupato di ridimensionare il suo ruolo nella vicenda.

Hanno dedotto che lo stesso Nicolicchia aveva riferito di non ricordare se Contrada gli avesse segnalato l’opportunità di rilasciare il porto di pistola al Vanni Calvello (<<Non me lo ricordo....no, non me lo ricordo". " Non ricordo questo particolare in sostanza>> ) e, alla ulteriore domanda :<<non ricorda che il dott. Contrada le abbia parlato di Vanni Calvello> aveva ribadito :<>, pagg. 137-138 trascrizione udienza 17 marzo 1995).

Nessun elemento autorizzava, poi, a ritenere cosa diversa da quanto dichiarato dall’imputato, e cioè di non avere mai conosciuto Alessandro Vanni Calvello - se non dalle carte, in quanto soggetto di interesse investigativo - e dunque di non avere mai avuto rapporti personali con lui (pagine 19-21 trascrizione udienza 11 novembre 1994).

Ciò risultava, oltretutto, dal fatto che Bruno Contrada, nel corpo del rapporto del 7 febbraio 1981, inviato alla Procura della Repubblica di Palermo ed al G.I. dott. Borsellino, avente per oggetto: " Omicidio dott. G.B. Giuliano - dirigente della Squadra Mobile di Palermo", aveva richiamato tutte le indagini svolte in precedenza dalla Squadra Mobile e dall'Arma dei Carabinieri (specificamente, Nucleo Operativo e Compagnia CC. Monreale) nelle quali potevano trovare addentellato l’omicidio di Giuliano e quello del capitano dei carabinieri Emanuele Basile, ed in tale contesto aveva inserito tutti i riferimenti sull'attività e sui rapporti del Vanni Calvello con i mafiosi di cui si trattava, così come emersi dalle indagini sino a quel momento svolte dalla Squadra Mobile e dai Carabinieri.

Con la nota del 18 ottobre 1980, dunque, l’imputato aveva ritenuto, <
> (pagine 61-62 Volume 15 Motivi Nuovi).

Secondo i difensori appellanti, in definitiva, Il Tribunale aveva operato una inversione logica, assumendo a presupposto dogmatico la collusione mafiosa del dott. Contrada per giungere alla conclusione che il funzionario avesse espresso il parere del 18 ottobre 1980 appunto perché colluso.

Quel giudice, infine, aveva operato una forzatura affermando che il “favoritismo” ritenuto a carico di Contrada aveva riguardato < <un soggetto gravemente indiziato di appartenenza alla mafia e successivamente condannato con sentenza irrevocabile per associazione mafiosa>> (pag. 1397 della sentenza appellata).

Ed infatti, gli elementi puntualmente riferiti all'Autorità giudiziaria in vari rapporti della P.S. e dell'Arma non erano stati ritenuti sufficienti a procedere nei confronti del Vanni Calvello, tanto è vero che il suo nominativo non era stato inserito nel mandato di cattura n° 274/81 R.M.C., emesso il 27 giungo 1981 dal G.I. dr. Paolo Borsellino, per associazione per delinquere e per altri gravi reati, a carico di 15 soggetti indicati nel menzionato rapporto, tra cui Francesco Di Carlo, menzionato nella nota del22 marzo 1980 e nel parere favorevole del 18 ottobre 1980 come socio di fatto dello stesso Vanni Calvello nella conduzione del complesso bar - night club - ristorante “Il Castello”.

Soltanto tre anni dopo, e cioè il 24 ottobre 1984, era stato spiccato nei suoi confronti il mandato di cattura n° 361/84 dell'Ufficio Istruzione di Palermo per associazione per delinquere di stampo mafioso e ciò, evidentemente, perché soltanto allora era stato possibile acquisire a suo carico elementi tali da poterlo ritenere e dichiarare responsabile di siffatto reato.

****


Al pari della vicenda relativa alla telefonata ed all’incontro del 7 ottobre 1983 con Antonino Salvo, anche quella in esame, ad avviso di questa Corte, si connota per alcuni aspetti che ridondano a favore dell’imputato e che, quindi, la privano di una carica indiziaria autonomamente apprezzabile.

Innanzitutto, la comunicazione del 22 marzo 1980 con cui Bruno Contrada segnalò alla Divisione di Polizia Amministrativa della Questura di Palermo che Alessandro Vanni Calvello aveva formato <<di recente argomento di particolare interesse investigativo nel quadro delle indagini svolte su un gruppo di mafia costituito da elementi di Palermo, Corleone ed Altofonte>>, non fu necessitata ed ineludibile.

L’imputato, infatti, trasse un mero spunto per effettuarla dalla risposta data alla Criminalpol di Roma circa le telefonate intercettate tra Erasmo Victor Gambino e Pietro Vanni Calvello, funzionale alle indagini che, sulla vicenda Sindona, stava ancora svolgendo l’Autorità Giudiziaria romana.

Lo stesso contenuto della nota del 22 marzo 1980, del resto, non denota in alcun modo il proposito di oscurare o minimizzare le acquisizioni investigative nei riguardi di Alessandro Vanni Calvello, all’epoca costituite dagli esiti delle indagini condotte dalla Compagnia dei Carabinieri di Monreale.

Dall’excursus delle investigazioni condotte dal capitano dei carabinieri Emanuele Basile sui fratelli Di Carlo di Altofonte e sui loro legami associativi con la “famiglia” di Corso dei Mille - excursus rappresentato nel rapporto giudiziario del 7 febbraio 1981 sull’omicidio Giuliano - si evince quale fosse lo stato delle indagini nei confronti del Vanni Calvello alla data del 22 marzo 1980 (cfr. le pagine 38-39 del rapporto) :

<<" A questo punto e ciò premesso, è opportuno parlare di un complesso di indagini svolte dai Carabinieri.

In data 25 luglio 1979, il Cap. BASILE, comandante della Compagnia Carabinieri di Monreale, nel quadro delle indagini relative alla scomparsa dei fratelli SORRENTINO Melchiorre, nato ad Altofonte nel 1949 e SORRENTINO Salvatore, nato ad Altofonte nel 1950, dei quali non si era avuta notizia sin dal 7 luglio precedente, chiedeva alla Procura della Repubblica di Palermo, l'emissione di provvedimenti tendenti ad accertare la consistenza patrimoniale e le disponibilità bancarie delle seguenti persone: i fratelli DI CARLO Francesco, Giulio ed Andrea, nati rispettivamente in Altofonte, nel 1941, nel 1955 e nel 1945; i fratelli GIOE' Antonino e Gaspare, nati ad Altofonte rispettivamente nel 1948 e nel 1949, MARCHESE Antonino, nato a Palermo nel 1957 (GIOE' Antonino e MARCHESE Antonino erano i due del "covo" di Via Pecori Giraldi); VANNI CALVELLO MANTEGNA Alessandro, nato a Palermo nel 1939; LONIGRO Giuseppe, nato adAltofonte nel 1939 ed altri.

Motivava la richiesta assumendo di avere fondati motivi per ritenere che gli individui di cui innanzi fossero coinvolti in traffici illeciti ed in particolare in quello della droga.

Riferiva alla Procura che in San Nicola Arena (Palermo) esisteva una infrastruttura alberghiera denominata "II Castello", dove fondatamente si riteneva avvenisse lo spaccio di droga; che questa apparteneva alla società di fatto costituita da VANNI CALVELLO MANTEGNA Alessandro ed i fratelli DI CARLO ed ancora che presso detto "Castello", negli anni dal 1976 al 1978 avevano lavorato alle dipendenze dei fratelli DI CARLO e del VANNI CALVELLO MANTEGNA, asseritamente quali camerieri, ma in realtà, quali uomini di fiducia dei titolari della predetta infrastruttura, i nominati G10E ' Antonino e GIOE ' Gaspare>>.

Orbene, non è emerso in alcun modo che avesse avuto un seguito - nell’interregno tra la nota del 22 marzo 1980 ed il parere del 18 ottobre 1980 a firma Contrada, favorevole al rinnovo del porto di pistola - la richiesta del Capitano Basile, rivolta alla Procura della Repubblica di Palermo, di provvedimenti tendenti ad accertare la consistenza patrimoniale e le disponibilità bancarie, tra gli altri, di Alessandro Vanni Calvello; richiesta finalizzata a rinvenire i necessari riscontri alla ipotesi investigativa che questi fosse partecipe della associazione a delinquere della quale facevano parte i fratelli Di Carlo, suoi soci di fatto nella gestione del “Castello” a San Nicola Arena.

D’altra parte, nemmeno il parere del 18 ottobre 1980 denota il proposito di oscurare o minimizzare le acquisizioni investigative nei riguardi di Alessandro Vanni Calvello, richiamate nel preambolo, ove viene sintetizzato il contenuto della nota del 22 marzo 1980 e vengono richiamati i rapporti giudiziari a firma del capitano Basile.

Esso, piuttosto, al di là del tenore asettico della sua motivazione, enuncia circostanze vere, suscettibili di autonoma valutazione: << Nel corso delle indagini svolte dalla Squadra Mobile, dalla Criminalpol e dall'Arma, nel periodo luglio 1979 - maggio 1980, in ordine ad una associazione per delinquere mafiosa composta di elementi di Altofonte - Ciaculli - S. Lorenzo - Corso dei Mille -Corleone e responsabile di omicidi, traffico droga e altri gravi reati, è stata presa in esame la posizione del nominato VANNI CALVELLO MANTEGNA Alessandro. Infatti è risultato che il predetto aveva costituito circa 5 anni fa una società di fatto per la gestione di un complesso denominato "II Castello" a S. Nicola L'Arena (bar - night club - ristorante), con DI CARLO Francesco, pregiudicato, mafioso, in atto latitante.



E' da rilevare che il VANNI CALVELLO è proprietario dell'immobile in cui è installato il complesso in argomento.

Allo stato delle indagini non sono emersi elementi tali da far ritenere una corresponsabilità del VANNI CALVELLO sulla attività delittuosa del gruppo di cui fa parte il DI CARLO Francesco, sia a livello di partecipazione attiva che di favoreggiamento.

I fatti sono stati riferiti alla Autorità Giudiziaria con i rapporti giudiziali del 25/10/1979 della Squadra Mobile e del 6/2/1980 della Compagnia CC. Di Monreale.

Ciò stante, questo Ufficio esprime parere favorevole al rinnovo della licenza di porto di pistola>>.

Il Tribunale (pagine 1389-1390 della sentenza appellata) ha osservato che l’imputato sarebbe entrato in contraddizione con se stesso:



  1. affermando, nel corso del suo esame, all’udienza del 4 novembre 1994, che il rinnovo del porto di pistola era sottoposto a rigide disposizioni ministeriali per le quali era necessario provare “ l’assoluta necessità di circolare armati” (cfr. ff. 144 e 145 della trascrizione), e però determinandosi in senso contrario con il parere favorevole;

  2. formulando tale parere in contrasto con il comportamento che aveva adottato nel 1974, quando egli era ancora un funzionario fedele, richiamando l’attenzione degli uffici di Polizia Amministrativa sulle dichiarazioni rese dal pentito Leonardo Vitale sul conto di Alessandro Vanni Calvello perché assumessero le determinazioni di loro competenza sui titoli di Polizia in possesso dello stesso Vanni Calvello.

In realtà, le disposizioni ministeriali di Polizia Amministrativa erano suscettibili di cedere il passo a valutazioni di opportunità investigativa, se è vero, come è vero, che, a fronte della nota del 22 marzo 1980, di segno certamente non favorevole al Vanni Calvello, il Questore Immordino aveva ritenuto opportuno non adottare immediatamente un provvedimento di revoca del porto di pistola.

Analogamente, la omessa menzione delle rivelazioni fatte dal mafioso Leonardo Vitale nel 1973 - notoriamente, peraltro, rivalutate soltanto nei primi anni ottanta del novecento - è un dato comune alla nota del 22 marzo 1980, non imposta a Contrada e non favorevole al Vanni Calvello, ed al parere favorevole del successivo 18 ottobre. Senza dire che la segnalazione di esse, fatta dall’imputato il 15 febbraio 1974 alla Divisione di Polizia Amministrativa per le eventuali determinazioni sul porto d’armi, era comunque agli atti del fascicolo 6 G (armi corte), a disposizione del funzionario chiamato ad esaminare la pratica, qualora la si fosse davvero voluta esaminare.

I margini di incertezza sulla effettiva valenza indiziante della vicenda si delineano, infine, anche alla stregua delle risposte date in sede di esame dall’ex Questore Giuseppe Nicolicchia, la cui deposizione è stata ricostruita dal Tribunale nei termini che seguono: (pagine 1385-1386 della sentenza appellata): << Escusso all’udienza del 17/3/1995 il questore dell’epoca Giuseppe Nicolicchia, ha dichiarato che la nota del 18/10/1980, a firma del dott. Contrada, gli era stata, con certezza, consegnata personalmente dal dott. Contrada (ed infatti la nota di ricevimento in data 21/10 era stata personalmente apposta dallo stesso Questore quando Contrada gliela aveva consegnata - cfr. f. 165 ud. 17/3/1995); ha ricordato che il dott. Contrada aveva proposto il rinnovo ma, poichè egli aveva avuto delle perplessità, “ si trattava di un caso un pò dubbio”, aveva deciso di sottoporlo anche all’attenzione del Prefetto dell’epoca, dott. Di Giovanni (da qui l’annotazione apposta al provvedimento di rinnovo relativa al colloquio avuto con S.E. il Prefetto); questi aveva convenuto che, sulla base della nota redatta il 18/10/1980 dalla Criminalpol, si poteva senz’altro concedere il rinnovo e che un rifiuto, secondo la prospettata esigenza di polizia, avrebbe potuto intralciare le ulteriori indagini sul conto del Calvello; il teste ha dichiarato, altresì, che era al corrente del fatto che all’epoca vi erano indagini in corso sul predetto Calvello e che per prassi l’esame delle pratiche relative a rilasci o rinnovi di porti d’arma era demandato all’ufficio di Questura della III° Divisione; solo se si trattava di pratiche di un certo rilievo il predetto ufficio non si assumeva la responsabilità di adottare un provvedimento ma lasciava che fosse il vice-questore o direttamente il Questore ad assumere la decisione (“ è evidente che trattandosi di una figura un po' losca, visto e considerato le informazioni che c’erano, il dirigente la III° Divisione, che mi ha sottoposto all’esame questa pratica, non ha voluto siglarla ” cfr. f. 141 ud. cit.); alla specifica domanda, posta reiteratamente dalla difesa, tendente ad accertare se il dott. Contrada gli avesse segnalato Vanni Calvello ha risposto: “ Non me lo ricordo...Domanda: “ non se lo ricorda o lo esclude? Risposta: “ non ricordo questo particolare in sostanza” (cfr. ff. 131 e ss. ud. 17/3/1995)>>.

Giova precisare che le risposte appena menzionate sono scaturite dalle domande rivolte dal presidente del collegio a conclusione dell’esame, quando al teste è stato sottoposto in visione il parere del 18 ottobre 1980 a firma dell’imputato. Il dott. Nicolicchia, riconoscendo la sigla personalmente apposta in calce ad esso, ha plausibilmente dedotto che il documento gli fosse stato personalmente portato da Contrada.

Il teste, tuttavia, in più occasioni (pagine 137, 138 e 165 trascrizione udienza 17 marzo 1995) ha ribadito di non ricordare se l’imputato avesse detto più di quanto scritto nel parere del 18 ottobre 1980, cioè se avesse caldeggiato l’opportunità di non negare il rinnovo del porto di pistola al Vanni Calvello.

Né è certo che l’imputato fosse stato, come si assume a pag. 1398 della sentenza appellata, l’evidente ispiratore dello schema, poi trasfuso nel provvedimento di rinnovo a firma del Questore, che lo stesso Nicolicchia ha riferito essere stato predisposto dal dirigente la Divisione di Polizia Amministrativa, il dottor Rino Amato.

Non si può escludere, cioè, che il parere favorevole di Contrada fosse dipeso dall’idea che la licenza dovesse essere comunque rinnovata per il rango sociale e la benevolenza di cui godeva il suo titolare, pur sussistendo fondati elementi di sospetto della sua qualità di associato mafioso.

Ed infatti, la circostanza che il Questore Nicolicchia ritenne di annotare la positiva indicazione del Prefetto (nel provvedimento acquisito al fascicolo della Prefettura, sopra la decisione di rinnovo, apposta con scrittura autografa del questore risulta anche l’annotazione“ Conferito con S.E) può spiegarsi con il gradimento del Prefetto, che Contrada ha dichiarato di avere percepito. È sintomatica, del resto, l’estrema celerità con cui il Questore dispose il rinnovo della licenza, recante la data il 22 ottobre 1980, e cioè appena il giorno successivo data di ricevimento del parere positivo del 18 ottobre 1980.

Tale ipotesi ha anche trovato un pur tenue riscontro nelle dichiarazioni rese nel primo dibattimento di appello, all’udienza del 6 febbraio 1999, dal collaboratore di giustizia Francesco Di Carlo, il quale ha riferito (pagine 76-77 della trascrizione) che i Principi di San Vincenzo avevano “amicizie in prefettura” e che, in particolare, un viceprefetto era solito frequentare l’abitazione di Vincenzo Vanni Calvello, padre di Alessandro.

Tenuto conto, dunque, della circostanza che la scelta di non ostacolare le indagini in corso su Alessandro Vanni Calvello non appariva pretestuosa; del riscontro di un preciso interessamento “dall’alto” ad un esito favorevole della pratica, tale da influenzare le determinazioni di Contrada; del fatto che il parere del 18 ottobre 1980, nelle sue premesse, enuncia circostanze per sé idonee a giustificare il diniego di rinnovo del porto di pistola; della natura del dolo richiesto ad integrare l’elemento soggettivo del concorso esterno in associazione mafiosa, dolo necessariamente diretto (nella specie, cioè, occorreva la prova che Contrada sapesse più di quanto non avesse scritto nelle note del marzo e dell’ottobre 1980 circa la posizione di Alessandro Vanni Calvello), non è dato ravvisare una sufficiente prossimità logica e nitidezza di contorni necessari ad attribuire alla vicenda in esame i caratteri della gravità e della precisione indiziaria.

CAPITOLO XXII
Le dichiarazioni rese dal collaboratore di giustizia Angelo Siino
Il profilo del collaboratore di giustizia Angelo Siino ed il contenuto delle sue dichiarazioni, rese alle udienze del 4 dicembre 1999 e del 13 dicembre 1999, sono stati così delineati alle pagine da 104 a 107 della sentenza della Corte di Appello di Palermo, sezione II penale, in data del 4 maggio 2001, annullata in sede di legittimità:

<tutto e tutti, non esclusi i suoi esponenti più prestigiosi, ad eccezione di Salvatore Riina, sino a ricevere l’incarico di provvedere alla fraudolenta distribuzione degli appalti [di opere pubbliche, n.d.r.] (f. 9 verbale 4 dicembre).

Si è vantato dell’amicizia con Stefano Bontate, da lui conosciuto nel 1968 in occasione della celebrazione di un dibattimento nel quale era imputato il proprio suocero Giuseppe Bertolino, successivamente entrato in confidenza con lui, anche per ragioni della comune passione per la caccia e per l’automobilismo.

Ha chiarito che nell’anno 1980 aveva dovuto allontanarsi da Palermo trasferendosi a Catania dove era rimasto fino al 1984, intrattenendo rapporti di affari con Nitto Santapaola, specificando di essere stato obbligato al trasferimento da Stefano Bontate che era rimasto molto irritato per via di una sua relazione con la moglie di un funzionario di polizia (f. 18 verb. trascr. citata).

Dopo il suo rientro in Palermo aveva continuato ad occuparsi di politica e della conduzione di affari concernenti il settore delle costruzioni edili in cui era interessata “cosa nostra”, e ciò sino al 1991, data del suo arresto.

Circa le proprie conoscenze sulla personalità del dott. Contrada ha esordito premettendo che in base a personali esperienze aveva ricavato il convincimento della diffusa consuetudine di appartenenti alle forze dell’ordine di mantenere contatti con elementi della criminalità, anche se ricercati; al riguardo ha fatto l’esempio del mar.llo CC. Giuliano Guazzelli e del Ten. Col. CC. Giuseppe Russo: quest’ultimo si era premurato di munire lui stesso ed il Bontate di un documento che aveva personalmente formato per abilitarli al porto di pistola (f.56 verb. trascr. citata) e non si era fatto scrupolo di metterli al corrente delle indagini che svolgeva per la identificazione degli autori del sequestro Corleo, fino al punto di consentire loro di ascoltare la registrazione di una delle telefonate che erano state effettuate nel contesto della anzidetta operazione criminale (…)

Il Siino ha riferito pure che una volta mentre si recava da Stefano Bontate in compagnia del Russo, in quell’epoca ancora capitano, si erano imbattuti in un’auto che usciva dal caseggiato ove il capomafia soleva tenere incontri riservati e l’ufficiale era rimasto contrariato nell’accorgersi che a bordo del veicolo vi era il dott. Contrada, tant’è che aveva commentato, alludendo al comportamento del Bontate: Ma che fa?…O me, o lui!.

Soggiungeva di essere consapevole, come lo era Bontate, del rapporto di assidua frequentazione tra il dott. Contrada e Rosario Riccobono e precisava che una volta li aveva visti lui stesso assieme nella villa del principe Scalea; altre volte ancora li aveva incontrati nelle periodiche mangiate pre-elettorali organizzate dal suo amico Pippo Insalaco alle quali intervenivano anche elementi mafiosi, [nell’evidente ruolo di grandi elettori, n.d.r.] oltre a magistrati (il dott. Signorino ) ed altre personalità; ciò avveniva a metà degli anni ’76 (cf. verb. trascr. ff. 57, 60 e 76).

Circa i favori che potevano essere richiesti dai mafiosi ai loro amici appartenenti alle forze dell’ordine rammentava, oltre al rilascio da parte del cap. Russo del c.d. “porto d’armi”, l’intervento del dott.Contrada per il porto di fucile in favore di tale Lo Verde, menomato della vista perché privo di un occhio, la revoca della diffida che il vice questore De Francesco aveva ottenuto per Totò Greco, con l’occasione soggiungendo che lo stesso funzionario soleva mandargli ogni anno la licenza per porto di pistola.

Infine chiariva che Stefano Bontate gli aveva raccomandato di non parlare con Contrada perché costui era uno sbirrazzo (f.49 e 79 verb. trascr. 13 dicembre 1999)>>.

Ha soggiunto la Corte di appello :<>.

*****

Ai fini di una più compiuta valutazione della generale credibilità di Angelo Siino - ad integrazione delle indicazioni contenute nella sentenza della Corte di Appello di Palermo del 4 maggio 2001 - giova precisare che il predetto ha motivato la propria determinazione a collaborare, maturata l’undici luglio 1997 dopo il suo secondo arresto, con l’esigenza di <<fare chiarezza su quello che effettivamente era stato il suo ruolo>>, di sottrarsi alle pressioni estorsive che ormai lo <<asfissiavano>> e di sottrarre il figlio, anch’egli arrestato, all’ambiente in cui, per causa sua, si era trovato (pagine 22-24 trascrizione udienza 13 dicembre 1999).



Lo stesso Siino ha precisato di avere riportato condanna con sentenza definitiva per associazione a delinquere di stampo mafioso, in relazione al suo ruolo della distribuzione dei pubblici appalti (pag. 5 trascrizione udienza 4 dicembre 1999)86. In ragione di tale ruolo aveva iniziato ad occuparsi <<di affari di Cosa Nostra>> a partire dal 1986 e sino al 1991 (ibidem, pag. 14), intrattenendo rapporti diretti con tutti i capi mafia della Sicilia a livello provinciale ed i capi mandamento della provincia di Palermo.

Prima di allora, egli aveva convissuto con Cosa Nostra <<per problemi geografici, logistici e di parentela>>, essendo originario di San Giuseppe Jato, <<un paese che viveva di pane e mafia>> (ibidem, pag. 8), oltre che parente di Salvatore Celeste - già capo della famiglia mafiosa di San Cipirrello - ed imprenditore nel settore delle costruzioni.

Nell’ambito della sua attività d’impresa, aveva avuto contatti per ragioni di lavoro con mafiosi che facevano gli imprenditori edili ovvero operavano nell’indotto dell’imprenditoria edile, come Inzerillo, Di Maggio e Riccobono (ibidem, pag. 20).

Dalle indicazioni offerte dal collaborante si evince che la sua generale credibilità, con riguardo agli anni in cui si collocano le circostanze concernenti la posizione dell’imputato, non si ricollega ad una compenetrazione con il sodalizio mafioso (e dunque alla capacità di conoscerne dall’interno i segreti e di svelarli), bensì al rapporto personale con Stefano Bontate. Ha riferito di conoscere quest’ultimo, di vista, sin da ragazzino, per la frequentazione del padre Francesco Paolo Bontate con Salvatore Celeste e di averlo nuovamente incontrato a Catanzaro, nel processo nel quale lo stesso Francesco Paolo Bontate era imputato unitamente a Giuseppe Bertolino, suocero di esso collaborante87.

L’affermazione dell’esistenza di questo rapporto è stata suffragata da svariati riscontri.

Della passione per le automobili di Angelo Siino ha riferito, nel corso del suo esame, il colonnello Salvatore Pernice, primo dirigente medico della Polizia di Stato, il quale ha dichiarato di avere conosciuto il collaborante per la loro comune partecipazione a gare automobilistiche tra il 1977 ed il 1978, cui il Siino partecipava con il soprannome di “Bronson”.

Che questa passione fosse comune anche Stefano Bontate è risultato da numerose emergenze.

A questo riguardo, basta ricordare che il teste Calogero Adamo, concessionario Alfa Romeo e Ferrari, all’udienza del 25 ottobre 1994 ha descritto Stefano Bontate come <<Un ottimo cliente, un grande conoscitore di macchine, interessato a macchine sempre veloci, belle>>; lo stesso Stefano Bontate, il 29/4/1975, epoca in cui risultava dimorante obbligato nel comune di Cannara (prov. Perugia), era stato sorpreso e tratto in arresto sull’autostrada del Sole, nei pressi del Comune di Scandicci (Firenze), a bordo di un’autovettura “Porsche” intestata al proprio fratello Giovanni in compagnia del mafioso Salvatore Scaglione ed in possesso di una patente di guida falsificata.

Parimenti provata è la comune appartenenza alla massoneria del Siino e del Bontate.

Quella del Bontate è stata oggetto delle propalazioni dei pentiti Spatola e Pennino (il Siino ha confermato l’indicazione del Pennino secondo cui il Bontate era affiliato alla Loggia segreta “dei trecento”)88, mentre l’affiliazione del Siino alla loggia Orion della Camea è stata riferita dal capitano dei Carabinieri Luigi Bruno - già in forza al centro operativo di Palermo della D.I.A. - all’udienza del 12 ottobre 1995 (pag. 116 della trascrizione).

Non altrettanto positiva, ad avviso di questa Corte, è risultata la verifica della attendibilità intrinseca delle dichiarazioni di Angelo Siino, che, talora contraddittorie o ambigue, non hanno soddisfatto in tutti i loro aspetti i necessari requisiti di precisione, costanza e coerenza.

Ed invero, il collaborante ha riferito di avere personalmente constatato la presenza dell’odierno imputato in occasione di banchetti o “mangiate” pre-elettorali cui partecipavano personalità pubbliche e mafiosi di spicco.

Il Procuratore Generale gli ha chiesto se, in tali occasioni, avesse mai visto i mafiosi Salvatore Scaglione e Salvatore Inzerillo insieme a Contrada ed egli ha risposto di no (pag. 57 trascrizione udienza 4 dicembre 1999), ribadendo << che io sappia, cioè che abbia visto io, mai>> (ibidem, pag. 59).

Gli è stata, dunque contestata la dichiarazione di segno opposto, resa ai Pubblici Ministeri Caselli e Prestipino Giarritta il 19 agosto 1997 <<…un altro con cui aveva cose (Contrada, ndr.) era con Totò Scaglione. Con Toti Scaglione, Toti u’ pugile, con questo io l’ho visto parecchie volte de visu, de visu, questo,in questi convivi dove c’era anche il giudice buonanima , quello che è morto, come si chiama? Quello che si è suicidato? Signorino>> (ibidem, pag. 80).

A tale, doverosa contestazione il collaborante ha, sulle prime, fornito una spiegazione involuta e contorta, basata su una sorta di proprietà transitiva: poiché Scaglione era persona molto vicina a Rosario Riccobono e Bontate sosteneva che questi fosse un confidente di Contrada, egli aveva ritenuto che Scaglione e l’imputato si fossero visti ( <<PG dott. Gatto:..e ci vuole chiarire per piacere questo contrasto?

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