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Quella che Valerio sia un ancora sconosciuto Mr. X

In questo caso, non conoscendo come visse quella giornata questo Mr. X, ci sarebbe sempre il problema di dove e come collocare Audisio o meglio supporre che Audisio non si è mai mosso da Milano ed a partire (ma a partire da dove?) fu appunto questo Mr. X con i documenti di Audisio/Magnoli, complice il Comando generale del CVL e quindi venne affibbiata anche la persona effettiva di Walter Audisio a Valerio, soltanto a posteriori;
supporre però che Audisio sia totalmente estraneo alla famosa spedizione è
una ipotesi che non trova molti riscontri.

  1. Quella della contemporanea presenza di Audisio (con funzioni ufficiali per il CLN ed il CVL e di copertura alla uccisione del Duce) e Longo o Mr. X operativi, almeno in alcuni frangenti (uccisione Mussolini e forse, ma è difficile, anche fucilazione gerarchi a Dongo).

In questa eventualità (specialmente se l’altro Valerio fosse Mr. X, cosa più probabile, oppure anche Longo, ma allora solo per il limitato periodo di uccisione del Duce al mattino) si semplificherebbero alcune problematiche precedenti, rendendo anche plausibile il ruolo di una missione non da commandos di Audisio.

Se però si estende la presenza di questo Mr. X anche al pomeriggio a Dongo, allora dovremmo trovarci in presenza di svariate testimonianze (qualcosa c’è, ma sono carenti) che attestassero di aver visto sia Audisio che si presentava ufficialmente come Valerio, ma anche quest’altro soggetto che operava contemporaneamente in sua vece o comunque vi si sovrapponeva.



Un diverso quadro d’insieme degli avvenimenti

Preso atto di quanto sopra esposto, si evince che non è possibile sciogliere con certezza assoluta questo mistero inerente la effettiva presenza fisica di Walter Audisio alias colonnello Valerio in tutti gli episodi che gli sono stati attribuiti.

Le attestazioni però che escludono la presenza di Walter Audisio sono basate più che altro su congetture o sporadiche testimonianze (il parlare spagnolo, il non riconoscimento visivo su ricordi a posteriori, la sua poca affidabilità militare, ecc.), mentre quelle che invece ne attestano la presenza (anche se non ci sono conferme irrefutabili per tutti gli episodi che gli sono stati attribuiti) sono testimonianze e riscontri più consistenti.

E’ doveroso quindi dare a Valerio quel che è di Valerio, anche se con qualche eccezione.

A nostro avviso, però, occorre ragionare diversamente.

E’ un dato di fatto che gli investigatori di questa storia, sia che condividano o meno l’uccisione di Mussolini alle 16,10, sono spesso partiti da un presupposto che però complica le cose ovvero, ragionando sui dettagli forniti per la giornata del 28 aprile dalla versione ufficiale e non ritenendo possibile che un incarico para militare del genere potesse essere stato affidato all’oscuro e mediocre ragioniere Walter Audisio, anche in considerazione poi di alcune peculiarità che quel Valerio mise in mostra a Dongo, ne deducono che non è possibile che Valerio sia Audisio e quindi ipotizzano che Mussolini venne ucciso da un ben diverso sparatore mentre l’identità di Valerio = Audisio fu solo una invenzione a posteriori.

Ora, questo ragionamento, pur essendo corretto, manca di prove tangibili e poi pone tutta una serie di problematiche consequenziali quasi irrisolvibili, compreso anche il non indifferente fatto che sono troppi coloro, in particolare al Comando generale del CVL di Milano e tra i componenti del plotone dell’Oltrepò, che dovrebbero aver sempre mentito riferendosi a Walter Audisio, al suo incarico ed anche al fatto che lo videro partire e poi tornare.

Insomma il corollario di testimonianze, sia pure spesso contraddittorie, attorno alla versione ufficiale non può essere tutto un falso storico.



Molti artefici e spettatori di quegli eventi avranno pur attestato una parte di verità, solo che questa verità, la storiografia resistenziale ha voluta incanalarla unicamente nella sua versione dei fatti: incarico a Walter Audisio, alias colonnello Valerio; partenza per Como con il plotone dell’Oltrepò; arrivo poi a Dongo, spiegazioni, diversivo delle 16 del trio Audisio, Lampredi, Moretti a Bonzanigo e fucilazione di Mussolini e della Petacci al cancello di Villa Belmonte; ritorno a Dongo, fucilazione dei gerarchi, ecc. ecc.

E’ questa la verità della versione ufficiale, ma è soltanto una mezza verità!

Quindi, pur non potendo sciogliere l’enigma, a nostro avviso, bisogna porre il problema in un altra ottica e partire da una diversa premessa.



Primo: l’uccisione di Mussolini, è sicuramente avvenuta al mattino (come vedremo), a seguito di una fretta estrema di eseguirla, ed è indipendente dal ruolo e dalla presenza di Valerio, chiunque egli sia, ma venne eseguita da qualcuno partito appositamente per questo unico scopo da Milano. Occorreva sbrigarsi perchè la custodia di Mussolini, in quelle località, poteva essere soggetta ad imprevisti, tradimenti, colpi di mano, strane manovre o missioni Alleate che l’avrebbero potuto sottrarre all’esecuzione.

E questo qualcuno doveva avere capacità operative e decisionali, oltre che militari, non indifferenti perchè si pretendeva di non perdere assolutamente tempo, di essere in grado di superare qualsiasi imprevisto ed inoltre di avere una autorità e attitudine militare eccellente per imporsi a tutto e tutti onde eseguire una uccisione del Duce sbrigativa.

Egli non abbisognava di un grosso plotone al seguito, ma di un semplice commando di scorta, dovendosi poi appoggiare ad elementi locali fidati e conosciuti in zona (federazione comunista di Como, Moretti, ecc.).

Secondo: a Walter Audisio, fu invece affidato un ruolo di “giustiziere ufficiale” (giustizia ciellenista) con funzioni di rappresentanza del CLNAI/CVL al fine di dare, alle esecuzioni che si dovevano compiere, una veste legale e coinvolgente di tutte le componenti della Resistenza e giustificarsi nei confronti degli Alleati con i quali il governo del Sud ed il CLNAI suo rappresentante avevano pur preso un impegno di consegna del Duce.

Egli quindi deve, giocoforza, perdere tempo passando per le autorità locali di Como (CLN) soprattutto e Dongo (Comando 52a Brigata).

Che la sua missione prescinda dall’urgenza di raggiungere Mussolini è dimostrato dal fatto che Valerio, già non adeguatamente informato del trasferimento notturno di Mussolini, viene poi lasciato, praticamente inattivo, per ore in Prefettura senza che nessuno gli dica di andare in federazione comunista a farsi aggiornare sulla situazione.

Lo si lascia andare a Dongo, dove arriverà solo alle 14,10 e questo nonostante al Comando, ma soprattutto al partito, sono tutti consci della necessità di arrivare al Duce prima degli Alleati!

Audisio dovette quindi, sia che lo sapesse fin dalla partenza da Milano o lo venne a sapere dopo, attendere alle esecuzioni dei ministri a Dongo e - forse - fu poi ancora lui a doversi recare a Giulino di Mezzegra per il sopraggiunto imprevisto di dover recitare una finta fucilazione di Mussolini.



Infatti la necessità di coprirsi legalmente e formalmente con la missione ciellenista di Valerio e quella di agire immediatamente con un altra missione omicida segreta e sbrigativa, portava già la seppur inconsapevole premessa di una possibile messa in scena con una seconda e finta fucilazione che salvasse la faccia a tutti.

Per tornare ad Audisio, se andiamo a vedere bene, i compiti che gli sono stati assegnati, pur richiedendo una certa dose di decisionismo ed energia, potevano anche essere eseguiti senza grosse capacità militari da commandos o eccessiva fretta, visto che i condannati erano custoditi a Dongo ed un buon plotone di esecuzione era stato portato per la bisogna.

A far fronte inoltre, ad eventuali imprevisti, c’erano pur sempre Lampredi, personalità di più alto spessore politico e Mordini, eccellente comandante, entrambi idonei per le emergenze di carattere politico e militare.

Questo incarico quindi, che tranne l’evento della fucilazione dei ministri a Dongo, è più che altro una “investitura ufficiale di giustiziere”, una rappresentanza ciellenista, potrebbe benissimo essere stato affidato ad Audisio o, se vogliamo proprio pensarlo, perchè alcuni elementi possono anche farlo credere, ma poi è alquanto difficile da provare, che al posto di Audisio o più probabilmente in sua sovrapposizione a Como e/o a Dongo, agì qualcun altro rimasto misterioso.



La questione quindi resta aperta, ma noi crediamo che, tutto sommato, si possa escludere una presenza prolungata di Longo in zone operative per quel giorno, soprattutto al pomeriggio, ma non escludiamo, anzi lo riteniamo possibilissimo, una presenza in prima mattinata di Longo, proprio a Bonzanigo, partito poco prima o poco dopo Valerio da Milano, passato in Federazione comunista a Como o nei pressi per raccogliere Moretti e/o Neri (Canali) e poi, dopo essere andato a presiedere o eseguire l’uccisione di Mussolini, tornato immediatamente a Milano.

E se costui non era Longo, ma un altro dirigente comunista, le cose non cambiano di molto. C’era infatti una estrema necessità di operare su più fronti ed una certa fretta, attestata anche da quanto disse, proprio Longo, a Cavallotti (Albero) nei momenti della spedizione di Valerio:

Fate in fretta perchè ci stanno andando gli americani della missione Daddario”.

Tanta era la fretta, aggiungiamo noi, che durante quella giornata del 28 aprile ‘45 il Longo non si sa cosa fece, ma non sembra che si preoccupò della spedizione di Valerio, non si diede da fare per informarlo del trasferimento notturno di Mussolini, anzi lo fece allegramente arrivare, ancora ignaro, dopo le 14 a Dongo mentre lui se ne andò ad incontrare Moscatelli in Milano.

Proprio strana, questa fretta espressa al momento della spedizione di Valerio!

Ipotesi Alessandro Zanella

Quella di Alessandro Zanella, presentata nel suo libro L’ora di Dongo, Rusconi 1993, più che una ipotesi sulle ore finali del Duce è una ricostruzione ragionata formulata anche in base a molti episodi e testimonianze raccolti dall’autore e che, a differenza del libro di U. Lazzaro appena visto, ne da spesso i riferimenti e ne spiega la logica.

La sua ricostruzione parte dal ruolo avuto dalla partigiana Gianna ovvero Giuseppina Tuissi, una degli accompagnatori che portarono i due prigionieri in casa De Maria la notte del 27/28 aprile 1945.

Il dubbio che si pone l’autore (e vedremo più avanti dalla testimonianza decisiva di Dorina Mazzola, l’anziano teste allora abitante a Bonzanigo, quanto questo dubbio sia concreto) è il seguente: dove ha passato la sera tardi del 27 aprile la Gianna (diciamo intorno a mezzanotte)?

La ragazza è poi di sicuro nella spedizione che porta i prigionieri in quella casa, spedizione iniziata a Germasino e assemblata a Dongo forse verso le ore 2 di notte.

Quindi ne consegue che non poteva essersi troppo allontanata prima di quell’ora, nè può essersi trattenuta troppo a lungo fuori del paese di Dongo.

La versione ufficiale (o almeno una delle sue voci) afferma che si era diretta a Milano e quindi è logico dover pensare che partì dal Municipio di Dongo verso sera con un importante fardello da portare al capoluogo lombardo.

Dove esattamente, a chi, perchè, con quale incarico?

Non si sa, ma quel che è certo è il fatto che da qualche parte si è pur recata.



Ad avviso dell’autore, il cui ragionamento non fa una grinza, è questa invece una mezza bugia per tenere nascosto il vero scopo di quel viaggio serale.

Non è credibile infatti che ad una donna sola, senza scorta, possa essere stato affidato un incarico di quella importanza, da Dongo fino a Milano, durante quelle pericolose ore di caos e di sommossa.

Nasce così l’ipotesi che Gianna, verso mezzanotte (l’orario è controverso nelle testimonianze che, comunque, attestano la partenza da Dongo), abbia caricato i bagagli della Petacci e si sia recata molto più vicino, ossia a Bonzanigo, circa mezzora di viaggio da Dongo, dagli amici De Maria per avvisarli dell’imminente arrivo dei prigionieri possibilmente dietro la promessa di una ricompensa.

Poi è rientrata a Dongo da Neri e gli altri e si è accodata al gruppo in partenza.

Quindi la Gianna, se è andata a pre-avvertire i De Maria, in quel suo viaggio di mezzanotte) lo ha fatto almeno due ore prima dell’arrivo dei prigionieri.

L’autore allora giustamente si chiede: perchè poi il gruppo di Pedro, Neri, ecc. con il Duce, andarono a Moltrasio e tentarono di attraversare il Lago (sempre secondo la versione ufficiale), quando Neri già sapeva la destinazione finale dei prigionieri ?

E quindi si da due risposte:

o Neri già sapeva a mezzanotte che non si sarebbe più passati a Moltrasio, o finge di aderire a questo progetto, anche per lasciare una serie di riscontri, ma con la riserva di imporre successivamente una nuova irrevocabile strategia (secondo l’autore tutta sua del Canali, ma forse più probabilmente da altre “forze ispirata. Comunque può anche darsi che, alla partenza da Dongo, si fu costretti ad abbandonare il già predisposto nascondiglio di Bonzanigo e poi, durante il viaggio a Moltrasio, causa imprevisti, si dovette ritornare proprio a casa De Maria. N.d.A.).

Un passo indietro per accennare anche al fatto che occorre, rivedere e spostare (rispetto alla versione ufficiale) alquanto prima (da dopo la mezzanotte) la sveglia che venne data dai De Maria ai figli, con l’ordine di andare a dormire nella baita di loro proprietà a circa un ora di cammino per lasciare libera la stanza.

Un altra pausa, per accennare già qui alla testimonianza di Dorina Mazzola che (come vedremo), asserisce di aver notato, proprio verso mezzanotte, un andirivieni di gente per via del Riale, verso casa De Maria, e che viene qui indirettamente confermata da questa ipotesi dell’autore formulata – è bene sottolinearlo - ben tre anni prima che avvenisse la clamorosa testimonianza Mazzola! 30

In questo nuovo scenario, che esclude che la decisione di portare i prigionieri a casa De Maria sia stata presa all’improvviso, indicando che invece i proprietari furono precedentemente avvisati e forse i bagagli della Petacci ivi portati, ecco che si innesta tutta la ricostruzione dei successivi eventi ipotizzata da A. Zanella.

A Moltrasio infatti, Bellini, Canali e Moretti avevano avuto la chiara sensazione dell’arrivo degli americani e quindi il pericolo di perdere Mussolini durante i trasbordi (quindi l’autore ipotizza che si scese fino a Moltrasio, ma più che altro fingendo di aderire al progetto dell’appuntamento con la barca che dovrebbe raccogliere i prigionieri (o forse a quello di portarli a Brunate, n.d.r.).



Neri, oltretutto, non vuol perdere la preziosa preda che gli consentirebbe di riabilitarsi definitivamente di fronte alla Brigata ed al partito.

Quindi verso le 5,30, quando escono da casa De Maria, il Bellini Pedro (che “apparentemente” doveva rappresentare la linea moderata Cadorna-Sardagna-Puccioni)31 se ne ritorna a Dongo, obbligato al silenzio e oramai fuori gioco (se non consenziente: la sua autorità, di fronte al precipitare degli eventi ed alla volontà degli altri, del resto è cessata definitivamente).

La decisione è presto presa, non ci sono alternative, il tempo che dovrebbero trascorrere i prigionieri in quella casa è troppo aleatorio e foriero di pericoli, e quindi Neri, Pietro e Gianna, tornano indietro e risaliti in casa De Maria spiegano velocemente a Lino e Sandrino il loro cruento programma.

La Lia ed il marito si defilano, non devono ed in fondo non vogliono vedere.

Una osservazione: questo tornare indietro dei tre partigiani non è ben precisato dall’autore, ma è difficile ipotizzare un rientro avvenuto dopo che questi partigiani sono arrivati a Como, ed hanno scaricato l’autista perchè, in tal caso, gli orari si dilaterebbero alquanto ed oltretutto sorge anche il problema di chi avrebbe poi guidato la macchina da quel momento in avanti.32

D’altronde però l’autore non menziona più l’autista Leoni e quindi non lo da espressamente presente al gran finale: ed allora ? (n.d.r.)

Prelevano in fretta i prigionieri, Clara esce così alla bene e meglio e si infila la pelliccia.

Qui notiamo che l’autore omette di dare una spiegazione al particolare della mancanza delle mutandine di Claretta (n.d.r.).

Escono, scendendo per via del Riale: due uomini d’avanti, due dietro e uno al loro fianco, tutti silenziosi, ma pronti ad intervenire.

Più giù è sempre ferma la 1100. Non si sente un rumore, se non quello della pioggia. A qualche centinaio di metri si intravede la parte del paese che si estende lungo la via Regina.



Gianna si porta verso l’imbocco della stradina che scende all’albergo Milano, Sandrino invece va sù, verso via Mainoni.

Ad un certo punto i partigiani prendono a forza la Petacci e la trascinano via dal Duce. Lei si divincola come una furia, abbandona borsa e foulard e cerca di ritornare accanto al suo uomo. Si avvinghia ed urla. “Mussolini non deve morire!”. Mettiti da parte!” gli viene urlato, ma lei seguita a strillare.

Mussolini invece è come stordito , assente, non pronuncia parole precise, forse solo un: “Fate presto”.

Neri urla di bloccare la donna, qualcuno strilla un “forza che ci scappano, prendi il mitra”.

Riescono a staccare Clara, ma lei forsennata riesce a divincolarsi ed ad afferrare il mitra puntato su Mussolini per la canna. Le cade la pelliccia, perde persino una scarpa. L’afferrano per le spalle ed uno urla: “e spara anche a lei!

Mussolini, come destandosi da un incubo, allora urla: “No, no, non potete!

E’ un delitto, è una donna!”. Moretti racconterà “Lui farfugliava qualcosa...”.

Neri ha il mitra che non riesce a sparare e quindi grida a Moretti: “passami il tuo!”, e fa per puntare, ma Clara, spettinata, ancora una volta si frappone.

Le danno dei pugni e finalmente Neri riesce a far partire i primi colpi.

Il Duce si porta le mani al collo con un rantolo sordo.

Clara strilla: “non potete ammazzarci così, siete dei vigliacchi!”. Le arriva in faccia un colpo tremendo col calcio del mitra. E’ Lino che la colpisce allo zigomo destro: “Taci puttana!”.



Lino, che nel tentativo di domare la donna, si è piegato per terra, riesce a fatica a puntare l’arma dal basso verso l’alto e a far partire una raffica risicata che colpisce la donna e sfiora anche Mussolini il quale sta già cadendo pesantemente sulle ginocchia. Clara resta fulminata.

I partigiani restano così per qualche minuto attoniti e tremanti.



Moretti guarda il cadavere di Mussolini che è contratto in uno spasimo estremo. Rantola ancora e lui gli spara un colpo di rivoltella al petto per finirlo.

Qualche lume si accende giù per le case di Azzano, mille occhi sembra che guardino.



Lino ha un’uscita (odiosa): “Và là, và là, Benito, te se cuncià pulito”.

L’autore osserva solo che: Manca poco all’alba, e dovrebbero comunque essere pochi minuti dopo le 5,30.

Facciamo una pausa, per chiederci ancora una volta: come riesce l’autore a ricostruire, in questa sintesi precisa, tutte le frasi e le azioni che si sono svolte in così poco tempo ?

Oltretutto, Moretti è certo che non ha mai riferito queste frasi (la sua confidenza del grido di Mussolini “Viva l’Italia!” venne resa nota solo dopo l’uscita del libro di Zanella e d’altronde l’autore non ne fa cenno), Sandrino, meno che mai, mentre Neri, Lino e Gianna sono morti poco tempo dopo.

Resta solo l’autista della 1100 Leoni, dovendo presupporre che era presente, ma l’autore non lo nomina e più avanti fa capire che non c’è.

Oppure, buttiamo là, l’autore ha raccolto, nel suo giro di testimonianze, qualche racconto di seconda mano a suo tempo riferito da qualcuno dei presenti o da chi aveva sentito qualcosa in merito ?

Certo la scena può anche essere stata ricostruita a senso sulla base di particolari che hanno girato un pò in tutte le versioni e in varie ed incontrollate testimonianze, ma ci sembra che qui si faccia uso di troppa fantasia (n.d.r.).

A Dongo, poco più di venti chilometri di distanza, mezz’ora di auto al massimo, non se lo aspettano di certo, così come a Como o Milano.

Adesso per gli esecutori occorre far presto: Neri torna su casa De Maria e sembra che la Lia, non ha chiuso occhio ed abbia visto.

Trova un nascondiglio per i cadaveri, giù nel ripostiglio tra attrezzi agricoli e rottami.

Intanto giunto chissà da dove, si è unito al gruppetto una vecchia conoscenza del luogo, certo Martino Caserotti Roma¸33 ex carabiniere in Valtellina, tornato dalle sue parti, fedele agli ordini del PCI, ma accompagnato da certi sinistri sospetti, tra cui quello d’una indiretta responsabilità nella morte del capitano Ugo Ricci, il capo della Resistenza caduto nella battaglia di Lenno nell’ottobre del ’44.

Caserotti guarda e non chiede niente, nel frattempo Lino ha portato la pelliccia di Clara sull’auto dove sono evidenti i fori delle pallottole, finirà (secondo lo Zanella) alla vedova del Paracchini a Dongo, offerta per sostenere le spese di famiglia.

Su richiesta di Moretti, il Caserotti reperisce alla svelta tre partigiani, di cui uno secondo la voce popolare sarebbe il Gumma, Francesco Abbate, un mezzo contrabbandiere. I cadaveri vengono raccolti e portati nella casa dove trovano Giacomo De Maria e la moglie più spaventati che mai, pare con un ombrello aperto e lei uno scialle in testa. Riescono con fatica a passare il cancello.

Salutano i padroni di casa e tornano tutti verso l’auto.



Neri ordina a Lino e Sandrino di rimanere ancora di guardia alla casa, gli altri del posto si defilano svelti.

Neri, Moretti e Gianna scendono con la 1100 sulla Regina e vanno verso Como (chi guida ? non viene specificato, n.d.r.)

Ai posti di blocco pronunciano la parola d’ordine di quella notte 52ma e passano svelti. Arrivano a Como verso le 7 forse qualche minuto prima, Neri e Gianna scendono presso la Prefettura, e si danno appuntamento con Moretti dopo un ora e lui, nel frattempo, raggiunge la federazione comunista in via Natta.

Qui spiegherà le ragioni di questa scelta improvvisa, ma necessaria: non tutti sono d’accordo e si presuppone neppure il partito che andrà subito informato.

Decidono allora di aspettare qualcuno da Milano. Quindi congedano Moretti con l’impegno di rientrare a Dongo e di attendere ordini.



Neri e Gianna invece vanno dal Remo Mentasti e poi di nuovo dal sindaco.
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