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I introduzione


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degli uomini col numero e l'importanza delle verità che sono ormai incontestate. Lo spegnersi, in una questione dopo l'altra, del dibattito serio è un accidente necessario nel consolidamento dell'opinione – tanto salutare nel caso di opinioni vere quanto è pericoloso e nocivo se le opinioni sono errate. Ma anche se questo progressivo restringersi dei limiti della diversità di opinione è necessario in entrambi i sensi del termine – è contemporaneamente inevitabile e indispensabile –, non siamo perciò obbligati a concludere che debba avere solo conseguenze positive. La perdita di un aiuto così importante all'intelligente e viva comprensione di una verità, come è quello dato dalla necessità di chiarirla o difenderla nel contraddittorio, è una conseguenza negativa non trascurabile all'universale riconoscimento del vero, anche se non ne supera i benefici. Quando questo aiuto viene a mancare, confesso che vorrei che i maestri dell'umanità ne cercassero un surrogato – uno strumento che renda chi studia una data questione altrettanto cosciente delle sue difficoltà che se gli venissero contestate da un oppositore teso a convertirlo. Ma, invece di trovarne di nuovi, si perdono gli strumenti del passato. La dialettica socratica, così magnificamente illustrata nei dialoghi di Platone, era uno strumento analogo. Si trattava sostanzialmente di una discussione negativa delle grandi questioni della filosofia e della vita, diretta con consumata abilità al fine di convincere chiunque si limitasse a far suoi i luoghi comuni dell'opinione corrente che non comprendeva la questione – che non aveva ancora attribuito un significato preciso alle dottrine professate –, affinché, resosi conto della sua ignoranza, si incamminasse verso una convinzione solida, fondata sulla chiara comprensione del significato delle dottrine e dell'evidenza a loro favore. Le discussioni scolastiche medioevali avevano uno scopo abbastanza simile: far sl che l'allievo comprendesse la propria opinione e (per necessaria correlazione) l'opposta, e fosse in grado di affermare i fondamenti dell'una e confutare quelli dell'altra. Queste sfide oratorie avevano certo l'irrimediabile difetto che le premesse cui si rifacevano derivavano dall'autorità e non dalla ragione; e, come disciplina mentale, erano sotto ogni aspetto inferiori alla potente dialettica che aveva formato gli intelletti dei socratici viri; ma il pensiero moderno deve a entrambi molto più di quanto non voglia generalmente ammettere, e l'educazione moderna non comprende alcun strumento che minimamente svolga la funzione di questi due. Chi deriva tutta la sua istruzione da insegnanti e libri, anche se sfugge all'incombente tentazione del nozionismo, non ha alcun obbligo di considerare entrambi gli aspetti di una questione, che quindi raramente sono conosciuti, persino dai filosofi; e la parte più debole di ogni argomentazione a difesa di un'opinione è la replica agli antagonisti. Attualmente è di moda screditare la logica negativa – quella che individua debolezze teoriche o errori pratici senza affermare verità positive. Questa critica negativa sarebbe certo molto insoddisfacente come punto d'arrivo, ma come mezzo per conseguire conoscenze positive o convinzioni degne di essere chiamate tali non sarà mai abbastanza apprezzata; e fino a quando non se ne riprenderà l'insegnamento e l'esercizio sistematico vi saranno pochi grandi pensatori e un basso livello intellettuale complessivo in tutti i campi che non siano la speculazione matematica e fisica. In ogni altro settore, non vi è nessuno le cui opinioni meritino di essere definite sapere, a meno che altri non gli abbiano imposto, o non abbia seguito spontaneamente, lo stesso percorso intellettuale che un'attiva controversia con degli oppositori gli avrebbe richiesto di compiere. È quindi molto peggio che assurdo rifiutare, quando ci si offre spontaneamente, ciò che quando manca è così indispensabile, eppure così difficile, creare. Se vi sono persone che negano un'opinione generalmente accettata o che la negherebbero se la legge o il pubblico glielo permettessero, ringraziamole, ascoltiamole a mente aperta e rallegriamoci che qualcuno faccia per nostro conto ciò che altrimenti dovremmo fare da soli, e con fatica molto maggiore, se abbiamo un minimo di rispetto per la certezza o la vitalità delle nostre convinzioni. Resta ancora da menzionare una delle cause principali che rendono così vantaggiosa la diversità di opinioni, e continueranno a farlo finché gli uomini saranno giunti a uno stadio di progresso intellettuale da cui ora sembrano incalcolabilmente lontani. Fino a questo punto abbiamo considerato soltanto due possibilità: che l'opinione comunemente accettata possa essere falsa, e qualcun'altra, di conseguenza, vera; oppure che l'opinione comune sia vera, ma il contrasto con l'errore sia essenziale per una chiara comprensione e una profonda percezione della sua verità. Ma vi è un terzo caso, più frequente dei primi due: quando le dottrine contrastanti, invece di essere una vera e l'altra falsa, contengono entrambe una parte di verità, e l'opinione dissidente è necessaria per integrare la dottrina più generalmente accettata con ciò che le manca. In questioni che esulano dal dominio dei sensi, l'opinione popolare è spesso vera, ma di rado o mai costituisce l'intera verità. Ne è una parte, grande o piccola a seconda dei casi, ma esagerata, distorta, e isolata dalle altre verità che dovrebbero accompagnarla e precisarla. D'altro canto, le opinioni eretiche sono generalmente alcune di queste verità soppresse e trascurate che spezzano i vincoli che le imprigionavano e, o cercano di riconciliarsi con la verità contenuta nell'opinione comune, o affrontano quest'ultima come un nemico, proclamando in modo altrettanto esclusivo di essere l'intera verità. Fino a oggi è stato più frequente il secondo caso, poiché tra gli uomini l'unilateralità è sempre stata la norma, la multilateralità, l'eccezione; quindi anche nelle rivoluzioni dell'opinione una parte della verità generalmente tramonta al sorgere di un'altra. Persino il progresso, che dovrebbe assommarle, nella maggior parte dei casi si limita a sostituire una verità parziale e incompleta a un'altra; e il miglioramento consiste soprattutto nel fatto che il nuovo frammento di verità è più richiesto, più adatto alle necessità dell'epoca di quello che sostituisce. Dato questo carattere di parzialità dell'opinione predominante anche quando i suoi fondamenti sono veri, ogni opinione che comprenda in una certa misura la parte di verità omessa dall'opinione dominante, dovrebbe essere considerata preziosa, anche se in essa si frammischiano confusamente verità ed errore. Nessun buon giudice delle cose umane si indignerà perché coloro che ci costringono a prendere nota di verità che altrimenti ci sarebbero sfuggite se ne lasciano a loro volta sfuggire alcune che per noi sono evidenti: penserà anzi che finché la verità generalmente accettata è unilaterale, è più che in altri casi auspicabile che anche quella impopolare abbia assertori unilaterali, come lo sono generalmente i più energici, quelli che più riescono ad attrarre un'attenzione riluttante su quel frammento che ai loro occhi è tutta la saggezza. Così nel XVIII secolo quasi tutte le persone colte, e tutti gli incolti che da loro si facevano guidare, si perdevano nell'ammirazione della cosiddetta civiltà, delle meraviglie della scienza, della letteratura e della filosofia moderne, e sopravvalutavano di molto la differenza tra i moderni e gli antichi, illudendosi che fosse tutta a loro favore; nel mezzo di questo compiacimento generale, fu estremamente salutare l'esplosione dei paradossi di Rousseau, che frantumarono la massa compatta di questa opinione unilaterale costringendone gli elementi a ricombinarsi in una forma migliore, arricchiti da altri fattori. Non che le opinioni prevalenti fossero nel loro complesso più lontane dalla verità di quelle di Rousseau; al contrario le erano più vicine: contenevano più verità positive, e molto meno errore. Ciononostante, nella dottrina di Rousseau era racchiusa – ed è stata trasportata fino a noi dalla corrente dell'opinione – una notevole misura proprio di quelle verità che mancavano all'opinione comune e che sono il sedimento rimasto dopo l'ondata di piena La superiorità della vita semplice, l'effetto snervante e demoralizzante dei vincoli e delle ipocrisie di una società artificiale, sono idee che dopo Rousseau non sono più state completamente ignorate dalle persone colte e che col tempo produrranno il loro effetto, anche se attualmente vanno più che mai ribadite, soprattutto nei fatti – poiché in questo campo le parole hanno quasi esaurito il loro potere. Anche in politica è quasi un luogo comune che un partito dell'ordine o della stabilità e un partito del progresso o delle riforme sono entrambi elementi necessari di una vita politica sana, fino a quando uno dei due non avrà così ampliato la sua visione delle cose da diventare un partito ugualmente d'ordine e di progresso, che sappia distinguere ciò che va conservato da ciò che va abolito. Ambedue questi atteggiamenti mentali derivano la loro utilità dalle carenze dell'altro; ma è in larga misura l'opposizione dell'altro a mantenerli entrambi nei limiti della ragione. Se le opinioni favorevoli alla democrazia e all'aristocrazia, alla proprietà e all'uguaglianza, alla cooperazione e alla competizione, al lusso e alla frugalità, alla socialità e all'individualità, alla libertà e alla disciplina, e a tutte le altre opposizioni intrinseche alla vita quotidiana, non vengono espresse con uguale libertà e fatte rispettare con uguale talento e energia, non vi è alcuna probabilità che i due elementi ricevano un trattamento equo: la bilancia penderà certamente da una parte o dall'altra. Nei grandi problemi pratici della vita, la verità è una questione di conciliazione e combinazione di opposti, a tal punto che pochissime menti sono abbastanza vaste e imparziali da riuscirne a dare una soluzione anche solo parzialmente corretta, che quindi finisce col dipendere da un caotico processo conflittuale tra opposte fazioni. In ognuna delle grandi questioni aperte che ho elencato, se delle due opinioni ve n'è una che ha maggior diritto non solo a essere tollerata ma a venire incoraggiata e favorita, è quella che in un dato momento e luogo è in minoranza. Rappresenta allora gli interessi trascurati, quegli aspetti del benessere umano che rischiano di ottenere meno attenzione di quanta è loro dovuta. So bene che nel nostro paese le differenze di opinione sulla maggior parte di questi argomenti sono tollerate: vengono addotte a dimostrare con esempi accettati e molteplici l'universalità del fatto che allo stato presente dell'intelletto umano soltanto la varietà delle opinioni offre uguali opportunità a tutti gli aspetti della verità. Quando si trovano persone che fanno eccezione all'apparente unanimità del mondo su un qualsiasi argomento, anche se il mondo ha ragione, è sempre probabile che i dissenzienti abbiano da dire a proprio favore qualcosa che merita attenzione, e che, se tacessero, la verità perderebbe qualcosa. Si potrebbe obiettare "Ma alcuni principi comunemente accettati, specialmente quelli che riguardano le questioni più elevate e essenziali, sono più che delle mezze verità. Per esempio, la morale cristiana è nel suo campo specifico la completa verità, e chiunque predichi una morale che se ne discosti è completamente in errore". Dato che tra tutti i casi pratici questo è il più importante, è anche il più adatto a controllare la validità della nostra asserzione generale. Ma prima di stabilire che cosa sia o non sia la morale cristiana, sarebbe opportuno decidere che cosa si intenda per morale cristiana. Se significa la morale del Nuovo Testamento, mi chiedo come chiunque la conosca dalla lettura del testo possa supporre che sia stata presentata, o intesa, come una dottrina morale completa. Il Vangelo si riferisce sempre alla morale preesistente, e limita i suoi insegnamenti agli aspetti in cui essa andava corretta e sostituita da un'etica più aperta e elevata, che inoltre è espressa in termini estremamente generali, spesso impossibili da interpretare letteralmente, partecipi dell'efficacia della poesia o dell'eloquenza più che della precisione della legislazione. Non è stato mai possibile derivarne una dottrina etica organica senza riferirsi al Vecchio Testamento, cioè a un sistema effettivamente molto elaborato, ma sotto molti aspetti barbaro, e concepito soltanto per un popolo barbaro. Anche san Paolo, nemico dichiarato di questa interpretazione giudaica della dottrina tendente a completare lo schema del Maestro, assume una morale preesistente, cioè quella greca e romana: e il suo insegnamento ai cristiani è in larga misura un sistema di compromesso che giunge al punto di legittimare in apparenza la schiavitù. La morale che viene chiamata cristiana – ma il termine dovrebbe essere "teologica" – non è opera di Cristo o degli Apostoli, ma ha un'origine molto posteriore, essendo stata costruita gradualmente dalla chiesa cattolica dei primi cinque secoli; anche se moderni e protestanti non l'hanno adottata in toto, l'hanno modificata molto meno di quanto ai si potesse aspettare. In effetti nella maggior parte dei casi si sono accontentati di eliminare le aggiunte risalenti al Medioevo, sostituendole con altre, variabili a seconda delle tendenze e caratteristiche delle varie sette. Sarei l'ultimo a negare che gli uomini abbiano un grande debito verso questa morale e i suoi primi maestri, ma non esito ad affermare che sotto molti importanti aspetti è incompleta e unilaterale e che se idee e sentimenti da essa non sanciti non avessero contribuito alla formazione della società e del carattere dell'Europa, gli uomini si troverebbero in una condizione peggiore dell'attuale. La (cosiddetta) morale cristiana ha tutti i caratteri di una reazione; è in gran parte una protesta contro il paganesimo. Il suo ideale è negativo piuttosto che positivo; passivo piuttosto che attivo; è l'innocenza piuttosto che la nobiltà d'animo; astenersi dal male piuttosto che perseguire energicamente il bene; nei suoi precetti (è stato giustamente notato), il "non farai" predomina eccessivamente sul "farai". Nel suo orrore della sensualità, ha fatto dell'ascetismo un idolo che a forza di compromessi è diventato idolo della legalità. Indica la speranza del paradiso e la minaccia dell'inferno come motivazioni esplicite e opportune di una vita virtuosa: cade così molto al di sotto di quanto di meglio offriva il pensiero antico, e fa quanto è in suo potere per dare alla morale umana un carattere essenzialmente egoista, scindendo il senso del dovere di ciascuno dagli interessi dei suoi simili, che vanno sì consultati ma per motivi sostanzialmente egoistici. È essenzialmente una dottrina dell'ubbidienza passiva; inculca lo spirito di sottomissione a tutte le autorità costituite; e mentre sostiene che non bisogna in effetti ubbidire attivamente quando ordinano ciò che la religione vieta, afferma che neppure però si deve resistere, e ancor meno ribellarsi, qualunque torto ci facciano. E mentre nella morale delle migliori nazioni pagane il dovere verso lo Stato ha un peso persino sproporzionato e tale da violare la giusta libertà dell'individuo, nell'etica cristiana pura questo grande campo di doveri riceve scarsissima attenzione o menzione. È nel Corano, non nel Nuovo Testamento, che leggiamo la massima: "Un governante che investa di una carica un uomo quando nei suoi domini ve n'è un altro a essa più idoneo pecca contro Dio e contro lo Stato". Quel minimo di riconoscimento che il concetto di obbligo verso i cittadini ha nella morale moderna deriva da fonti greche e romane, non cristiane; e ugualmente, anche nella morale privata, i concetti di magnanimità, nobiltà d'animo, dignità personale, persino di senso dell'onore, risalgono alla parte puramente umana della nostra educazione, non a quella religiosa, e non si sarebbero mai potuti sviluppare da criteri etici che riconoscono esplicitamente un unico valore, l'obbedienza. Sarei l'ultimo a sostenere che questi difetti sono necessariamente inerenti all'etica cristiana, indipendentemente dal modo in cui è concepita, o che i molti requisiti di una dottrina morale completa che non possiede siano con essa inconciliabili: e ancor meno lo insinuerei sulla base dei precetti e delle dottrine propri di Cristo. Credo che i detti di Cristo siano esattamente ciò che, da quanto sappiamo, egli intendeva fossero; che non siano inconciliabili con nessuno dei requisiti di una morale completa; che tutto ciò che nobilita l'etica possa esservi ricondotto senza dover sforzarne il linguaggio più di quanto abbiano fatto tutti coloro che hanno cercato di dedurne qualsiasi sistema di norme pratiche. Ma è del tutto coerente credere anche che contengano, e originariamente intendevano contenere, solo parte della verità; che molti elementi essenziali della morale più elevata sono tra le cose di cui non si occupano, né intendevano occuparsi, i detti del fondatore del Cristianesimo giunti fino a noi; che tali elementi sono stati completamente esclusi dal sistema etico costruito sulla base di questi detti dalla chiesa cristiana. Stando così le cose, ritengo un grave errore persistere a cercare nella dottrina cristiana quella norma completa per la nostra vita che il suo Autore voleva riaffermare e far valere, ma solo in parte delineare con le sue parole. Credo inoltre che questa ottusa teoria stia diventando gravemente dannosa nella pratica, in particolare nella formazione e istruzione morale che tante persone benintenzionate stanno oggi cercando con grandi sforzi di favorire. Temo molto che il tentativo di formare intelletto e sentimenti secondo una tipologia esclusivamente religiosa che respinge quei criteri laici (li chiamiamo così in mancanza di termini migliori) che fino a oggi hanno coesistito e collaborato con l'etica cristiana in un mutuo scambio spirituale, darà, anzi dà già, come risultato, dei caratteri bassi, abietti e servili che, per quanto sottomessi a ciò che ritengono la Volontà Suprema, sono incapaci di comprendere o di apprezzare il concetto di Bene Supremo. Credo che se si vuole la rigenerazione morale dell'umanità, etiche diverse da quelle di derivazione esclusivamente cristiana debbano coesistere con la morale cristiana; e che il sistema cristiano non costituisca un'eccezione alla regola secondo cui in uno stadio imperfetto dello sviluppo intellettuale umano gli interessi della verità esigono la presenza di opinioni diverse. Non è necessario che gli uomini, smettendo di ignorare le verità morali non contenute nella dottrina cristiana, ignorino alcuna di quelle che contiene. Ignoranze o pregiudizi del genere sono sempre e incondizionatamente un male, che però non possiamo sperare di evitare sempre e dobbiamo considerare il prezzo di un bene inestimabile. Si deve protestare contro la pretesa esclusiva di una parte della verità a essere considerata la verità intera; e, se chi protesta per reazione diventa a sua volta ingiusto, questa unilateralità, come l'altra, può essere deplorata ma va tollerata. Se i cristiani vogliono insegnare ai pagani a essere giusti verso il Cristianesimo, devono essere giusti verso il paganesimo. Non giova alla verità il tentativo di occultare il fatto, noto a chiunque abbia una minima conoscenza della storia della letteratura, che una buona parte degli insegnamenti morali più nobili e validi è dovuta non solo a uomini che ignoravano la fede cristiana, ma a uomini che la conoscevano e la rifiutavano. Non pretendo che l'esercizio più incondizionato della libertà di enunciare tutte le opinioni possibili possa por fine ai mali del settarismo religioso o filosofico. Ogni verità propugnata da uomini di mentalità ristretta sarà certamente asserita, inculcata, e persino applicata come se al mondo non ne esistesse altra, o comunque non ne esistesse alcuna che possa limitarla o precisarla. Riconosco che la più libera discussione non cura la tendenza di tutte le opinioni a diventare settarie, e anzi spesso la acuisce e esacerba; la verità che si sarebbe dovuta vedere ma non si è vista viene rifiutata tanto più violentemente perché è asserita da persone considerate oppositori. Ma non è tanto sul sostenitore appassionato, quanto sul testimone più calmo e disinteressato che questo contrasto di opinioni opera un effetto salutare. Il male più temibile non è il violento conflitto tra parti diverse della verità, ma la silenziosa soppressione di una sua metà; finché la gente è costretta ad ascoltare le due opinioni opposte c'è sempre speranza; è quando ne ascolta una sola che gli errori si cristallizzano in pregiudizi, e la verità stessa cessa di avere effetto perché l'esagerazione la rende falsa. E poiché poche qualità mentali sono più rare della facoltà che permette di giudicare intelligentemente tra due visioni contrapposte di una questione, di cui una sola ha un difensore, le probabilità di vittoria della verità sono proporzionali alla misura in cui ciascun suo aspetto, ciascuna opinione che ne esprima una pur minima parte, non solo trova chi la difende, ma viene attivamente difesa e ascoltata. Abbiamo quindi riconosciuto la necessità, ai fini del benessere mentale dell'umanità (da cui dipende ogni altra forma di benessere), della libertà di opinione e della libertà di espressione, per quattro distinte ragioni che ora ricapitoleremo brevemente: In primo luogo, ogni opinione costretta al silenzio può, per quanto possiamo sapere con certezza, essere vera. Negarlo significa presumere di essere infallibili. In secondo luogo, anche se l'opinione repressa è un errore, può contenere, e molto spesso contiene, una parte di verità; e poiché l'opinione generale o prevalente su qualsiasi questione è raramente, o mai, l'intera verità, è soltanto mediante lo scontro tra opinioni opposte che il resto della verità ha una probabilità di emergere. In terzo luogo, anche se l'opinione comunemente accettata è non solo vera ma costituisce l'intera verità, se non si permette che sia, e se in effetti non è, vigorosamente e accanitamente contestata, la maggior parte dei suoi seguaci l'accetterà come se fosse un pregiudizio, con scarsa comprensione e percezione dei suoi fondamenti razionali. Non solo, ma, quarto, il significato stesso della dottrina rischierà di affievolirsi o svanire, e perderà il suo effetto vitale sul carattere e il comportamento degli uomini: come dogma, diventerà un'asserzione puramente formale e priva di efficacia benefica, e costituirà un ingombro e un ostacolo allo sviluppo di qualsiasi convinzione, reale e veramente sentita, derivante dal ragionamento o dall'esperienza personale. Prima di abbandonare la questione della libertà di opinione, è bene dedicare qualche parola a chi afferma che la libera espressione di tutte le opinioni va consentita a condizione che si discuta educatamente, senza oltrepassare i limiti della moderazione. Vi sarebbero molte ragioni per sostenere che è impossibile definire questi presunti limiti: poiché se il criterio di definizione è l'offesa a coloro le cui opinioni vengono attaccate, ritengo per esperienza che essi si offendano ogni volta che l'attacco è vigoroso e va a segno, e che ogni oppositore che li incalzi e renda loro difficile replicare sembri smodato se ha idee chiare e le difende. Ma questa considerazione, anche se importante sotto l'aspetto pratico, rientra in un'obiezione più fondamentale. Senza dubbio il modo in cui si asserisce un'opinione, anche se vera, può essere molto sgradevole e venire giustamente e severamente riprovato. Ma in questa sfera le scorrettezze principali sono di tale natura che è quasi impossibile dimostrarle, a meno che chi le commetta non si tradisca accidentalmente. Le scorrettezze più gravi sono: argomentare per sofismi, nascondere fatti o argomenti, esporre la questione in modo inesatto, o travisare l'opinione avversa. Ma questi atti di slealtà vengono così continuamente commessi in perfetta buona fede, anche nelle forme più gravi, da persone che non sono considerate – per molti altri aspetti giustificatamente – ignoranti o incompetenti, che di rado si può dichiarare fondatamente e in piena coscienza che la deformazione della verità in questione è moralmente riprovevole; ancor più è impensabile che la legge interferisca in controversie riguardanti scorrettezze di questo tipo. Per quanto concerne ciò che comunemente si intende per discussione smodata – invettive, sarcasmi, attacchi personali e così via – la denuncia di questi mezzi riceverebbe più simpatie se si proponesse di vietarne l'impiego a entrambi i contendenti: ma ciò che si vuole evitare è che vengano usati contro l'opinione dominante; contro quella minoritaria non solo possono essere impiegati senza attirare la disapprovazione generale, ma spesso chi li usa viene lodato per il suo onesto zelo e la sua giusta indignazione. E tuttavia i danni derivanti dall'uso di tali mezzi sono maggiori quando i bersagli sono relativamente indifesi; e ogni tipo di vantaggio sleale derivante da questo stile di argomentazione è quasi esclusivamente un vantaggio per l'opinione comunemente accettata. In una polemica, la peggiore scorrettezza di questo genere consiste nel bollare gli oppositori come malvagi e immorali. Coloro che sostengono qualsiasi opinione impopolare sono particolarmente esposti a simili calunnie, perché in generale sono pochi e privi d'influenza e a nessuno, salvo che a loro, interessa particolarmente che venga loro resa giustizia. Ma quest'arma è, per la sua stessa natura, negata a coloro che attaccano un'opinione dominante: non possono correre il rischio di usarla e, comunque, se la impiegassero, si limiterebbe a ritorcersi contro la loro causa. In generale, le opinioni minoritarie possono sperare di essere ascoltate solo usando un linguaggio studiatamente moderato e evitando con ogni cura di offendere inutilmente chiunque, pena la perdita di terreno a ogni minima deviazione da questa linea; mentre, impiegato dal lato dell'opinione prevalente, il vituperio più scatenato è un deterrente reale, che distoglie la gente dal professare opinioni non conformiste e dall'ascoltare chi le professa. Di conseguenza, ai fini della verità e della giustizia, è molto più importante che venga represso questo secondo tipo di invettiva; e per esempio, se la scelta si ponesse, sarebbe molto più necessario scoraggiare gli attacchi calunniosi al paganesimo che alla religione cristiana. È comunque ovvio che non è compito della legge o dell'autorità scoraggiare nessuno dei due, mentre l'opinione dovrebbe, caso per caso, pronunciarsi sulla base delle circostanze specifiche – condannando chiunque, da qualunque parte stia, il cui modo di argomentare manifesti insincerità, malignità, fanatismo o sentimenti di intolleranza; ma non deducendo queste pecche dall'opinione di chi viene giudicato, anche se è opposta alla nostra; e lodando, come merita, chiunque, da qualunque parte stia, sia così sereno da vedere, e così onesto da descrivere, i suoi oppositori e le loro opinioni come sono in realtà, senza esagerazioni che li discreditino e menzionando tutti gli elementi che sono o possono essere a loro favore. Questa è la vera morale del dibattito pubblico: e anche se spesso viene violata, sono lieto di pensare che molti polemisti la rispettano in larga misura, e molti di più si sforzano coscienziosamente di rispettarla.

III DELL'INDIVIDUALITA' COME ELEMENTO

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