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Lo scopo vero, in questo caso, è ovviamente quello di ottenere copertura, per quanto è stato fatto, dalla sua autorità.

Alle 8,30 si ritrovano con Moretti e prendono di nuovo la strada Regina per tornare tutti a Dongo.

Informa poi l’autore: dagli esami autoptici e dai reperti riscontrati nei corpi dei due fucilati, si è rilevata la presenza di colpi calibro 9 e 7,65 (questi ultimi sparati sicuramente dal Mas di Moretti, prelevato dal Neri).

Gli altri colpi sono del mitra di Lino. Quello o quelli di pistola sono di Moretti.

Anche il Roma, Caserotti dichiarerà successivamente di aver sparato da distanza minima il colpo di grazia con una pistola calibro 9. Ma non è stato possibile isolarne la presenza tra i reperti.

I buchi nella pelliccia di Clara sembrerebbero sparati alle spalle, ma ciò non si inquadrerebbe con quanto emerso. Probabilmente, in quella situazione, dove i corpi si affrontavano e divincolavano furiosamente e tutto ha avuto uno sviluppo rapidissimo, in un raggio d’azione di pochi metri, può concludersi che si è sparato alla brava, al buio visto che non erano neppure accesi i fari della 1100.

A questo punto lo Zanella accenna ai riscontri sulla presenza del Neri, che sembrerebbe confermata da quanto si deduce dai racconti di Pedro (Bellini) e Bill (Lazzaro), da quanto riferì Oscar Sforni del CLN di Como, il quale come noto era stato rinchiuso momentaneamente con De Angelis nel Municipio di Dongo, per levarli di mezzo (riferimenti questi, però, riferibili al primo pomeriggio ovvero alla spedizione di Valerio, n.d.r.)

Questa presenza, inoltre, l’ha anche confermata Sandrino, per la verità poi ritrattando, ma ripetendolo poi, anche se ambiguamente, al processo di Padova.

Quindi l’autore osserva il fatto che Lino e Sandrino rimasero in quella casa fino al pomeriggio in quanto c’erano ancora i cadaveri e che se vennero trovati senza le scarpe fu perchè i prigionieri erano già morti.

Ma ben più probante, per accertare la presenza del Neri è la deposizione di Tuissi Cesare, il fratello di Gianna all’autorità giudiziaria il 15 settembre del 1945 e di cui abbiamo già parlato e nella quale deposizione ricordò pure:



<>. 34

Che poi si parlasse da più parti come del capitano Neri, quale esecutore lo troviamo anche nel quotidiano romano “Libera Stampa” del 25 settembre 1945, foglio nel quale venne definito “giustiziere di Mussolini”.

Arrivati a questo punto l’autore introduce il racconto del dopo, del che fare dei corpi di Mussolini e la Petacci.

Descrive la scena in cui Bill a Dongo si vede escluso da una riunione privata tra Pedro e Valerio, per la qual storia l’autore afferma senz’altro riguardare il problema dell’uccisione di Mussolini.

Essi sanno bene che sul Neri pende una condanna a morte come spia e poi ha agito senza il loro benestare, sottraendo al partito l’occasione di una bella esecuzione in piazza. In conclusione il Neri e la Gianna non devono apparire come esecutori e quindi occorre inventare in qualche modo una fucilazione ufficiale. Visto che ha sparato anche Pietro (da maramaldo, annoterà il generale Zingales), è bene che il trio resti fuori dall’uscio della riunione ed aspetti le decisioni.

Il resto è assai simile ad altre ricostruzioni: Valerio, con Neri, la Gianna, Pietro e Guido (Lampredi) partono da Dongo con la 1100 nera guidata da Geninazza (probabilmente non tutti insieme con la stessa macchina) intorno alle 15,15 / 15,30. Vanno verso casa De Maria e per prima cosa pensano a dare, alla stanza dove hanno soggiornato Mussolini e la Petacci per pochissimo tempo, un aspetto più vissuto. Poi la Gianna mette un vestito e la pelliccia della Petacci, mentre Neri si imbacucca travestendosi da Duce.

Il gruppo, scortato da partigiani con il mitra puntato, percorre tutta via Mainoni d’Intignano, passa davanti a casa Peruzzi e a palazzo Brentano.

Arrivano al centro di Bonzanigo dove c’è il Lavatoio e a destra parte la strada per visitare i reperti archeologici di Prà de la Teca, cercando di farsi vedere più che possono. Sembra che vennero scorti da alcune donne lì al lavatoio.

Passati sotto il voltone che segna l’ingresso nel paese salgono subito nella macchina di Geninazza che era in attesa.

Dopo poche centinaia di metri raggiungono il cancello di Villa Belmonte, in via XXIV Maggio¸ dove ad attenderli c’è un auto, quella che ha accompagnato precedentemente a Dongo Valerio, Mordini, Landini e il Barba35, con i cadaveri a bordo di Mussolini e di Clara prelevati dal magazzino di casa De Maria.

I corpi oramai rigidi vengono scaricati: la Petacci agevolmente, mentre il Duce per le molte ore passate rannicchiato nel magazzino pare quasi seduto sulle gambe.

Li appoggiano in quella posa gelida alla colonna sinistra del cancello. Piove. Sparano qualche raffica di mitra, in alto, che colpisce la parte posteriore della cappellina dedicata alla Madonna del Rosario, alle spalle del cancello stesso. Quindi disseminano intorno alcuni oggetti della donna: la borsetta, le scarpe, il soprabito, per dare un tono di verità alla scena.

Lasciati soli Lino e Sandrino di guardia ai cadaveri se ne tornano tutti a Dongo ad eseguire le altre fucilazioni, sicuri di non essere stati notati nella messa in scena.

Arrivati a Dongo si narra che Valerio avrebbe detto “Giustizia è fatta!”, mentre Moretti, ostentando il suo mitra, “Questo mitra ha ucciso il tiranno!”.

Quanto ai De Maria, per non destare sospetti nei vicini, hanno aperto la porta del magazzino e poi sono scesi anche loro sulla via Regina per vedere, a quanto si dice, Mussolini da vivo che dovrebbe passare prigioniero.

Anche in questo caso, come dobbiamo

considerare, la ricostruzione dello Zanella ?

A nostro avviso il libro è ben documentato e pieno di particolari, con molte testimonianze, come detto raccolte o ritrovate in miriadi di pubblicazioni dall’autore e questo depone a suo favore.

L’opera dello Zanella è senza dubbio una delle più serie ed obiettive in circolazione, ma non convince del tutto la ricostruzione delle fasi della morte del Duce, anche perchè, come già Urbano Lazzaro non è in grado di dimostrare che c’era Longo mentre veniva ucciso Mussolini, così Zanella non può dimostrare che fu Canali Neri uno dei giustizieri.36

Questa storia della presenza del Canali a Bonzanigo, già intuita da F. Lanfranchi nel 1945, ed in bocca a molti ricercatori, non deve però essere sotto valutata anche alla luce di una tardiva testimonianza della sorella del Canali stesso che si aggiunge a quelle della madre del Neri. Ad 89 anni anni, infatti, Alice Canali ebbe a rivelare che il fratello, nel famoso ultimo incontro con la madre Maddalena Zannoni si sentì dire da costei: «Non dirlo, Luigi, non dirlo!». Che cosa non doveva dire di così grave e pericoloso, il capitano Neri? Che era stato lui ad abbattere il Duce!

Alice Canali, di due anni più giovane del fratello Luigi, aggiunse:

«La sua partecipazione al plotone di Giulino di Mezzegra è stata una delle cause della sua morte violenta, ad opera di sicari del Partito comunista>>.

Se questa tardiva testimonianza risponde al vero si avvalorerebbero le tesi che vogliono il Canali operare più che altro in funzione inglese e quindi lo spiazzamento e la successiva messa in scena del PCI a villa Belmonte e probabilmente anche la sua eliminazione, ma non è escluso che possa esserci stato anche un connubio tra gli inglesi ed il PCI, con un ruolo non ben chiarito del Neri che poi, elemento inaffidabile per il partito, venne eliminato

Nella sua ricostruzione, però, lo Zanella non convince perchè sembra impossibile che il Canali, il Bellini ed il Moretti possano aver autonomamente deciso e condiviso di eliminare il Duce.

Considerando il fatto che, nelle sue affannose ricerche, l’autore ha sicuramente raccolto elementi e confidenze veritieri, ma deformati, di una realtà da anni travisata e li compariamo alle vere circostanze della morte del Duce, che ricostruiremo nell’ultimo capitolo, ci accorgiamo che, sia pure con modalità diverse, alcuni importanti particolari possono quasi corrispondere:

la morte del Duce vicino casa de Maria (invece che, come vedremo, nel cortile della casa); l’esecuzione all’alba (invece che intorno alle ore 9); i cadaveri parcheggiati nel ripostiglio attrezzi di casa, che dovrebbe essere la mezza stalla davanti alla quale è stato ucciso il Duce e lì lasciato per un certo tempo (invece che nell’albergo Milano); la messa in scena al cancello di villa Belmonte, ecc.

Eccellente inoltre l’intuito dell’autore, anche se non originale, di considerare già preordinata dalla sera tarda del 27 aprile la prigione in casa De Maria, con Gianna che vi si reca, preventivamente, con i bagagli e quindi, la messa in dubbio di tutta la vicenda dei giretti notturni a Moltrasio e ritorno durante il trasferimento dei prigionieri.

Viceversa è troppo romanzata la vicenda dell’esecuzione (non è possibile che l’autore abbia avuto tutte quelle frasi e tutti quei particolari); analogamente è mal spiegato lo spostamento dell’autista Leoni e come, il terzetto, ha guidato la 1100 per tornare a Como.

L’orario dell’uccisione è in linea con gli studi del dottor Alessiani, le modalità della morte non tanto.

Il lavoro di Zanella, purtroppo prematuramente scomparso, lo ripetiamo, fa comunque intuire come il vaglio di testimonianze, in massima parte cercate nei luoghi e tra i superstiti di quegli eventi, che pur un altra verità, per quanto si vuole distorta, aleggia nell’aria, ma il cammino per decodificarla e farla uscir fuori del tutto è ancora molto lungo e faticoso.



La “confessione” di G. Landini (tramite F. Bernini)

Questa di Fabrizio Bernini, giornalista e scrittore storico di Voghera (commendatore del Sovrano Ordine di Malta) non può propriamente definirsi una ipotesi, essendo infatti una ricostruzione dei fatti sulla base di una testimonianza di chi asserisce di “esserci stato”.

Il Bernini l’ha resa nota, attraverso il suo libro “Così uccidemmo il Duce” Edizioni C.D.L. 1998, con il vantaggio di poterla adattare in confutazione alle versioni ed ipotesi pubblicate negli anni precedenti, le principali delle quali abbiamo poco prima riportato.37

Questa nuova versione resa nota dal Bernini si basa dunque sulla testimonianza tardiva di Orfeo Landini Piero, uno dei due comandanti dell’Oltrepò giunti a Dongo con Valerio.

Testimonianza tardiva, perchè lo stesso Landini ebbe modo nel lontano 1945, di fornire già alcune testimonianze su quei fatti, pubblicate allora in R. Salvadori:

Nemesi. Dal 25 al 28 aprile 1945. Documenti e testimonianze sulle ultime ore di Mussolini”, Milano 1945 e la stessa cosa fece anni dopo, anche con Franco Bandini, ma sempre con un alto grado di imprecisioni.

Soltanto però nel 1998 il Piero, oramai ottantacinquenne, rese finalmente questa nuova testimonianza nella quale ammise, per la prima volta, di essere stato partecipe di quegli eventi (fino ad allora si credeva invece che il Landini, nel pomeriggio del 28 aprile, era rimasto a Dongo con il plotone del’Oltrepò).

L’autore del libro supporta questa testimonianza clamorosa con qualche altra tardiva ammissione di alcuni ex componenti del plotone dell’Oltrepò e quindi, pur senza confutarle apertamente, cerca di superare tutte le precedenti versioni e testimonianze alternative.

Il fatto è che la stessa testimonianza del Landini, oltre a non convincere molto per alcuni suoi particolari alquanto improbabili, contiene anche qualche contraddizione ed inoltre l’autore stesso, nel suo libro, volendo riportare a sostegno di questa rivelazione stralci di altre testimonianze, finisce spesso per fare confusione.

Comunque sia, nonostante questa testimonianza dovesse avere del clamoroso, dati gli argomenti ed il nome del partigiano referente, ha finito per non avere molto credito, nè molto spazio sulla stampa e per via della conferma di una “doppia fucilazione” è stata ovviamente rigettata anche dagli storici legati alla versione ufficiale.

Il Bernini inizia con l’indicare il capitano Neri (Canali) come presente alla morte di Mussolini, ricordando le testimonianze che lo vogliano in quei posti a quell’ora ed, oltre a quella di Pedro il Bellini, in particolare quella della madre del Canali Maddalena Zannoni-Canali che confidò, secondo Cavalleri, che “Mussolini avrebbe sollecitato i suoi carnefici a fare presto”. Si rimarca quindi la testimonianza della stessa al processo di Padova, dove rispose a domanda, decisamente: “Mio figlio mi disse che era presente.

Ma Neri, si dice, non salì a Bonzanigo con Valerio bensì, con tutta probabilità ed anticipandolo di poco, con Riccardo (Mordini) e due partigiani dell’Oltrepò pavese stranamente non indicati nei nomi.

Quindi, grazie alla perfetta conoscenza di quei luoghi si precipitò a casa De Maria giungendovi prima del colonnello Valerio. Secondo il Landini, Neri utilizzerà la Lancia Aprilia di Oscar Sforni e De Angelis rinchiusi in Municipio a Dongo.

Chi salì invece con Valerio (sembra con lui, anche se in auto c’erano già Moretti e Lampredi, o forse, non è bene specificato, con altra auto) fu proprio lui, il commissario Piero, che fino ad oggi avrebbe taciuto per amor di parte e per imposizione del PCI tramite giuramento fatto in via filodrammatici all’ex compagno di cella Marenzi, come accenniamo in altra parte. Considerando che poi il Landini attesterà anche la presenza di Bill il Lazzaro, al momento dell’uccisione del Duce, dobbiamo dedurne che, da Dongo, partì una bella carovana di personaggi.

Con sorpresa, afferma il Bernini confermando questo racconto, nel 1998 in Zavattarello, uno dell’Oltrepò, l’Arturo (Giacomo Bruni), componente la spedizione sulla piazza di Dongo con funzioni di autista, ebbe a raccontargli:

Dopo essere arrivati sulla piazza di Dongo, mentre stavamo mangiando qualcosa, Valerio e Piero ci dissero che si sarebbero allontanati per qualche minuto. Poi seppi che Piero era andato su da Mussolini”.

Anche il Moretti Pietro, ricorda poi l’autore, fece qualche ammissione sulla presenza di Landini a Bonzanigo, per esempio a domanda del prof. Guderzo:

Te lo ricordi Piero, il mio commissario ?”, sembra che il Moretti rispose:

Oh Piero, era su anche lui. Era il più scalmanato lui!”.

Una domanda simile, fatta da Domenico Mezzadra nel 1983, con in risposta una affermazione analoga, si ebbe anche riguardo alla presenza del Mordini (Riccardo), (n.d.r.).

Il vero problema però non sarebbe tanto la presenza di Mordini al pomeriggio, quanto invece alla mattina! e le risposte del Moretti, apparentemente non in linea con la versione ufficiale, non sono esaustive, (n.d.r.).

Finalmente l’autore, dopo aver ricordato che ancora Arturo Giacomo Bruni disse di aver saputo, sulla piazza di Dongo, che Valerio e Landini erano andati a Bonzanigo, prende a raccontare la confessione del Piero, partendo dal fatto che già egli si fece scappare una frase rivelatrice:

Io Mussolini in Dongo l’ho visto due volte, l’una vivo e l’altra mortosenza rendersi conto, dice il Bernini, di aver detto una mezza bugia ed una mezza verità, visto che lui in quella piazza c’era arrivato solo il pomeriggio del 28 aprile mentre il Duce stava in casa De Maria e fu poi raccolto morto al bivio di Azzano la sera.

Quindi, incalzato dall’autore, il Piero in un pomeriggio di primavera si sarebbe aperto ad un racconto inedito.

Il racconto di Piero, l’autore lo fa iniziare prendendo lo spunto dalla dichiarazione di Valerio riportata nel suo libro “In nome del popolo italiano” già citato, dove afferma che partì da Dongo alle 15,10 precise e che con l’autista erano in quattro, ma solo grazie a Pietro evitarono le soste ai posti di blocco, scrisse infatti Audisio:

Lasciata la strada del lungolago dopo Mezzegra, la strada vicinale per la quale la macchina si inerpicava a fatica, stretta e deserta, ci conduceva a Bonzanigo. Lungo il percorso scelsi il luogo della fucilazione, una curva, un cancello, ecc.”.

Corregge invece il Landini:

La strada stretta terminava poco prima di casa De Maria dove si trovava uno slargo, allora erboso, che notai occupato da una seconda autovettura che identificai per l’Aprilia nera di Sforni”.

Subito una osservazione: al tempo di quel racconto l’autore e il Landini avevano sicuramente letto il libro di G. Pisanò 38 con la confutazione del percorso asserito da Valerio per andare e uscire da casa De Maria e le precise indicazioni dello slargo allora erboso, non si può escludere pertanto che proprio da questi elementi, certamente già conosciuti, ma di certo non particolarmente noti, sia venuto lo spunto per fornire queste precisazioni.

Infatti ci pare strano che Piero rammenti, dopo tutti questi anni, un percorso fatto una sola volta in circostanze eccezionali e perfino con il particolare ed importante ricordo dello slargo erboso, del quale sa anche (!) che così era allora, ma non più oggi!

Comunque sia l’arrivo di questi giustizieri collocato su via del Riale allo slargo erboso e non dalla parte opposta del Lavatoio è corretto, ma riveste la sua veridicità se considerato in un altra dimensione di tempo (al mattino n.d.r.).

A questo punto, l’autore accenna a Bill (Urbano Lazzaro) il quale, pur non ammettendo la sua presenza nel gruppo dei giustizieri, dicendosi in quell’ora impegnato alla identificazione del sedicente console spagnolo (Marcello Petacci), descrisse poi alcuni particolari in casa De Maria e nella stanza di Mussolini (“che portava camicia nera, pantaloni alla cavallerizza e stivali”), asserendo il Lazzaro che, questi particolari, li avrebbe avuti successivamente dalla Gianna (Giuseppina Tuissi). Per l’autore e per il Landini, invece, anche Bill faceva parte di quella spedizione, ma non viene spiegato con chi e con quale macchina vi arrivò.

Poi accenna a Riccardo (Mordini), asserendo che fu uno dei pochissimi che mai fece parola su quei fatti e non rilasciò interviste, ne memoriali e neppure confidenze, tranne forse una con gli ex compagni di lotta.

Infatti Angelo Cassinera, così afferma, ma per la verità non va molto in là con il discorso e quindi questo aneddoto serve a poco:

Riccardo viveva in due angusti locali concessigli dalla federazione comunista milanese. Messo in disparte dal partito era stato assunto dall’istituto Vendite Giudiziarie di Milano e faceva le consegne per la città su di un triciclo..39.

Nel 1951, epoca calda per il partito, (durante un viaggio con Cavallotti, Albero e Mordini), Mordini si lasciò andare ai ricordi e si spinse a raccontare quanto accadde in Dongo e lassù a Bonzanigo, (ma qui l’autore non riporta quanto effettivamente fu raccontato, n.d.r.).

Facciamo un inciso per notare come tutto questo affaccendarsi di numerosi partigiani citati, ci sembra un mischiare, da parte del Landini una parte di vero, di verosimile e di assurdo, ovvero di episodi del mattino (uccisione del Duce) e del pomeriggio (sceneggiata a villa Belmonte).

Ma torniamo al racconto del Landini, reso all’autore:

Poco dopo vidi scendere il Duce e la Petacci, seguiti dal gruppo di partigiani armati. Mussolini pareva una larva d’uomo. Non c’era più. Preceduti dai due prigionieri, percorremmo alcuni metri e quindi imboccammo a destra un viottolo che ci occultava da sguardi indiscreti. Di guardia.... ponemmo i due partigiani dell’Oltrepò che avevano scortato Mordini....40 Il Duce camminava spedito. Non pareva sospettoso.



Indossava la giacca dell’uniforme ed era però senza cappotto, mentre la Petacci era vestita con un taileur e portava un cappotto al braccio.

Nessuno parlava.... i pochi abitanti del luogo se ne erano tutti andati sulla via Regina già da tempo, richiamati dalla falsa notizia che vi sarebbe transitato Mussolini prigioniero. I due furono portati presso un muretto, forse venti o trenta metri oltre l’inizio del viottolo. Del nostro gruppo alcuni avevano il mitra altri la

pistola. Ricordo che Valerio aveva un Thompson e Mordini un’arma spagnola, una pistola a canna lunga di cui mi sfugge il tipo e sicuramente pure la pistola, una Beretta calibro nove. Io avevo, invece, una Machine-pistole tedesca.

Valerio li fece fermare ed addossare al muretto, quindi pronunciò quella frase che teneva scritta o impressa nella mente...

Moretti per primo tolse la sicura dall’arma e per primo fece fuoco sul Duce, che per la breve distanza che tenevamo dai giustiziandi, in considerazione della scarsa larghezza del viottolo, cercò con un comprensibile gesto di difesa, di abbassare la canna, ma il colpo partì e si conficcò sull’avambraccio destro di Mussolini; poi ne partì un secondo che ugualmente andò a segno sullo stesso braccio”.

Facciamo una pausa e consideriamo un paio di particolari:



primo: che fine ha fatto la giacca dell’uniforme vista dal Landini sul Duce?

secondo: possibile che il Landini, anche se, come lui afferma, presente al fatto, potè dedurre in quei brevi concitati frangenti, che i due primi spari (di mitra) avevano colpito il braccio destro del Duce? O non lo venne per caso a sapere dalla nota autopsia successiva? L’autopsia però parla di due buchi al braccio, ma trattasi di un solo colpo, perchè uno è di uscita; lui invece ci viene a raccontare di due distinti colpi che non hanno assolutamente alcun riscontro.

Ma andiamo avanti.

Prima che Moretti, facilitato dallo smarrimento del fucilando, esplodesse ancora altri tre colpi che andarono a segno nella parte alta del corpo, la Petacci, gridando che Mussolini non doveva morire, afferrò l’arma di Mordini che vedeva puntata su di lei.

Per liberarsi Mordini finì per colpire con il calcio dell’arma la donna al volto.41 La stessa rivoltasi verso il Duce, gli fece scudo col suo corpo mostrando al plotone la schiena che fu quindi trafitta nella parte delle spalle da quattro colpi del mitra di Mordini. Gli stessi colpi trapassarono Mussolini nella parte alta del torace”.

Particolare anche se poco importante: Mordini viene descritto con un mitra, mentre poco prima era stato descritto con due pistole, una Beretta ed una a canna lunga spagnola (evidentemente per quest’ultima intendeva una mitraglietta n.d.r).

Ancor poco importante, ma alquanto sorprendente (anche se possibile, considerando una diversa balistica) è il fatto che, essendo quasi certo che Mussolini venne attinto da due armi diverse: un mitra appunto ed un arma automatica tipo una pistola, dal racconto del Landini, invece, dovendo dare per scontato che Moretti ha un mitra e, da come dice l’autore, anche Mordini spara raffiche di mitra, si deduce che Mussolini sarebbe stato colpito da proiettili sparati da due mitra diversi.

Con questa versione il Landini, pensa inoltre di risolvere il problema (insoluto per la versione ufficiale) della Petacci colpita alle spalle, ma stranamente non la descrive con la pelliccia (più avanti il Bernini cercherà di aggiustare la mancanza, spiegando anche i buchi nella pelliccia n.d.r.), e asserisce, introducendo un altra grave incongruenza, che gli stessi 4 colpi di mitra che la raggiunsero alle spalle attinsero poi anche Mussolini.

Ora se questi 4 colpi del mitra di Mordini, che afferma il Landini: “trapassarono Mussolini nella parte alta del torace”, fossero gli stessi che, arrivati quasi sulla spalla sinistra, gli uscirono dall’altra parte formando quasi un quattro di quadri, è alquanto improbabile che, avendo prima attinto la Petacci colpirono poi Mussolini mantenendo questa rosa così ristretta.

Viceversa è difficile pensare che il Landini poteva riferirsi ai colpi che attinsero l’emisoma destro visto che sono tre (e del resto aveva prima detto che appunto il Duce venne colpito precedentemente da altri tre colpi di Moretti “alla parte alta del corpo”, dopo i due gia sparati al braccio). Di questi tre colpi, però, uno andò sotto il mento ed il più basso di loro causò la rottura dell’aorta e la morte immediata del Duce con il suo sicuro crollo al suolo.

Come vedesi il Landini, nella sua presunzione di voler attestare una completa e precisa sequenza e dinamica di spari, crea una ricostruzione altamente improbabile.

Continua quindi Landini:

In quel frangente, sia io che gli altri restanti del gruppo sparammo colpi” (quanti ? a chi? e cosa colpirono ? non lo dice, n.d.r.), “meno Valerio a cui si inceppò il mitra. Non so chi prese l’iniziativa in quei momenti per l’esecuzione a quel muretto del viottolo”.

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