MERCOLEDÌ 13 - Fa un po’ meno freddo quest'oggi. Stamani mattina sono partiti per il lavoro Capone, Anastasi, Farina e Raimondi: la compagine della vecchia camerata continua a sgretolarsi. Siamo rimasti solo in 18 dei vecchi. Capo camerata il Cap. Cartinovis, un buon uomo che speriamo, sarà un po' più intelligente del vecchio. Dopo l'appello mi lavo, sgrano le patate calde e vado ad ascoltare la lezione di letteratura italiana.
Due passi all'aperto, preparo i panni per lavare, poi me ne vado al cinema. Ci fanno vedere un filmetto che sa di poco, ma basta per ricordarci un tempo migliore e per distrarci dall'amara contingenza della vita quotidiana. Al ritorno mangio la sboba di rape (acqua). Mario ha ricevuto una lettera dai suoi che si sono trasferiti a Verona. Dopo l'appello mangio il pane (in 5) e la margarina, poi a letto perché i piedi cominciano a congelarsi.
GIOVEDÌ 14 - Giornata freddissima. Ho ascoltato un convegno sul tema: Aspetti del problema religioso. Non sono restato molto soddisfatto. Al ritorno mangio le patate. Sboba di rape, schifosa.
Vado a lavare e al ritorno mi sbafo anche il pane e la margarina. Dopo l'appello sono stato chiamato insieme a Mario, a Renzo ed altri e comandato per il lavoro. Siamo in 16. Lavoro di meccanica leggera nei pressi di Amburgo. Quindi stasera bufera su tutta la linea.405
VENERDÌ 15 - Fa ancora molto freddo. Non c’è nulla da fare e dovremo rassegnarci a partire. Consegno intanto scarpe e stivali per la riparazione. Patate subito divorate. “Allarmi”. Pane e ricotta. Solita sboba di rape. Danno finalmente la marmellata (100 gr.) e lo zucchero. Dopo l'appello si fa la parca cenetta e ce ne andiamo a letto.
SABATO 16 - Freddo cane. Renzo forse riesce a svignarsela. Beccano continuamente altre persone. Rape alla mano e patate. Sono di servizio. Pane e margarina. Solita sboba di rape, schifosissima. Tutti fuori dopo la sboba. In camerata c’è un fumo che fa lacrimare gli occhi.
Il giorno dopo ci trasportano ad Amburgo
dove resto fino al Luglio 1945
Scrivo queste note sull'ultima pagina utile del quaderno, poi, senza carta sono costretto ad interrompere il diario.
Il 17 gennaio 1945, di buon mattino, dopo un breve preavviso, ci radunano nel piazzale del campo (siamo circa trenta ufficiali), ci caricano su un automezzo, ci trasferiscono alla stazione e, con un treno merci, ci portano ad Amburgo.
Siamo alloggiati al secondo piano (al primo ci sono prigionieri rumeni) di un edificio mezzo diroccato, situato nella zona portuale, su una piccola isola in mezzo al fiume Elba che attraversa la città. Restiamo là un paio di mesi, quindi, a seguito di un bombardamento che rende l'edificio completamente inagibile, ci trasferiscono in una zona periferica (Bahrenfeld) della città, dove siamo rimasti fino alla fine della guerra.
Ad Amburgo le giornate sono dure; ci svegliano alle cinque e ci portano ai cantieri navali Bloom und Foss, destinati a scaricare pesanti lungarine di ferro dagli autocarri; alle diciotto ci riportano ai nostri alloggiamenti. Sono ben dodici ore di lavoro massacrante, col solo intervallo di mezz'ora per la “sboba”. La fatica è veramente insopportabile, sia perché non siamo abituati a lavori materiali sia per le precarie condizioni fisiche in cui ci troviamo.
Fortunatamente, una imprevista slogatura al polso della mano destra e un medico comprensivo mi consentono di sottrarmi, per un mese circa, a quel supplizio. Quando riprendo il lavoro il conflitto volge al termine e la prospettiva della imminente disfatta provoca un generale rallentamento della vigilanza. Così, assieme ad un simpatico prigioniero marocchino, riusciamo a costruirci un nascondiglio dove trascorriamo la maggior parte della giornata chiacchierando (in francese) e facendo progetti per il futuro.
Finita la guerra, gli inglesi occupano Amburgo e costringono i tedeschi ad aumentarci la razione viveri. Con le sigarette americane che ci distribuiscono, compriamo un po' di pane al mercato nero e così riusciamo a sbarcare il lunario, in attesa dell'agognato rimpatrio. Alla fine di giugno, finalmente si parte. Gli inglesi ci caricano su un autocarro accompagnati dalle frustate di un diabolico sergente che detesta gli italiani. Ci mettono su una tradotta, ci danno qualche galletta (razione per due giorni) e ci lasciano soli senza nessuna scorta. La tradotta viaggia, con continue, lunghe soste, per dieci giorni e dieci notti finché attraversiamo il confine e ci fermiamo a Verona (Pescantina). La Croce Rossa ci rifocilla con il primo pasto decente dopo due anni, poi il treno riparte perché deve raggiungere Bari. Io e gli amici toscani scendiamo a Bologna, compriamo il primo giornale italiano che ci capita (l'Unità), saliamo sul carro scoperto di un tremo merci e scendiamo a Firenze.
L'amico Mario Capitani mi ospita a casa sua per la notte, il giorno successivo, con un automezzo delle Ferrovie dello Stato, raggiungo Poggibonsi e riabbraccio i miei genitori e tutti i miei parenti che attendevano con ansia il mio ritorno. È la prima metà di luglio l945: l'odissea è finita.
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