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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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[23] ECKERT E. ET AL., Homosexuality in Monozigotic Twins Raised Apart, British J. of Psychiatry 1986, 148: 421.

[24] FRIEDMAN R. ET AL., Psychological Development and Blood Levels of Sex Steroids in Male Identical Twins of Divergent Sexual Orientation, J. of American Academy of Psychoanalysis 1980, 8: 427.

[25] BUBER J., BUBER T., Male Homosexuality, Canadian J. of Psychiatry 1979, 24: 409.

[26] MCINTOSH H., Attitudes and Experience of Pschoanalysists, Journal of American Psychoanalytic Assoc. 1994, 42: 1183.

[27] NICOLOSI J. ET AL., Toward the Ethical and Effective Treatment of Homosexuality, NARTH 1998.

[28] SATINOVER J., Homosexuality and the Politics of Truth, , Grand Rapids: Baker Books, 1996.

[29] SPITZER R., Communication, NARTH, 2000.

[30] BRIND J. ET AL., Induced Abortion and the Risk of Breast Cancer, N. Eng. J. Med 1997, 336: 1834.

[31] REDFIELD R., comunicazione personale, 1999.

ROBERTO COLOMBO
I SOGGETTI PIU VULNERABILI DELLA RICERCA BIOMEDICA

Il caso dell'embrione umano

La maggior parte delle ricerche biomediche presenta delle incertezze circa gli effetti degli agenti impiegati,gli interventi eseguiti e le loro conseguenze sui soggetti di ricerca. Per questa ragione tutti i partecipanti agli studi sperimentali sono di principio vulnerabili. Il mito degli "studi clinici esenti da rischio" è stato da tempo demolito e la categoria degli "studi a rischio minimo", che lo ha sostituito, non risulta di facile definizione ed applicazione.[1] La vulnerabilità è considerata un'espressione universale della condizione di limitatezza dell'uomo che caratterizza la sua esistenza terrena dal principio sino alla morte, e «la particolare vulnerabilità dei soggetti di ricerca»[2] è stata da lungo tempo riconosciuta. Tuttavia, «le condizioni e le circostanze da cui origina la vulnerabilità sono state messe a fuoco solo molto recentemente».[3] Il termine "vulnerabilità" deriva dal latino vulnus, una ferita che può guarire o risultare anche mortale. Similmente, l'uso contemporaneo del termine si riferisce a «uno stato di esposizione e di incapacità a resistere al danno, alla malattia, alla lesione, all'insulto, alla debolezza o alla tentazione».[4] Nel presente contesto, per vulnerabilità si intende la condizione di alcuni individui – intrinseca o situazionale – che li espone ad un rischio maggiore di venire arruolati in un progetto di ricerca eticamente scorretto.

A ben vedere, il concetto di vulnerabilità orienta in due direzioni. Da una parte, la vulnerabilità costituisce una debolezza che caratterizza il soggetto stesso: «uno stato di assenza di protezione o di particolare esposizione nei confronti di qualcosa di nocivo o che risulti comunque indesiderabile».[5] D'altra parte, il termine ci ricorda che esistono persone «che sono disposte a trarre profitto da tale debolezza»,[6] sfruttando (intenzionalmente o negligentemente) questa opportunità ed avvantaggiandosi in modo disonesto a detrimento del soggetto. Nella maggior parte delle ricerche e delle situazioni cliniche, i soggetti possono risultare vulnerabili sia in conseguenza della loro limitata capacità di decidere (come nel caso dei bambini e degli adulti con disabilità mentale) o di attuare una decisione (come nel caso dei prigionieri), sia perché sono particolarmente esposti al rischio di sfruttamento (soggetti il cui status morale non è adeguatamente riconosciuto o protetto in un certo ambiente di ricerca o nella società). Un resoconto completo della vulnerabilità nella ricerca biomedica dovrebbe considerare entrambe le tipologie, la seconda delle quali risulta connessa al concetto di sfruttamento.

Al pari della vulnerabilità, lo sfruttamento è diventato in tempi recenti una questione accesa nell'ambito dell'etica della ricerca.[7] Tuttavia, il concetto di sfruttamento non è esente da alcune ambiguità che richiedono una chiarificazione nel contesto della ricerca biomedica. Secondo Ruth Macklin, mentre «nessuno è a favore dello sfruttamento» e «risulta facile raggiungere un accordo su questo punto [...], il consenso svanisce quando si esaminano le diverse posizioni nei casi specifici».[8] In un recente saggio,[9] David Resnik ha fornito un'analisi ragionata dello sfruttamento (in generale) e ha applicato questa analisi ad alcuni contesti della ricerca biomedica. L'Autore sostiene che non tutta la "ricerca sfruttativa" risulta eticamente inaccettabile: uno studio può apparire prima facie come uno sfruttamento, ma essere moralmente giustificato in alcune situazioni. Perciò, «qualificare uno studio come sfruttamento non risolve definitivamente le questioni circa la moralità dello studio» stesso.[10] Tuttavia, occorre considerare che «esistono atti che, per se stessi e in se stessi, indipendentemente dalle circostanze, sono sempre gravemente illeciti in ragione del loro oggetto».[11] Questi atti includono «tutto ciò che è contro la vita stessa, come ogni specie di omicidio, il genocidio, l'aborto, l'eutanasia e lo stesso suicidio volontario; tutto ciò che viola l'integrità della persona umana, come le mutilazioni, le torture inflitte al corpo e alla mente, gli sforzi per violentare l'intimo dello spirito»; e «tutto ciò che offende la dignità umana» e tratta gli individui «come semplici strumenti di guadagno, e non come persone libere e responsabili».[12] Ogniqualvolta lo sfruttamento di un soggetto di ricerca comporta un atto che attenta alla sua vita, alla sua integrità ed alla sua dignità umana, o tratta il soggetto semplicementecome mezzo, e non allo stesso tempo come un fine in se stesso,[13] nessuna circostanza clinica o intenzione terapeutica può “trasformare un atto intrinsecamente disonesto per il suo oggetto in un atto "soggettivamente" onesto o difendibile come scelta”.[14]



L'analisi dello sfruttamento è stata condotta da vari autori a partire da fondamenti differenti. Esistono valutazioni dello sfruttamento che si rifanno alla dottrina kantiana, altre a quella del libero arbitrio o alla teoria marxista, ma non sono le sole.[15] Sviluppando il concetto di sfruttamento iniquo di Alan Wertheimer,[16] Resnik sostiene che vi sono tre elementi di base dello sfruttamento – il danno, la mancanza di rispetto e l'ingiustizia – e che in tutti i casi di sfruttamento è coinvolto almeno uno di questi elementi.[17] Tuttavia, mentre è conveniente per scopi analitici distinguere tra differenti aspetti dello sfruttamento, in pratica tali aspetti spesso si sovrappongono ed interagiscono tra di loro. Inoltre, vi sono diversi gradi di sfruttamento, che variano da atti gravissimi, quali la pratica della schiavitù o il commercio di organi umani,a situazioni di sfruttamento più contenuto, come il coprirsi della gloria altrui o usare per scopi di ricerca, senza il consenso specifico del paziente, dei campioni di sangue in esuberanza. Poiché la ricerca biomedica si accompagna spesso ad una somma di benefici e di danni per i soggetti, le situazioni possono risultare ancora più complesse. Nel caso di un protocollo clinico non strettamente terapeutico, dove il rapporto beneficio/danno non risulta favorevole per il soggetto di ricerca ma lo è per altri pazienti, tale ricerca dovrebbe essere considerata uno sfruttamento? Secondo l'argomentazione di Resnik, sebbene alcune considerazioni etiche – come il consenso informato espresso dal soggetto e l'assenza di un elevato rischio di danneggiare seriamente la vita e l'integrità dello stesso soggetto – possono giustificare l'esperimento, il protocollo «è tuttavia uno sfruttamento».[18] Negli studi dai quali i singoli pazienti non possono aspettarsi un beneficio sostanziale, il dilemma morale è se il danno inferto a ciascuno di questi soggetti può essere giustificato tenendo conto dei benefici di cui godranno altri pazienti. Alcuni autori ritengono che “esistono buone ragioni per considerare tutta la ricerca come essenzialmente non-terapeutica”,[19] essendo ogni conseguenza terapeutica, considerata in riferimento a ciascun individuo che è soggetto della ricerca, una caratteristica del tutto contingente del medesimo processo di ricerca.[20] Altri obiettano che, nelle fasi avanzate dei trial clinici, la conoscenza della efficacia di un nuovo trattamento è così elevata che è molto probabile che i soggetti di ricerca ne traggano un beneficio. Il dibattito è tuttora aperto e non sarà affrontato in questa sede. Tuttavia, si può osservare come diversi autori concordino nel ritenere che, «in un contesto di ricerca, lo sfruttamento si traduce in una questione di rischi e di benefici, e non di volontarietà».[21] Perciò, le soluzioni adottate per proteggere i potenziali soggetti di ricerca dalla coercizione sono differenti da quelle necessarie per proteggerli dallo sfruttamento. Il consenso informato, sia personale che per procura, non può prevenire il possibile sfruttamento dei soggetti di ricerca.

 

 



La vulnerabilità nella ricerca biomedica

 

Il rischio è la probabilità che un danno possa verificarsi,[22] e una valutazione del rischio dovrebbe contenere dei giudizi di probabilità: «la quantificazione del rischio implica un esame sia del grado o della grandezza del danno che potrebbe manifestarsi sia della possibilità che tale danno si verifichi».[23] Un soggetto può venire danneggiato in conseguenza di una aumentata suscettibilità nei confronti di condizioni solitamente meno nocive, oppure il danno connesso alla ricerca può derivare dallo sfruttamento di una o più delle sue debolezze fisiche e non fisiche. In funzione di questo, la vulnerabilità può essere classificata sulla base della natura del danno per il quale i soggetti di ricerca sono a più elevato rischio (tipo di rischio) o in riferimento alla ragione per la quale questi soggetti sono vulnerabili (tipo di vulnerabilità).



Levine[24] ha classificato i rischi dei soggetti della ricerca biomedica in quattro categorie: fisicopsicologicosociale edeconomico. Sebbene adottata frequentemente dagli Institutional Review Board (IRB) e dagli Ethical Committee (EC), questo elenco di danni potenziali non è completo e tralascia due altri tipi di danno, di natura differente: quello legale e quello nella dignità. Le sei categorie non si escludono reciprocamente e più di un tipo di danno può essere presente in un determinato studio. I termini danno("harm") e lesione("injury") hanno acquisito un significato distinto nel diritto, ma, coerentemente con altri saggi,[25] saranno in seguito usati scambievolmente per quanto concerne gli aspetti etici della vulnerabilità.

danni fisici si estendono fino a comprendere, da un lato, la morte, la menomazione dello sviluppo e la lesione permanente, e, dall'altro, uno stato temporaneo di malattia, dolore o disagio.[26] I danni psicologici includono la percezione negativa di sé da parte del partecipante alla ricerca, la sofferenza emotiva, e le aberrazioni cognitive e comportamentali.[27] I danni sociali si riferiscono agli effetti negativi sulle relazioni familiari e sociali del soggetto. Gli esempi comprendono il rischio di stigmatizzazione in conseguenza del risultato positivo di un test per l'HIV[28] o il rischio che alcuni studi genetici possano escludere una paternità.[29] I danni economici derivano dall'onere, a carico dei partecipanti ad una ricerca, di costi finanziari (o dei loro equivalenti in termini di tempo e di lavoro) non rimborsati o sottostimati.[30]Danni legali possono sopravvenire nel corso di studi sul possesso e l'uso illegale di alcune sostanze, sugli abusi sessuali o fisici, o su altri tipi di comportamenti perseguibili.[31]

Una particolare attenzione dovrebbe essere riservata ai cosiddetti danni alla dignità, cioè le ingiurie che un soggetto può subire nella sua dignità umana durante le fasi di arruolamento, operativa o di follow-up previste dal protocollo di ricerca. I danni alla dignità sono una conseguenza degli attentati ai diritti umani, poiché «il fondamento sul quale si erigono tutti i diritti umani è la dignità della persona».[32] La violazione di alcuni diritti umani fondamentali e inalienabili – quali il diritto di un essere umano a non vedere la propria integrità fisica e psicologica menomata per qualsivoglia ragione che non sia quella strettamente terapeutica – risulta già compresa nelle precedenti categorie di danno. Tuttavia, la dignità umana non è ristretta né riducibile ai vari aspetti della vita fisica, psicologica, sociale ed economica. In quanto agente morale, ogni essere umano gode di valori e preferenze personali, di una concezione del bene e del male, e di impegni individuali. Queste ed altre dimensioni spirituali della vita umana sono profondamente radicate nella «esperienza originale o elementare” che costituisce la nostra identità nel modo in cui affrontiamo ogni realtà, cioè quel «complesso di esigenze e di evidenze con cui l'uomo è proiettato dentro il confronto con tutto ciò che esiste [...], talmente originali che tutto ciò che l'uomo dice o fa da esse dipende».[33] A questo livello ci troviamo di fronte al "cuore" della dignità umana. Questo "cuore" è vulnerabile, e la sua vulnerabilità è testimoniata da quell'«indefinibile disagio da cui si viene presi quando, ad esempio, si è trattati come oggettodi interesse o di piacere».[34] In termini kantiani, la dignità umana è danneggiata ogni volta che tu non “agisci in modo tale da trattare l'umanità, così nella tua persona come nella persona di ogni altro, sempre insieme come fine, mai semplicemente come mezzo».[35] Per evitare i danni alla dignità è necessario un profondo rispetto per ogni dimensione della dignità umana, compreso il senso religioso, il radicale impegno della persona con la vita ed il suo significato, qualunque sia l'identità di tale significato della propria vita. A sua volta, la dignità umana si fonda sulla natura propria e originaria dell'uomo – «la natura della persona umana»[36] – che è «la persona stessanell'unità di anima e di corpo, nell'unità delle sue inclinazioni di ordine sia spirituale che biologico e di tutte le altre caratteristiche specifiche necessarie al perseguimento del suo fine».[37]

 

Le ragioni della vulnerabilità



 

Diverse sono le ragioni per cui i soggetti di ricerca risultano vulnerabili, e gli ultimi anni hanno visto un incremento degli studi sulle cause della vulnerabilità.[38] Secondo Kipnis,[39] esse possono venire raccolte in sei tipologie. Un settimo tipo, la vulnerabilità sociale, è stato aggiunto da altri autori.[40] La classificazione è alquanto ridondante, ma può risultare utile per decidere se una particolare categoria di soggetti è vulnerabile oppure no, ed in quale misura. La vulnerabilità cognitiva o comunicativa è la più familiare ai ricercatori e, probabilmente, è più comune di quanto solitamente riportato. Le circostanze che suggeriscono la presenza di questo tipo di vulnerabilità dovrebbero comprendere non solo l'immaturità (come nel caso di bambini e adolescenti),[41] il ritardo mentale,[42] la demenza[43] e alcune forme di malattia mentale,[44] ma anche le carenze educative e la non familiarità con la lingua[45] così come le situazioni che non consentono agli adulti, per altri versi competenti, di esercitare effettivamente le loro capacità (come nel caso di emergenze stressanti).[46] Questi deterioramenti cognitivi o comunicativi influenzano il processo decisionale del soggetto e limitano l'autonomia degli eventuali partecipanti alla ricerca. La vulnerabilità giuridica o istituzionale si riferisce al caso di un soggetto che è sottoposto all'autorità formale di altri (quali genitori, tutori, agenti di custodia, ufficiali e giudici) che possono avere degli interessi propri (vantaggi privati o pubblici) rispetto all'assenso dello stesso individuo al proprio arruolamento in uno studio biomedico.[47] I soggetti possiedono una vulnerabilità deferenziale – una forma sottile e sottostimata di vulnerabilità – quando la loro subordinazione decisionale ad altri (come parenti, amici, insegnanti, medici e opinion makers) è il frutto di una gerarchia informale.[48] La vulnerabilità medica può riguardare i potenziali partecipanti (pazienti) che soffrono di malattie gravi per le quali non esistono trattamenti standard disponibili, efficaci o accettabili (per esempio, le forme tumorali molto aggressive, gli ultimi stadi dell'AIDS, alcune malattie rare).[49] A motivo della loro condizione, che esige una eccezionale assistenza medica, lo sfruttamento di questi pazienti attraverso la loro speranza di remissione o di miglioramento non è rara. I soggetti di ricerca manifestano una vulnerabilità economica o allocativaquando risultano svantaggiati nella distribuzione sociale di beni e servizi come il reddito, la casa o l'assistenza sanitaria. L'offerta di un compenso per la partecipazione, o di accesso gratuito a determinati servizi sanitari, può costituire un incentivo per un arruolamento ingiusto, che passa attraverso lo sfruttamento di una autonomia economica ridotta.[50] Quando il reclutamento dei soggetti richiede o presuppone, da parte loro, una disponibilità di risorse o di prestazioni che contribuiscono in modo decisivo alla loro sicurezza personale nel corso dello studio (come un sistema rapido di comunicazione, un regime dietetico attendibile e dei professionisti sanitari esperti), i possibili partecipanti sono esposti ad una vulnerabilità infrastrutturale.[51] Da ultimo, la vulnerabilità sociale si riferisce agli individui che appartengono a gruppi sociali o comunità sottovalutati.[52] In alcuni casi questo tipo di vulnerabilità è subdola e insidiosa, ed «è una funzione della percezione sociale di determinati gruppi, che si accompagna a degli stereotipi e può condurre ad una discriminazione».[53]

Con l'eccezione del primo tipo di vulnerabilità, quella cognitiva o comunicativa, che sconsiglia la eleggibilità di una persona che ne è affetta al ruolo di chi viene autorizzato adecidere nel caso di un soggetto di ricerca non competente, le rimanenti forme di vulnerabilità posso riguardare anche lo

stesso procuratore. Per quanto concerne la ricerca sugli embrioni e sui feti in utero, la naturale e prima scelta della persona che deve prendere una decisione per procura cade sulla madre, se essa è competente a decidere, non solo perché ci si aspetta che una madre percepisca e difenda i diritti del proprio figlio non ancora nato meglio di chiunque altro (se questo non è il caso, può sorgere un conflitto etico e legale la cui soluzione è spesso molto difficile),[54] ma anche in ragione del fatto che attualmente ogni ricerca sull'embrione (post-impianto) e sul feto vivente passa attraverso il corpo della madre, e in nessuna circostanza ciò avviene senza un rischio per la gestante. In questo caso di consenso per procura, la vulnerabilità di colei che è chiamata a decidere può essere una conseguenza della sottomissione della madre ad una autorità formale (come nel caso dei i genitori, se essa è minorenne), a rapporti informali di potere, istituiti socialmente (per esempio, con il proprio ostetrico), o a dipendenze di natura più soggettiva (come quelle che possono instaurarsi con una persona amica influente). In conseguenza della diagnosi prenatale, la donna può venire a conoscenza di una malformazione o di una malattia grave da cui è affetto il feto e per la quale non esiste un trattamento efficace standard. Se alla madre viene chiesto di partecipare ad un protocollo sperimentale di terapia fetale, è prevedibile che la vulnerabilità medica possa costituire il punto di maggior debolezza del suo processo decisionale. In altre circostanze, la madre può essere sola e senza lavoro, appartenere ad una famiglia povera o vivere in un paese rurale e sottosviluppato, privo di strutture adeguate per un'assistenza ostetrica. Infine, la gestante può appartenere ad un gruppo sociale emarginato, per esempio, di immigrati o di rifugiati. In tutti questi casi, la vulnerabilità economica, infrastrutturale o sociale della madre espone il bambino non ancora nato ad un rischio maggiore di essere arruolato in un progetto di ricerca che può essere eticamente scorretto.

Il non competente che risulta eleggibile per una ricerca biomedica rimane un soggetto potenzialmente vulnerabile anche quando sia stato autorizzato un consenso per procura al fine di compensare il suo deficit cognitivo o comunicativo. Salvo evidenza contraria, una vulnerabilità indiretta – che passa attraverso il consenso per procura – non può essere esclusa, e si dovrebbero istituire procedure etiche e strumenti legali per proteggere il non competente dallo sfruttamento di cui può essere vittima. Non si può infatti sempre presumere che il procuratore sostenga con fermezza i diritti del rappresentato o sia in grado di proteggerli incondizionatamente.

 

I soggetti più vulnerabili

 

Fino a tempi più recenti, la vulnerabilità nella ricerca biomedica– in quanto caratteristica etica propria di una sottopopolazione di soggetti eleggibili per gli studi sperimentali – ha ricevuto scarsa attenzione sistematica. Tuttavia, la necessità di tale riflessione era ormai evidente da qualche decennio.[55] Durante gli anni '70, negli Stati Uniti, alcuni episodi di ricerca scorretta ampiamente discussi (come lo studio sull'epatite nei bambini della Willowbrook State School,[56] la ricerca oncologica sugli anziani debilitati e sui pazienti indigenti presso il Brooklyn Jewish Chronic Disease Hospital[57] e lo studio sulla sifilide a Tuskegee, condotto su uomini di origine afro-americana poveri e ignoranti[58]), mentre sono stati all'origine delle attuali procedure per assicurare la conduzione etica delle ricerche nelle scienze biologiche e mediche, hanno anche messo in luce come queste procedure (che comprendono la considerazione della validità e del valore scientifico di uno studio, l'analisi dei rischi e dei potenziali benefici, ed il consenso informato) non riescono sempre ad impedire che i ricercatori sfruttino (intenzionalmente oppure no) alcune debolezze degli individui e dei gruppi sociali che li rendono maggiormente esposti a venire coinvolti in trial sperimentali e clinici ad elevato rischio. I casi precedentemente ricordati ed diversi altri hanno sollevato il dubbio circa l'opportunità di lasciare il giudizio sulla partecipazione di un soggetto ad uno studio alla sola discrezione dei ricercatori. Sin dagli albori della bioetica la richiesta di una protezione speciale per gli individui e le popolazioni vulnerabili[59] è stata presente in ogni manuale e in ogni corso che affrontava l'etica della medicina e della ricerca.

Nell'identificare i soggetti vulnerabili della ricerca biomedica un ruolo particolare viene attribuito all'analisi dei rischi e dei potenziali benefici per i partecipanti ed alle procedure di selezione dei soggetti nei protocolli di ricerca. Il riferimento al concetto di "rischio minimo" è spesso presente (vedi sopra, nota 1). Per esempio, questo concetto è centrale nello schema per l'analisi dei rischi nella ricerca che coinvolge i bambini e le persone ricoverate come malati mentali proposto dalla U.S. National Commission on the Protection of Human Subjects of Biomedical and Behavioural Research.[60] Tuttavia, la distinzione tra "ricerca che non comporta un rischio superiore al minimo" e "ricerca che comporta un rischio maggiore del minimo" non è applicabile facilmente e senza ambiguità. Di fronte alle esperienze fisiche, psicologiche o sociali della maggior parte dei soggetti vulnerabili, il riferimento, contenuto nella definizione, alla «probabilità e grandezza del danno fisico e psicologico che si incontra normalmente nella vita di tutti i giorni o negli esami medici e psicologici di routine»[61] non è così immediato e chiaro come pretende di essere. A riguardo di questo modello di analisi etica del rischio, il Rapporto di Belmont fornisce pochi dettagli ulteriori, ma sottolinea l'importanza di una “analisi sistematica e non arbitraria dei rischi e dei benefici” attraverso «l'accumulo e la valutazione delle informazioni su tutti gli aspetti della ricerca», e invita «a considerare sistematicamente le alternative».[62] Le alternative ad uno studio invasivo, o comunque potenzialmente dannoso, condotto su soggetti vulnerabili rimangono la soluzione etica ideale al dilemma posto da molti trial che coinvolgono questi gruppi di partecipanti. Ciò non di meno, queste alternative non sono sempre facilmente escogitabili ed applicabili, e – anche se disponibili e fattibili – non tutti i ricercatori, le società, le agenzie, i governi ed i cittadini sono preparati ad accettarle, soprattutto quando si ritiene che il percorso verso i risultati biotecnologici e clinici attesi sia più lungo e/o più faticoso e costoso.

 

 


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