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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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PER UNA SISTEMATIZZAZIONE DELLA QUESTIONE

 

Per meglio affrontare la questione può essere utile procedere facendo riferimento a una formula schematica che scompone il sistema delle comunicazioni di massa nei suoi elementi fondamentali: il riferimento sarà qui, per amore di sintesi, al paradigma di Lasswell. Come è noto, infatti, esso occupa un posto di rilievo nella tradizione della communication research proprio in quanto, fornendo una descrizione statica della catena comunicativa, ha permesso di isolare diversi settori specifici di ricerca, contribuendo così ad articolare gli studi sulla comunicazione in modo più ricco e complesso. Come osserva Mauro Wolf, “lo schema di Lasswell ha organizzato la nascente communication research intorno a due dei suoi temi centrali e di maggior durata –l’analisi degli effetti e l’analisi del contenuto- e nel contempo ha individuato gli altri settori di sviluppo del campo”[11].

Poco importa, in questo contesto, la mancanza di processualità e lo schiacciamento su un modello unidirezionale, intenzionale e trasmissivo della comunicazione, ampiamente superata sia dalle tecnologie dei media, sia dalle teorie della comunicazione sviluppatesi a partire dagli anni Sessanta sulla scorta dei contributi della linguistica e della semiotica: ai nostri fini esso presta solo una matrice per isolare i diversi ambiti -disciplinari e processuali- della comunicazione nei quali il tema posto a oggetto di queste pagine si rivela particolarmente pertinente e ricco di conseguenze.

Nelle parole di Lasswell, come si ricorderà, “un modo appropriato per descrivere un atto di comunicazione è rispondere alle seguenti domande:

chi

dice cosa



attraverso quale canale

a chi


con quale effetto ?

Lo studio scientifico del processo comunicativo tende a concentrarsi su uno o l’altro di tali interrogativi”[12]. A partire da questa schematizzazione è possibile isolare, dunque, l’area degli emittenti (il primo “chi” del modello), storicamente indagato da una omonima sociologia, l’area dei contenuti (dice “cosa”), tradizionalmente oggetto della content analysis, l’area dei mezzi (i “canali”), analizzata soprattutto dai cosiddetti teorici dei media –da Innis a McLuhan, a de Kerckhove-, l’area dei pubblici (il secondo “chi”), terreno degli audience studies, per finire con la lunga sequela delle teorie sugli effetti individuali e sociali dei media.

Le prossime pagine tenteranno di analizzare alcuni degli snodi più problematici del rapporto tra ricerca biomedica e comunicazioni di massasulla base di questa sistematizzazione, descrivendo ora le modalità, ora le conseguenzedell’operare dei media.

 

Chi ?

Il primo ambito di analisi è, dunque, quello studiato dalla sociologia degli emittenti. In questa tradizione di ricerca figurano studi che hanno sviluppato metodologie di indagine anche molto diverse per comprendere, da una parte, i processi di formazione e di socializzazione professionale degli operatori della comunicazione, dall’altra i meccanismi di negoziazione che presiedono alla costruzione sociale della notizia.

Chiaramente, entrambi i temi hanno connessioni molto strette con il coinvolgimento dell’opinione pubblica su questioni di grande complessità quali quelle implicatedalla ricerca biomedica. Sul primo versante, infatti, è rilevante la formazione culturale e la preparazione professionale –generale e specifica- del giornalista o del comunicatore che svolge la funzione di mediazione tra la comunità scientifica e il grande pubblico, mentre sul secondo acquistano rilevanza le routine produttive in cui si articola quotidianamente la sua prassi professionale e le relazioni che egli è in grado di instaurare con le sue fonti.

In via preliminare varrà anche la pena ricordare come il complesso di studi in questo ambito tendano a polarizzarsi intorno a due letture dei fenomeni analizzati; le si può definire, sempre per semplicità, teorie del complotto e teorie della distorsione involontaria. La prima lettura tende a enfatizzare la dimensione ideologica del controllo sui media operato da una élite (qualificata, di volta in volta, in modo differente, ma sempre in grado di sovradeterminare, nella pratica, la produzione omologata di informazione), la seconda a svalutare il peso dell’intenzionalità dei soggetti coinvolti a vantaggio di un condizionamento strutturale e operativo incorporato nelle routine di produzione dell’informazione.Nelle prossime pagine le due prospettive saranno messe in dialogo l’una con l’altra per evitare sia il rischio di una visione ingenua dei rapporti di forza che stanno all’origine del processo informativo, sia quello di una semplicistica riduzione del fenomeno.

Una prima questione rilevante sembra essere legata, dunque, alla natura negoziale della comunicazione, e dell’informazione in particolare. Secondo una battuta famosa, infatti, la risposta alla domanda “cosa è una notizia ?” è “ciò che il giornalista ritiene tale”. Ma, come tutta la ricerca sul newsmaking[13] ha messo in luce l’aleatorietà di questa risposta rende conto di un complesso processo di costruzione sociale della notizia, in cui giocano diversi fattori e diversi soggetti.

E’ possibile elencare alcuni di questi fattori per meglio comprendere i diversi livelli di contrattazione in gioco: si tratta di fattori professionali, dipendenti dal processo di socializzazione cui i giornalisti sono soggetti all’interno del proprio gruppo di lavoro (cultura e pratiche professionali, gioco delle aspettative di ruolo etc.); di criteri più o meno oggettivi di notiziabilità (relativi ai fatti e ai soggetti coinvolti, al prodotto, alla concorrenza, al pubblico etc.); di routines produttive (mix di tempo, mezzi e accesso alle fonti, ruolo delle agenzie, rigidità dello scadenziario etc.); di procedimenti consequenziali (selezione, editing, tematizzazione etc.).

Ma, come ricorda Carlo Sorrentino, “ancor prima di essere definita dalle logiche professionali e organizzative la trasformazione di ogni fatto in notizia è un processo sociale; una negoziazione che si compie fra diversi attori sociali che mettono in gioco risorse politiche, economiche, culturali […] un intenso processo di scambio fra più attori sociali diversamente coinvolti: protagonisti dell’evento, fonti, media-men, lettori”[14]. Alcune fasi di questo processo negoziale meritano di essere

approfondite, in particolare –come si vedrà- la relazione che si instaura tra il giornalista e le sue fonti.

A proposito delle routine di produzione, vale la pena ricordare, con Sorrentino, che “l’intrinseca imprevedibilità della materia trattata dall’informazione richiede l’individuazione di precise procedure”[15], una sorta di burocratizzazione della professione giornalistica basata su operazioni standardizzate e sull’organizzazione del lavoro. E’ questa organizzazione che permette di fare fronte, mediante costrizioni pratiche razionali, all’improvvisazione e alla discontinuità del reale. Tutto ciò si traduce in una gestione della catena produttiva della notizia che, spesso in modo inavvertito dagli stessi operatori, finisce per condizionare strutturalmente il lavoro di selezione e di rappresentazione dei risultati della ricerca scientifica.

Nell’ambito degli studi sui processi di newsmaking, il contributo della sociologa Dorothy Nelkin[16] costituisce un punto di riferimento in grado di evidenziare la pertinenza di alcuni dei meccanismi produttivi dell’informazione con le modalità di copertura del settore della scienza e della ricerca biomedica; in particolare, la Nelkin osserva come l’ideologia della notizia –che pure sembra essere coerente con la visione della prassi di ricerca scientifica come fonte di scoperte continue, cioè di novità dal punto di vista dell’informazione- contraddica, in realtà, alcuni tratti fondamentali della ricerca stessa, a partire proprio dal fatto che la scienza, di solito, produce le sue novità in tempi lunghi, non sempre prevedibili, sulla scorta di indagini e ipotesi destinate a rimanere tali fino al riconoscimento –anch’esso non immediato- da parte della comunità scientifica. I tempi stretti di lavorazione, invece, la fame di aggiornamento costante e la necessità di cavalcare l’attualità propri degli apparati informativi spesso impediscono una elaborazione adeguata degli argomenti scientifici, e implicano anche il rischio di diffondere notizie precipitose o del tutto false.

In modo analogo, l’aspettativa nutrita da parte dei giornalisti circa i caratteri che un fatto scientifico deve possedere per diventare notizia (i cosiddetti criteri di notiziabilità) tende a privilegiare ciò che può colpire l’attenzione o la fantasia del pubblico, o per la sua eccentricità o per le controversie che può scatenare a livello di discorsi sociali. Da quest’ultimo punto di vista, inoltre, l’autrice individua due comportamenti opposti: da una parte la tendenza a minimizzare le precauzioni normalmente adottate dai ricercatori nel divulgare gli esiti del proprio lavoro, enfatizzando la certezza della scoperta scientifica nella convinzione che al pubblico interessino fatti e non ipotesi; dall’altra parte, in caso di controversia, la prassi di presentare tutte le opinioni possibili, equiparando, di fatto, quelle più fondate con quelle prive di qualsiasi legittimità in nome di una discutibile interpretazione del criterio di obiettività. Spesso, così, il contenuto della notizia finisce per essere la controversia stessa, rispetto alla quale, però, il pubblico si trova sprovvisto di parametri di valutazione.

Un ultimo aspetto riguarda la dipendenza del lavoro giornalistico dalle fonti; su questo tema si tornerà più avanti, ma per ora è utile riportare l’osservazione di Gabriel Galdòn Lòpez[17] secondo il quale l’ambito della divulgazione scientifica è particolarmente esposto, a causa dell’esiguità del numero delle fonti autorevoli, al rischio della omogeneizzazione, della standardizzazione e della reiterazione. L’esigenza di tenere desta l’attenzione su un certo tema scientifico -o perché incontra il favore del pubblico o perché le pagine dedicate alla ricerca hanno una programmazione periodica fissa che non corrisponde alla reale possibilità di disporre quotidianamente di vere e proprie novità- e la necessità di non “bucare”, come si dice in gergo, una notizia riportata dai media concorrenti, conducono così talvolta a un lavoro di ripetizione o di artificiale enfatizzazione del tema.

Ma la questione probabilmente più spinosa riguarda proprio la dipendenza dalle fonti informative. Si tratta, come si vedrà, di una questione ricca di conseguenze, sia per il lavoro in redazione, sia per la formazione dell’opinione pubblica. Come è noto, infatti, le fonti costituiscono il primo anello della catena informativa, il luogo in cui avviene la prima selezione dei fatti e la prima codifica dei materiali destinati a divenire notizia. Nel caso dei media destinati al grande pubblico, la copertura informativa della ricerca scientifica –nel nostro caso biomedica- dipende quasi totalmente dalle fonti e dalla loro accessibilità entro i vincoli già ricordati delle routine redazionali. Nel sistema dei media, poi, che cosa sia una fontedipende dal medium stesso e dal tipo di prodotto che esso confeziona. Fonti per antonomasia sono le Agenzie di informazione nazionali e internazionali (che hanno a loro volta il problema di trovare i fatti notiziabili sulla base della propria rete di corrispondenti, delle riviste internazionali, specializzate e no, delle altre Agenzie), i collaboratori esterni (ricercatori o giornalisti scientifici), gli Uffici Stampa delle Istituzioni che presiedono alla ricerca scientifica e delle aziende collegate, Internet. Come si può notare, alcune fonti sono attive, altre passive[18]: le prime producono di loro iniziativa materiale informativo, le seconde si limitano a rispondere alle richieste delle redazioni. E’ anche intuibile, visti i condizionamenti dettati dalle routine di produzione che lasciano poco tempo per forme di giornalismo investigativo o di reportage a carattere scientifico, che le fonti attive saranno privilegiate. La prima selezione verrà dunque operata soprattutto da quei soggetti istituzionali, pubblici o privati, dotati di potere e, quindi, di grande peso negoziale nei confronti delle redazioni, in grado di spingere l’informazione verso gli apparati mediali secondo un principio di convergenza tra i propri interessi e le routine professionali.

Il ruolo delle fonti si rivela decisivo non solo in fase di selezione ma anche durante quel processo di negoziazione con gli apparati informativi che avvia la costruzione sociale della notizia. Alle relazioni istituzionali si affiancano, infatti, le relazioni personali tra singoli giornalisti e rappresentanti delle istituzioni. Solo per dare un’idea della complessità della negoziazione, basterà ricordare come la stretta frequentazione delle fonti da parte dei giornalisti –non solo scientifici- sia criticata da una parte degli osservatori e degli stessi operatori dell’informazione in quanto causa di una eccessivasocializzazione, una vera e propria convergenza sociale e culturale che può trasformarsi in “un rapporto fiduciario utile ma anche potenzialmente pericoloso”[19]; rispondendo alle accuse di un sostanziale appiattimento sulle posizioni delle proprie fonti, i giornalisti tendono, al contrario, a motivare frequentazioni molto strette con la necessità di andare oltre la facciata ufficiale e di comprendere a fondo le logiche istituzionali proprio per evitare il rischio di essere strumentalizzati[20]. Entro questo rapporto di fiducia continuamente rinegoziato, un tipico “rituale strategico” di resistenza all’interpretazione suggerita dalle fonti è lo spostamento del piano del discorso verso ambiti limitrofi o marginali, dirottando il preferred meaning delle fonti su un registro emotivo, curioso o sensazionale. Probabilmente l’aumento di soft news a carattere scientifico, registrato anche in occorrenza di gravi crisi a carattere sanitario o alimentare[21], ha in questo fenomeno una delle sue spiegazioni. Infine bisogna ricordare che più un giornalista frequenta le sue fonti, meno è sottoposto ai processi di socializzazione professionale attivati dalla redazione; cresce la sua familiarità con il mondo della ricerca scientifica, i suoi problemi e le tematiche specialistiche, ma più facilmente perde il senso del prodotto comunicativo nel suo complesso e il rapporto con il pubblico. I suoi referenti principali diventano le fonti stesse e i colleghi delle testate concorrenti[22].

Nel caso della divulgazione scientifica, inoltre, la catena delle fonti conosce un passaggio intermedio di grande importanza: le riviste scientifiche specializzate a carattere internazionale; destinate a un pubblico di specialisti, ricercatori o medici, esse costituiscono il vero punto di riferimento del settore per tutti coloro che si occupano di divulgare i risultati della ricerca biomedica attraverso i media. La centralità di queste pubblicazioni nel processo di costruzione della notizia le rende un luogo privilegiato per individuare anche i limiti e i rischi della pratica comunicativa.

Il rischio più evidente si chiama conflitto di interesse: nelle parole di D.F. Thompson possiamo definirlo come un insieme di condizioni in cui il giudizio professionale che riguarda un interesse primario (come la salute di un paziente o la validità di una ricerca) tende a essere indebitamente influenzato da un interesse secondario (come un guadagno economico o vantaggio personale)[23]. Come è stato più volte osservato, si tratta di una condizione prima ancora che di uncomportamento, e come tale può replicarsi in ambiti differenti. In questo contesto interessa soprattutto il conflitto che può evidenziarsi al momento della pubblicazione di una ricerca su una rivista scientifica. Come osserva Drummond Rennie, editor del prestigioso Journal of American Medical Association, “le informazioni scientifiche non esistono finché non vengono pubblicate e diffuse”; la pubblicazione costituisce, cioè, il momento di effettiva valorizzazione della ricerca e dei suoi risultati. Costituisce, dunque, anche il momento di massima esposizione a un rischio di conflittualità che coinvolge i ricercatori, i loro colleghi, gli sponsor e i finanziatori, le Istituzioni di cura e universitarie di appartenenza, i direttori stessi delle riviste. Il tutto è particolarmente accentuato nel momento in cui l’industria farmaceutica investe grandi risorse economiche per la ricerca clinica, sostituendosi, di fatto, molte volte, all’intervento pubblico.

Diversi casi di conflitto di interesse che legava i ricercatori ai loro sponsor condizionando l’integrità dei risultati pubblicati sono stati denunciati nell’ultimo decennio; si è trattato ora di casi eclatanti che hanno sollevato scalpore anche al di fuori della comunità scientifica[24], ora di studi sistematici che hanno evidenziato la diffusione di questa condizione potenziale a gran parte delle pubblicazioni scientifiche[25]. Il “continuum tra un potenziale conflitto che, per la sua modestia, non interferisce con il proprio giudizio e un conflitto attuale, economicamente rilevante, che condiziona pesantemente il giudizio”[26] può esprimersi in forme molto diverse e giungere alla manipolazione dei dati di ricerca per ottenere la pubblicazione nella consapevolezza che i risultati positivi vengono accolti più favorevolmente di quelli negativi. Drummond Rennie elenca, al proposito, “l’influenza commerciale dovuta all’esistenza –per il ricercatore- di interessi economici diretti nell’industria farmaceutica, la remunerazione diretta per il reclutamento dei pazienti nei clinical trial, i discutibili criteri con cui vengono inseriti o eliminati i nomi di autori di editoriali e revisioni, i simposi sponsorizzati e i proceedings che ne derivano, la trasparenza nel modo di riportare i risultati dei clinical trials e la successiva condivisione dei dati, la frequente mancanza di trasparenza nella valutazione economica dei farmaci e delle tecnologie, la pubblicazione selettiva dei risultati degli studi positivi e la influenza e intimidazione verso autori di studi i cui risultati non sono graditi agli sponsor. Sono tutte facce possibili del conflitto di interesse nel processo di pubblicazione dei risultati”[27].

Ovviamente, la cosa più interessante, a questo proposito, è che la centralità delle pubblicazioni scientifiche nella catena informativa determina, alla lettera, un “inquinamento della fonte” che si ripercuote, amplificato, sull’intero sistema della comunicazione: i media attingeranno alla fonte e estenderanno i danni prodotti a pubblici più ampi e ad altri media più popolari.

Una situazione molto simile si replica, d’altra parte, più avanti lungo la catena informativa, quando testate destinate al grande pubblico si trovano, per esempio, a offrire informazioni circa farmaci e terapie e, contemporaneamente, a ospitare sulle proprie pagine le campagne pubblicitarie delle aziende che producono quegli stessi farmaci.

Infine, la pluralità delle fonti attive, impegnate a spingere la propria informazione verso i media in modo concorrenziale, congiunta alla centralità, nel processo di produzione della notizia, di un numero limitato di riviste scientifiche che finiscono per agire, di fatto in modo determinante, come un filtro di selezione, può dare origine anche in ambito medico-scientifico al problema dell’accesso. Si tratta di una questione ben nota in ambito di partecipazione socio-politica, dove il diritto alla libertà di espressione si scontra talvolta con una strutturale resistenza degli apparati mediali a dare voce a tutti i soggetti coinvolti e a tutte le voci titolari di tale diritto, e dove, non a caso, l’accesso ai principali media viene talvolta regolamentato per legge[28]. Non è, possibile, a questo proposito, evitare di porre almeno a livello teorico l’eventualità che la convergenza di interessi tra istituzioni scientifiche, industria farmaceutica e apparati mediali –fonti intermedie comprese- provochi di fatto, se non intenzionalmente, una riduzione della possibilità di accesso ai mezzi di comunicazione da parte di quei settori della ricerca meno allineati sulle posizioni di maggior potere contrattuale. Come si vedrà più avanti a proposito delle teorie degli effetti, una tale limitazione dell’accesso può avere conseguenze molto importanti sul coinvolgimento dell’audience e sulla formazione dell’opinione pubblica.

Tutto ciò suggerisce di vedere l’ambito della negoziazione della notizia come un terreno accidentato, in cui complessivi fenomeni di “distorsione involontaria” non escludono singole, locali, responsabilità personali. Entro questo processo, dunque, c’è ampio spazio perché si riproduca quello che altrove è stato definito “conflitto di interessi”. Appare infatti evidente che, sia a livello macro che microstrutturale, i punti di contatto e di intreccio tra sistema dei media, sistema industriale farmaceutico, sistema pubblicitario, sistema della ricerca, sistema ospedaliero e sistema politico sono moltissimi e tutti potenziali luoghi di contrattazione della notizia. Quando tra ricercatore e giornalista (per rimanere al solo caso dell’informazione) si inserisce il cosiddetto “terzo pagante”, chiunque egli sia, le derive comunicative sono difficilmente prevedibili.

 

Cosa ?

Per quanto riguarda l’area dei contenuti della comunicazione, la tradizione di ricerca sui media suggerisce alla nostra attenzione un’ipotesi particolarmente interessante che va sotto il nome di agenda setting; sulla scorta di questa ipotesi, il potere dei media non sta tanto nel “dire alla gente cosa pensare” quanto nel “dire alla gente intorno a cosa avere un pensiero”. Secondo una formulazione più corretta, potremmo dire che “la gente tende a includere o escludere dalle proprie conoscenze ciò che i media includono o escludono dal proprio contenuto”[29].

Se, dunque, da una parte, l’ipotesi dell’agenda setting rientra a pieno titolo tra quelle teorie degli effetti di cui si parlerà più avanti, d’altra parte essa richiama l’attenzione sul contenuto dei media -frutto, a sua volta, di quel lavoro di selezione, gerarchizzazione e scrittura che abbiamo visto precedentemente- come un luogo strategico di costruzione della visibilità sociale e della legittimazione discorsiva dei temi della ricerca scientifica e della prassi medica. Come sintetizza ancora Mauro Wolf, “sempre nuovi aspetti della realtà vengono posti al centro della (momentanea) attenzione, divengono issuessulle quali si organizza transitoriamente il dibattito pubblico, punti di riferimento al costituirsi incessante di climi d’opinione”[30].

L’aspetto più interessante di tutto ciò, al di là della costruzione sociale di realtà operata da questa attribuzione divisibilità, è forse da cercarsi nella dinamica innovativa che regge l’ideologia della notizia e che, come si è detto, sembra particolarmente coerente con il procedere per conquiste successive proprio della scienza (o di una sua rappresentazione sociale particolarmente diffusa ed efficace). In questo senso l’emergere provvisorio di tematiche, problemi, tensioni, soggetti collettivi sostenuto dai media costituisce non solo “un movimento che coagula interessi e organizza prospettive in confronto, in conflitto, ruotanti su valori contrapposti”[31], ma soprattutto una spinta in grado di accelerare il mutamento sociale attraverso la sua rappresentazione.I media contribuiscono a rendere possibile il mutamento “per il fatto di costruire le condizioni mediante le quali il mutamento stesso diventa visibile, diventa un punto di riferimento pubblicamente noto, una meta socialmente legittima”[32].

Una volta entrato nel contenuto discorsivo dei media (e nei relativi discorsi sociali che attraversano il sistema della comunicazione e i suoi pubblici), un tema tende così ad acquistare legittimazione sociale secondo un meccanismo di rinforzo reciproco offerto dai vari mezzi di comunicazione. Non è, infatti, solo il genere informativo (stampa quotidiana, Telegiornali, divulgazione medico-scientifica etc.) il luogo di costruzione della visibilità: la fiction e l’intrattenimento, soprattutto di parola come il talk-show, giocano, sotto questo aspetto, un ruolo ancor più importante perché incorporano le tematiche specialistiche nel tessuto dell’esperienza quotidiana, o in quanto saperi pratici, utili ad affrontare situazioni di crisi (per esempio la malattia), o in quanto spunti narrativi e situazioni drammatiche intorno alle quali articolare la produzione di storie.

Quest’ultimo aspetto merita un’osservazione particolare: il fatto che i media costituiscano il principale sistema di story telling della modernità ne fa uno dei più importanti apparati simbolici grazie al quale gruppi e società sono messi in condizione di pensarsi riflessivamente, di riconoscere, confermare o modificare i propri sistemi di valore, di progettare il proprio sviluppo. La “narrazione comune” implica riferimenti identitari e appartenenze, suggerisce stereotipi, codifica emozioni, legittima comportamenti e media il mutamento sociale. Da questo punto di vista, probabilmente, il successo delle molte fiction televisive che hanno per ambientazione i luoghi della cura e per protagonisti i membri del personale medico-sanitario non è solo il prodotto legittimo di alchimie di genere particolarmente felici, riconducibili a logiche di grammatica e di sintassi narrativa, (ambiente chiuso, set di personaggi ampio, fisso nei suoi elementi principali –i medici- me sempre vario in quelli secondari –i pazienti-, tematiche di interesse umano etc.), ma può essere letto come sintomo del bisogno di un discorso sociale sui temi della salute, della malattia, del dolore, del rapporto medico-paziente, della morte (e del suo senso) che prende le forme di una narrazione diffusa e seriale. Temi come l’eutanasia, i trapianti o la prevenzione dell’Aids, per fare qualche esempio particolarmente drammatico, attingono probabilmente più legittimazione sociale da questo tipo di discorsi che dalla informazione specialistica, dalla divulgazione scientifica o dai dibattiti etico-politici che si accompagnano all’apertura di nuove frontiere della ricerca. E non a caso, infatti, l’attenzione delle lobbies e dei gruppi di pressione si è storicamente concentrata sulla fiction cinematografica e televisiva forse in modo ancor più massiccio di quanto non abbia fatto nei confronti dell’informazione[33].

 

A chi ?

Il pubblico costituisce una variabile particolarmente interessante entro il processo comunicativo, anche se –almeno dal punto di vista che interessa queste pagine- forse meno problematica di altre. La sua pertinenza nel condizionare l’informazione biomedica sembra rilevante a due livelli differenti. Il primo livello è, per così dire, strutturale: lacostruzione di un pubblico di lettori, ascoltatori, spettatori o utenti è il primo obiettivo di ogni apparato informativo; questo obiettivo è tanto più rilevante quanto più l’organo di informazione opera in un regime economico di concorrenza; l’informazione è, da questo punto di vista, un settore dell’industria culturale che risente di tutte le leggi del mercato in cui opera.



Fare audience, mantenere e accrescere nel tempo il proprio pubblico, significa per qualsiasi mezzo di comunicazione fare i conti con i suoi interessi, le sue passioni, i suoi gusti, le sue esigenze, gli usi peculiari che esso fa dell’informazione offerta. Il successo (l’attenzione, la curiosità, l’investimento economico sempre crescenti etc.) che l’audience decreta a temi e argomenti a carattere scientifico e sanitario non comporta solo l’espansione quantitativa delle testate e degli spazi dedicati alla ricerca, alla salute e alla medicina, che pure costituisce uno dei fenomeni editoriali più rilevanti degli ultimi anni; comporta soprattutto la definizione qualitativa di alcune aree tematiche privilegiate a scapito di altre; facilita l’affermazione di vere e proprie mode culturali anche nell’ambito della divulgazione scientifica; contribuisce a tratteggiare le condizioni di rilevanza pubblica di certi filoni di ricerca piuttosto che di altri e disegna un ambiente comunicativo più o meno favorevole alla circolazione dei rispettivi risultati. In altre parole, il pubblico costituisce –come in altri ambiti dell’informazione- uno dei criteri di notiziabilità mediante i quali avviene la selezione e la gerarchizzazione dei fatti scientifici destinati a divenire notizie.

Ma l’audience costituisce una variabile rilevante anche a un secondo livello; se, infatti, il pubblico contribuisce a chiudere il circuito informativo attribuendo senso alle notizie e interpretando i contenuti della comunicazione, bisogna considerare come differenti segmenti del pubblico producano significati differenti sulla scorta della propria preparazione culturale, delle proprie competenze, della propria esperienza. Ciò significa soprattutto, ai fini del nostro discorso, che esistono pubblici che, per circostanze contestuali, sono particolarmente sensibili alla comunicazione sui temi della salute, della medicina, delle terapie. Basti pensare, per esempio, ai malati e ai loro familiari che, sulla base della propria esperienza diretta, possono tendere a reinterpretare le informazioni entro un frame di immediata applicazione al proprio caso, maturando speranze o andando incontro a delusioni. In un contesto ridefinito a partire dalla condizione della malattia, l’insieme dei processi comunicativi subisce un riorientamento funzionale i cui effetti, a livello sociale, saranno tratteggiati più avanti ma che, a livello personale, hanno tutti i tratti di un forte coinvolgimento emotivo e fiduciario.

 

Su quale canale ?

Abbiamo già detto come i media siano da intendersi sempre più come ambienti e sempre meno come canali in grado di trasmettere un contenuto. Interrogarsi sulla natura di questi canali implica, dunque, ragionare su quelle caratteristiche strutturali o di linguaggio che fanno di un medium un ambiente simbolico più o meno favorevole alla sopravvivenza e alla circolazione di idee, concetti, rappresentazioni della realtà.

Una di queste forme di rappresentazione è, ovviamente, il macrogenere divulgazione scientifica: diverse ricerche[34] hanno messo a fuoco, negli ultimi anni, i differenti modelli di divulgazione della scienza (e della stessa scienza) che si sono succeduti, anche storicamente, a guida della prassi discorsiva dei mass media. Varrà qui la pena ricordare solo come una visione progressista e cumulativa della ricerca scientifica, in grado di produrre conoscenze certe e incontrovertibili e necessariamente volte a migliorare l’esperienza vitale dell’uomo sia stata affiancata più recentemente da una versione probabilistica (e problematica) del sapere scientifico. Contemporaneamente, forme divulgative ispirate al modello pedagogista e parascolastico dei media (soprattutto della Tv) sono state superate da format più spettacolari, in grado di accogliere le istanze comunicative di generi diversi e di tradurre la necessaria operazione di semplificazione entro i loro linguaggi specifici.

Da questo punto di vista, ovviamente, non tutti i media sono uguali. Almeno due elementi vale la pena tenere presenti per meglio comprendere le trasformazioni avvenute nell’ambito della formazione dell’opinione pubblica negli ultimi due decenni.

Il primo riguarda la progressiva trasformazione dell’ambiente costituito dai media elettronici di broadcasting: lo sviluppo impetuoso della televisione commerciale in Europa, la moltiplicazione dei canali e dell’offerta complessiva, la finalizzazione della programmazione alla costruzione dell’audience e la crisi di parte della stessa nozione di servizio pubblico in ambito televisivo e radiofonico hanno di fatto indebolito sia gli atteggiamenti di tipo pedagogico (i media come luogo di emancipazione culturale e di democratizzazione del sapere), sia quelli di tipo partecipativo (i media come luogo del confronto pubblico e di costruzione della pubblica opinione habermasianamente intesa). Per contro, la complessità del reale è andata via via crescendo, chiedendo ai cittadini di dotarsi di strumenti concettuali sempre più difficili da padroneggiare per essere adeguati alla sua comprensione e al suo governo.

Il risultato è che tematiche come quelle che ci interessano in queste pagine, dalle implicazioni etiche e antropologiche spesso complesse, vanno incontro a due destini diversi e spesso complementari: da una parte la crescita di complessità richiede, se si vuole salvaguardare ciò che resta della funzione (pedagogica e partecipativa) del servizio pubblico, di accentuare la componente tecnico-specialistica del dibattito, moltiplicandola sul numero delle diverse posizioni concettuali registrate. La figura dell’esperto, che -come è noto- costituisce una figura chiave della retorica mediale, non produce più un “expertise monolitico, fattuale e incontrovertibile”[35]; la tradizionale e indiscussa autorevolezza dello scienziato è ricondotta a un modello discorsivo dialettico o conflittuale che prevede la possibilità di più opinioni in disaccordo tra loro ma tutte ugualmente legittimate dal riferimento al sapere scientifico. Quest’ultimo è, in pratica, spesso ridotto a un sapere tecnico-operativo di natura quasi politica.

D’altra parte, le stesse questioni finiscono per essere rappresentate con linguaggi (format narrativi e visivi, per esempio) ed entro contesti di relazione con il grande pubblico (abitudini di consumo mediale, aspettative, precomprensioni etc.) che, di fatto, ne obliterano gli aspetti più rilevanti per enfatizzarne altri, più immediatamente trattabili, cioè gli aspetti più emotivi e spettacolari. In altre parole, radio e televisione si comportano sempre più come macchine delle emozioni alle prese con una innovazione scientifica e sociale che viene ricondotta alla dimensione del senso comune, quando non del sentimento e degli affetti.

Questo non significa che il discorso dei media sia sottratto alle regole del dibattito pubblico; significa che le sue regole sono più complesse, più stratificate, e che i diversi livelli a cui esse si attestano (il discorso specialistico e quello emotivo) sono in grado di interagire tra di loro. Come osserva ancora Bucchi, se ancora qualche tempo fa era possibile mantenere distinti i piani del senso comune e quello della divulgazione scientifica che tendeva a illuminarlo, oggi la problematizzazione della conoscenza scientifica fa saltare questa stessa distinzione e contrapposizione. In particolare, a fronte delle situazioni che possono destare allarme sociale (per esempio il tema della clonazione) “si potrebbe osservare che non vi è più un ambito del senso comune in cui le situazioni di emergenza vengono affrontate e percepite secondo il linguaggio del pericolo che è proprio di questo ambito e un ambito scientifico in cui vengono tradotte nel codice delrischio”[36].

E’ possibile provare a elencare alcune emergenze linguistico-espressive di questa commistione di discorsi, in cui i pareri scientifici invadono l’area del senso comune e viceversa:

la retorica partecipativa, per esempio, realizza l’istanza -sempre più diffusa nei media elettronici- di coinvolgere il pubblico nella definizione della situazione e nella costruzione sociale della sua consapevolezza. Interviste a comuni cittadini, sondaggi d’opinione, racconto in prima persona dei protagonisti di una certa vicenda medica (malati e loro familiari), contributi telefonici dal pubblico a casa sono solo alcuni esempi di forme espressive che obbediscono a questa strategia contribuendo a dare una visione competente degli spettatori; in modo analogo funziona il coinvolgimentopragmatico dello spettatore come agente, caricato retoricamente della possibilità di intervenire concretamente modificando la situazione, per esempio largendo fondi per la ricerca scientifica o mobilitandosi a livello associativo.

la personalizzazione delle posizioni concettuali è, d’altra parte, una strategia complementare alla precedente, basata sul principio della umanizzazione del problema. In alcuni casi sono i soggetti deboli a subire questo processo per aumentare il livello patemico del discorso; in altri sono invece gli esperti, che sono invitati ad abbandonare l’impersonalità asettica del loro ruolo per essere costruiti -talvolta con il loro assenso, altre volte in modo involontario- secondo un profilo individuale più marcato, al limite della creazione di un vero e proprio personaggio televisivo. Entrano qui in gioco fattori come la capacità comunicativa dell’esperto, la sua simpatia, la possibilità di incarnare, anche fisicamente, una serie di valori in conflitto entro l’arena della dialettica concettuale. Quanto più un personaggio televisivo “funziona” entro i limiti espressivi del mezzo, tanto più facilmente la sua presenza sarà ricercata in trasmissioni analoghe, autoconfermandosi nel ruolo fino ad assumere la funzione di icona immediatamente riconoscibile di un tema o di una posizione teorica.

Non bisogna poi dimenticare come la pratica della personalizzazione sia particolarmente coerente con l’esigenza, da parte degli apparati informativi, di possedere una rubrica di esperti non solo competenti ma anche facilmente raggiungibili, disponibili a cooperare entro i vincoli di tempo e di spazio in cui si gioca il lavoro della redazione, e che possibilmente abbiano già dato buona prova di sé in video, in audio, in una intervista o come consulenti. Tutte queste caratteristiche congiunte rendono l’esperto una risorsa preziosa e non facilmente sostituibile, che garantisce autorevolezza e, nello stesso tempo, un buon margine di sicurezza in fase di produzione.Spesso, inoltre, la negoziazione tra l’apparato informativo e l’esperto è faticosa e complessa: è quindi più conveniente mantenere i rapporti già consolidati piuttosto che inaugurarne di nuovi. Tutto ciò, evidentemente, contribuisce alla cristallizzazione della figura dell’esperto in relazione a un certo tema scientifico e alla posizione culturale che egli rappresenta.

la polarizzazione narrativa, spesso combinata con gli elementi precedenti, contribuisce a definire un quadro più semplice, e dunque più comprensibile, della vicenda. E’ più facile raccontare un fenomeno complesso se lo si può ricondurre, retoricamente e narrativamente, a uno scontro tra un protagonista e un antagonista. Moltissime metafore, dallo sport al conflitto politico o militare, fino alla mobilitazione dell’immaginario romanzesco, possono articolarsi intorno a questa semplificazione. Da questo punto di vista, un dato particolarmente significativo con cui fare consapevolmente i conti sembra essere la predominante natura narrativa dei media, anche di quelli a carattere informativo. La fine, forse troppo celebrata, dei “grandi racconti” ha lasciato ampio spazio a una narrativizzazione diffusa; una miriade di “piccole storie”, destinate a diventare “good stories” e dunque altamente notiziabili, si affollano intorno ad alcuni schemi narrativi che finiscono per darsi come paradigmatici. Spesso l’origine di questi modelli è a sua volta mediale, mutuata dal cinema o dalla letteratura, come nel caso esemplare dei riferimenti fantascientifici o gotici puntualmente mobilitati quando si parla di clonazione.

Altrettanto spesso, poi, questi modelli nascondono narrazioni, per così dire, mitologiche tutt’altro che scomparse insieme ai grandi racconti ideologici. Meno evidenti, forse, ma per questo ancora più efficaci, operano –per esempio- il mito salvifico della scienza, il racconto stereotipo della inconciliablità tra fede e ragione, il luogo comune dell’integralismo e così via. Queste e simili narrazioni sono particolarmente potenti perché fanno insensibilmente da sfondo, da cornice interpretativa per attribuire, con poco sforzo, familiarità, comprensibilità e senso a questioni spesso molto complesse; lo stereotipo è, infatti, un comodo strumento concettuale di riduzione della complessità.

Il secondo elemento di trasformazione del panorama dei media è da cercare nello sviluppo delle nuove tecnologie della comunicazione basate sull’informatica e sulla telematica; questo sviluppo, infatti, ha progressivamente imposto un nuovo modello di relazione tra i soggetti sociali coinvolti nel processo informativo, modificandone ruoli e poteri. L’interattività resa possibile da queste tecnologie ha eroso la distinzione tra chi produce informazione e chi la consuma, contribuendo a ridefinire la funzione stessa dei professionisti della comunicazione in quanto mediatori.

Le conseguenze sono particolarmente visibili su due fronti: il primo è quello della trasformazione della professione giornalistica, sottoposta a un numero crescente di fonti e a una massa esorbitante di informazioni, non sempre controllabili; il secondo è quello della professionalizzazione del consumatore, da una parte autorizzato a farsi egli stesso fonte (o contro-informatore), dall’altra sollecitato ad compiere in prima persona il lavoro di newsgathering, cioè la raccolta delle informazioni che gli servono per orientarsi praticamente e culturalmente nella complessità dell’esperienza quotidiana.

In concreto, per il tema che interessa queste pagine, le trasformazioni appena ricordate significano una disponibilità sempre crescente (sia dal punto di vista quantitativo, sia da quello della sua accessibilità) di informazione scientifica e biomedica ma, contestualmente, una minore possibilità di discriminare al suo interno sulla base della attendibilità istituzionalizzata delle fonti o dell’autorevolezza delle figure di mediazione. Il processo di costruzione sociale della notizia diviene così meno controllabile (dunque più libero, ma anche più rischioso) e, per certi versi, più permeabile a fenomeni di rumore (con la conseguente perdita di visibilità di parte dell’informazione) e di disinformazione (è il caso, per esempio, delle false notizie che circolano in Internet in modo quasi virale).

Per inciso, varrà la pena ricordare come questo processo di disintermediazione reso possibile dalla rete agisca, contemporaneamente, nei confronti degli operatori dell’informazione tanto quanto nei confronti della stessa categoria professionale dei medici, se è vero che Internet costituisce una delle prime fonti di consultazione nella prassi di automedicina e soprattutto nel ricorso alle medicine alternative: modificare gli strumenti di accesso al sapere (scientifico, medico, specialistico …) tende a modificare, come si vedrà nel prossimo paragrafo, i rapporti sociali e le pratiche quotidiane che dalla diversa distribuzione dei saperi e delle competenze prendono forma.

 

Con quali effetti ?

L’ambito di studio degli effetti sociali dei media è stato attraversato, a partire dagli anni Settanta, da diversi fermenti che hanno contribuito a definire meglio la capacità di influenza che i mezzi di comunicazione esercitano sul corpo sociale[37]; in estrema sintesi, si tratta della capacità di interagire, per accumulo sul medio e lungo periodo, sulla dimensione cognitiva dei loro destinatari, incidendo sugli schemi mentali, sulle precomprensioni, sulle categorie concettuali e sui processi logici con cui ogni soggetto percepisce la realtà che lo circonda, vi riflette sopra e agisce per modificarla. Non si tratta tanto, dunque, di una forza direttamente persuasiva o manipolatrice, quanto di un insieme dirappresentazioni del mondo, a carattere informativo o narrativo, che contribuiscono a orientare le modalità con cui il mondo stesso si dà come oggetto di pensiero, di esperienza, di valutazione. A questa interpretazione ecologicadell’influenza dei media contribuiscono diverse teorie che analizzano come i mezzi di comunicazione “creano la cultura e l’ambiente simbolico e conoscitivo nei quali l’individuo vive e costituiscono una risorsa che egli usa nelle interazioni sociali per situare e rendere significativo il proprio agire”[38].

Nel contesto di questo processo di costruzione sociale della realtà e delle condizioni della sua pensabilità, un motivo di riflessione particolarmente significativo in relazione al tema di queste pagine è suggerito dalla teoria che Noelle Neumann ha definito “spirale del silenzio”; secondo questa visione, “il processo di formazione dell’opinione pubblica è principalmente l’interazione tra il monitoraggio che l’individuo compie sull’ambiente sociale circostante e gli atteggiamenti ed i comportamenti dell’individuo stesso”[39]; il consenso all’interno di un gruppo umano sarebbe così il frutto di un continuo lavoro sociale fatto di costanti processi di allineamento attraverso i quali i soggetti cercano di evitare il proprio isolamento culturale.

Si attiva così un meccanismo circolare e ricorsivo che condanna alla scomparsa dall’orizzonte del dibattito pubblico quelle posizioni culturali che nell’ambiente socio-simbolico dei media vengono rappresentate come minoritarie: nelle parole della Noelle Neumann l’opinione pubblica è quindi “l’opinione dominante che costringe alla conformità di atteggiamento e comportamento nella misura in cui minaccia di isolamento l’individuo che dissente o di perdita del sostegno popolare l’uomo politico”[40].

Se a questa “pressione ambientale” esercitata dai mezzi di comunicazione “alla quale le persone rispondono sollecitamente, con acquiescenza o con il silenzio”[41] si aggiungono la selettività nell’accesso al sistema dei media e la sua forte autoreferenzialità si capirà come i temi e i soggetti sociali più dotati di visibilità mediale tenderanno ad acquisirne sempre di più, mentre quelli poco presenti, scarsamente visibili o comunque minoritari vedranno progressivamente ridotta a zero la loro possibilità di influenzare la costruzione dell’opinione pubblica.

Chiaramente, tutta la portata del coinvolgimento di maggiori o minori fette di questa pubblica opinione si manifesta con ricadute significative sugli stessi sviluppi della ricerca scientifica e della pratica medica. Una prima conseguenza di quanto detto sin qui è l’effettiva pertinenza del tema indicato dal titolo di questa relazione. Non solo il coinvolgimento del grande pubblico intorno al dibattito sulla ricerca biomedica è un dato di fatto, testimoniato dal crescente numero di trasmissioni televisive e di rubriche giornalistiche dedicate –certo in modo generale- ai temi della salute, della medicina, della ricerca scientifica[42]; ma, soprattutto, questo coinvolgimento è funzionale alla comparsa di un soggetto sociale consapevole in grado di intervenire, in modi diversi, sullo sviluppo stesso della ricerca. Due mi sembrano le principali direttrici di questo intervento.

In primo luogo, la costruzione del consenso intorno alle politiche di ricerca da adottare si realizza principalmente attraverso i media, soprattutto in una società come la nostra in cui i corpi intermedi della partecipazione sociale e politica sembrano segnare il passo rispetto al processo di disintermediazione sviluppato dai mezzi di comunicazione di massa. Le grandi iniziative volte a raccogliere fondi da destinare alla ricerca passano necessariamente attraverso i percorsi della comunicazione di massa dove diventa talvolta difficile operare i distinguo necessari; la complessità della ricerca passa in secondo piano rispetto all’emotività spettacolare che governa il successo di pubblico ed economico di questi grandi eventi.

Anche i sondaggi sono, sempre da questo punto di vista, un potente strumento di indagine che facilmente si trasforma, secondo il modello della profezia che si autorealizza, in strumento di controllo. Il grande pubblico costituisce così sia il prodotto sia lo strumento di una aggregazione d’opinione da intercettare politicamente con iniziative legislative e politiche che, a loro volta, saranno oggetto di comunicazione.

D’altra parte non bisogno dimenticare che le modalità con cui la formazione dell’opinione pubblica si traduce in consenso intorno alle politiche di ricerca sono più complesse e meno lineari di quanto si possa pensare; come osservano Bucchi e Neresini, “due decenni di ricerche internazionali sulla comunicazione e consapevolezza pubblica della scienza mostrano con grande chiarezza come a livelli più elevati di informazione non corrisponda affatto una maggiore disponibilità a sostenere la ricerca. Anzi, proprio tra le fasce più informate della popolazione e più sensibili ai temi medico-scientifici si riscontra la maggiore propensione alla mobilitazione critica”[43]. Per contro, i dati riportati dal Censis per l’Italia (Censis 2001) evidenziano una correlazione positiva tra capitale culturale disponibile, consumo di informazione e atteggiamento favorevole nei confronti delle biotecnologie: dopo una fase di ottimismo distratto e superficiale e una di delega crescente, “nella fase attuale l’assenso e il consenso nei confronti degli sviluppi delle biotecnologie appaiono sempre più vincolati rispetto al passato […] alla richiesta esplicita di informazione e di trasparenza da attuare ad opera dell’amministrazione pubblica, dell’industria e del mondo stesso della ricerca”[44].

Probabilmente bisogna tenere conto di tensioni e retroazioni complesse: più diminuisce il gap di conoscenza tra specialisti e opinione pubblica, più aumentano le istanze valutative da parte di quest’ultima; più il processo è condotto secondo modalità consensualiste, più facilmente la valutazione si traduce in un atteggiamento di fiducia, più spazio ottengono le voci conflittualiste, più l’opinione pubblica è portata a utilizzare il margine di conoscenza ulteriore in funzione di controllo o di mobilitazione sociale. In entrambi i casi, quella che sembra affermarsi è comunque una volontà di partecipazione, un recupero di protagonismo da parte dei soggetti interessati, una esigenza di maggiore consapevolezza e informazione:

In secondo luogo, e in modo forse ancora più diretto, la crescente mole di informazione medico-scientifica consumata da telespettatori e lettori finisce per modificare, come un elemento condizionante talvolta in positivo, talaltra in negativo, il mercato stesso della prassi medica: ridefinisce le relazioni medico-paziente su nuove basi di competenze e di fiducia (o di sfiducia), opera una sorta di legittimizzazione sociale tanto della malattia (si pensi ai discorsi pubblici sull’Aids) quanto della cura (ancora il caso italiano della somatostatina o delle cosiddette medicine alternative), ingenera aspettative -e a volte pretese- che possono difficilmente essere corrisposte, può stimolare un “consumismo funzionale solo a un pervicace accanimento diagnostico e terapeutico”[45].

Più che approfondire questo tema è opportuno segnalare la sua stretta connessione con la dimensione culturale dei media che ho ricordato inizialmente: come è stato

osservato da più parti, sono la nuova, diffusa, “cultura del farmaco” e “la medicalizzazione di qualsiasi disturbo o disagio esistenziale, che nella medicina vede la soluzione e che alla medicina garantisce una rendita di posizione” a costituire “il fertile terreno su cui matura ogni genere di conflitto di interesse”[46].

Una questione centrale rispetto all’intero sistema riguarda, dunque, le due categorie, fondamentali per la nostra società almeno secondo analisi come quella di Anthony Giddens[47], di rischio e di fiducia. Tutti i meccanismi di disaggregazione (disembedding) e di distanziamento spazio-temporale tipici della modernità come le tecnologie, i sistemi esperti e i mezzi di comunicazione di massa (anche sotto questo aspetto ricerca e prassi biomedica e media rivelano un tratto in comune) implicano una dose crescente di fiducia, a fronte di una altrettanto crescente dose di rischio.

Secondo Roger Silverstone, i media hanno a che fare con la nostra sicurezza ontologica, “rafforzano la nostra volontà di fidarci di altri sistemi astratti e ci offrono una struttura per fidarci l’uno dell’altro”, ma la “fiducia è come l’informazione: non si esaurisce con l’uso. Più ce n’è più è probabile che ce ne sia; al contrario, si esaurisce se non viene utilizzata. I media del mondo moderno offrono entrambe, ma in un’epoca di mutamento la loro capacità di farlo è notevolmente indebolita”[48].

Un discorso a parte meriterebbero poi i cosiddetti nuovi media; Internet, per esempio, costituisce un ambiente simbolico –il cosiddetto Cyberspazio- in cui il bene fiducia è fondamentale. Le comunità virtuali vivono di fiducia reciproca; l’informazione che circola liberamente nella rete è insieme incontrollabile (spesso non se ne conoscono le fonti e dunque è impossibile applicare criteri di legittimazione autorevole) magarantita dall’appartenenza alla stessa comunità deicybernauti.[49]

A volte, poi, i due termini di rischio e fiducia sono in diretta relazione, come quando i media di massa sono delegati o investiti della funzione di rappresentare e gestire socialmente le situazioni di pericolo sociale (catastrofi, azioni di terrorismo, allarme alimentare, epidemie etc.). Chiaramente, la questione è di grande rilievo quando il tema è così delicato quale quello della salute e dello sviluppo della medicina. In questo caso l’investimento emotivo e fiduciario che tramite la struttura confidenziale dei media viene riversato sul mondo della ricerca e della medicina è inferiore solo alla delusione e al disinganno che derivano dalla scoperta di aver mal riposto la propria fiducia.

Secondo alcuni osservatori, la crisi di fiducia che il nostro sistema sanitario sta attraversando sarebbe da ricollegare proprio a una eccessiva amplificazione delle potenzialità della ricerca medica e alle conseguenti, irrealistiche aspettative del pubblico,necessariamente deluse. Antidoto contro una informazione falsata sarebbe, però, solo un’informazione migliore: “l’effetto regolatorio di un circuito informativo nel campo ella salute e della sanità dipenderà, dunque, […] dalla qualità delle informazioni”e dal modo in cui le informazioni circolano e sono messe a disposizione; “per avere un effetto positivo ciò dovrà avvenire in forma per lo più mediata, attraverso soggetti sociali di varia natura, in parte già esistenti e in parte del tutto nuovi”[50] come le associazioni di malati e i gruppi i pressione. Di contro, l’emersione di casi clamorosi di conflitto di interesse potrebbero minare alle fondamenta il meccanismo stesso della attribuzione di fiducia, scompaginando in modo conflittuale il rapporto tra i diversi attori al suo interno. Non sarà inutile ricordare, a questo proposito, come anche il consenso informato, per non ridursi a una formale dismissione di responsabilità da parte del medico per ridurre i possibili contenziosi, debba alimentarsi costantemente di una relazione fiduciaria; se poi, come si ricorda da più parti, la fiducia costituisce non solo il quadro relazionale in cui si deve inserire il rapporto (anche comunicativo) medico-paziente, ma addirittura il primo placebo, a entrare in crisi è la stessa possibilità di cura.

 

 PER CONCLUDERE



 

Nelle pagine precedenti si è tentato di individuare i diversi snodi del sistema comunicativo che possono rivelarsi problematici rispetto a un corretto uso dei media nel coinvolgimento del grande pubblico e alla possibilità di affermare una visione cristiana su questioni legate alla ricerca biomedica. Alla luce di questa riflessione è possibile tentare, in sede conclusiva, qualche indicazione operativa, sia a livello delle professionalità e delle routine produttive dell’informazione, sia in relazione a una più vasta e generale sfida culturale rappresentata dal panorama delle comunicazioni di massa.

Sul primo versante, come si è detto, lo spazio della costruzione sociale della notizia costituisce anche lo spazio in cui possono riprodursi condizionamenti non solo diretti, sulla scorta degli investimenti pubblici o privati alla ricerca, ma anche indiretti, in grado di creare artificialmente consenso intorno a certi farmaci o certe terapie. E’ in questo spazio che si insinua la possibilità di strumentalizzazioni demagogiche e populiste, sia a carattere economico, sia a carattere ideologico.

Tornare alla considerazione iniziale delle affinità radicali tra etica della ricerca biomedica ed etica delle comunicazioni di massa può essere utile per suggerire una prospettiva operativa a questo proposito. Come osserva Claudio Giuliodori, infatti, “una vera comunicazione delle problematiche bioetiche non può prescindere dalla dimensione propriamente etica […] Arriviamo così a individuare il nocciolo del problema, ossia la necessità che si sviluppi una vera e propria ‘etica della comunicazione’”[51]. Il coinvolgimento del grande pubblico in un dibattito cristianamente ed eticamente orientato sullo sviluppo della ricerca biomedica passa, innanzitutto, attraverso una comunicazione intrinsecamente etica, naturalmente rispettosa dei valori della verità e della persona.In questo quadro, anche le singole questioni sollevate nel corso di questa riflessione possono essere affrontate in termini di deontologia professionale o di etica pragmatica, ma probabilmente richiedono anche la considerazione di livelli di intervento che superano un’“etica della prima persona”.

Si tratterà, per esempio, di sviluppare una riflessione sulla qualità dell’informazione, almeno entro alcuni comparti particolarmente sensibili come quello dell’informazione medica e sanitaria; ancora, si tratterà di ragionare in termini digaranzie di sistema capaci di escludere in modo efficace il rischio di conflitti di interesse.

Per questo motivo è necessario pensare a interventi correttivi che agiscano almeno su due livelli contemporaneamente: da una parte si tratterà, come suggerisce Ron Collins, di sviluppare strumenti di controllo che forniscano costantemente all’opinione pubblica la possibilità di conoscere quali rapporti contrattuali intercorrono tra le aziende interessate e gli scienziati o i centri di ricerca universitaria[52]; dall’altra si tratta di configurare codici di comportamento per le diverse professionalità coinvolte nella fase della pubblicazione dei risultati di ricerca che impongano, per esempio, al ricercatore che ha rapporti di consulenza con un’azienda di dichiararli negli articoli sulle riviste, nelle interviste alla stampa, alle agenzie governative e così via[53].

A questo proposito, traducendo la questione in termini deontologici, vale la pena ricordare l'opportunità di iniziative come il “Codice di deontologia del medico e del giornalista per l’informazione sanitaria”[54]; in esso si raccomandano la formazione specifica e permanente del giornalista che si occupa di materia biomedica e bioetica, la completezza dell’informazione che non deve “creare false aspettative nei malati” (capo 3, art. 9), la distinzione da qualsiasi forma di pubblicità, la rinuncia all’enfatizzazione eccessiva; anche l’omissione di informazione dettata da interessi economici è considerata violazione (art. 17). Particolarmente interessanti sono poi le norme sulla informazione in ambito di ricerca farmacologica, che impongono tra l’altro la citazione delle fonti e l’esclusione di notizie che possano risultare promozionali nei confronti di farmaci in fase di sperimentazione, e gli articoli relativi alla rappresentazione del progresso scientifico in sanità che raccomandano la collaborazione tra medici ricercatori e giornalisti scientifici e tra questi e le fonti di natura pubblica.

Infine sarà necessario investire in formazione sul versante degli operatori della comunicazione, con particolare attenzione nei confronti della prassi della divulgazione medico-scientifica e dei suoi linguaggi. Centrale è, infatti, la competenza dei divulgatori e dunque la loro formazione sia etica che scientifica; ma c’è anche un problema di linguaggio, che suggerisce la necessità di individuare modalità di comunicazione che permettano la semplificazione senza il tradimento del senso profondo, tenendo conto anche del fatto che la confusione genera disaffezione e distacco da parte dell’opinione pubblica.

La sfida si sposta così sul versante culturale. Per stringere ancora più nettamente sul tema che ci sta a cuore bisogna ricordare infatti un’ampia area problematica: è la questione del grado di compatibilità di un discorso cristiano volto a orientare eticamente la ricerca biomedica con l’ambiente culturale rappresentato dai media, soprattutto a fronte di un’alta dose di attenzione esercitata dai mezzi di comunicazione nei confronti della ricerca stessa.

Si tratterà, allora, di sondare con maggiore analiticità i singoli snodi del dibattito culturale in cui possono annidarsi occasioni di equivoco, fraintendimenti, strumentalizzazioni; si tratterà di guardare con consapevolezza ai limiti e ai vincoli degli strumenti in modo da non soggiacere passivamente alle predeterminazioni iscritte nel loro uso. Alcuni tratti strutturali del sistema sembrano decisamente contraddittori: la sua natura commerciale, la sudditanza alle leggi dell’ascolto e del mercato pubblicitario, l’endemica drammatizzazione delle notizie pongono gravi ostacoli. Ancora più difficile sembra, per esempio, un confronto tra la nozione di verità intesa antropologicamente e filosoficamente come base del discorso etico proprio della tradizione cristiana e l’accezione di verità legittimata dal sistema dei media che, come è stato spesso osservato, oscilla tra relativismo soggettivo e consenso della maggioranza. In modo analogo, non bisogna confondere la pluralità di voci e posizioni rappresentate dai media con una loro ipotetica neutralità: qualunque discorso sui valori, per esempio, non può prescindere dalla consapevolezza che, in ambito mediale, l’ostacolo non sta tanto nella loro mancanza ma, paradossalmente, nella loro abbondanza priva di qualsiasi gerarchia, nella loro fungibilità, nella loro equivalenza, nella loro alternanza non stabilmente traducibile in assiologia.

Infine, la formazione del pubblico è richiesta su più fronti: quello mediale (media education) per fornire gli strumenti di un uso critico e consapevole delle risorse informative e culturali messe a disposizione dal sistema; quello scientifico, per consentire una migliore comprensione del reale spessore delle questioni in gioco, al di là dei riduzionismi operati dai media; quello morale, per formare cittadini responsabili e impegnati sul versante delle proprie scelte in ambito di partecipazione sociale agli indirizzi della ricerca.

Realizzare una simile pluralità di livelli e di modalità di intervento significherebbe operare per una ricomposizione culturale unitaria, rimettere al centro della comunicazione la persona come “principio di unità intorno al quale riannodare tutti i fili della conoscenza”[55].


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