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I introduzione


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Qual è allora il giusto limite alla sovranità dell'individuo su se stesso? Dove comincia l'autorità della società? Quanto della vita umana spetta all'individualità e quanto alla società? Ciascuna riceverà la parte che le spetta se le viene attribuito ciò che la riguarda più direttamente. All'individualità dovrebbe appartenere la sfera che interessa principalmente l'individuo; alla società, quella che interessa principalmente la società. Anche se la società non si fonda su un contratto, e sarebbe inutile inventarne uno per dedurne degli obblighi sociali, chiunque riceva la sua protezione deve ripagare il beneficio, e il fatto di vivere in società rende indispensabile che ciascuno sia obbligato a osservare una certa linea di condotta nei confronti degli altri. Questa condotta consiste, in primo luogo, nel non danneggiare gli interessi reciproci, o meglio certi interessi che, per esplicita disposizione di legge o per tacito accordo, dovrebbero essere considerati diritti; e, secondo, nel sostenere la propria parte (da determinarsi in base a principi equi) di fatiche e sacrifici necessari per difendere la società o i suoi membri da danni e molestie. La società ha il diritto di far valere a tutti i costi queste condizioni nei confronti di coloro che tentano di non adempiervi. Né questo è tutto ciò che la società può fare. Gli atti di un individuo possono arrecare danno ad altri o non tenere in giusta considerazione il loro benessere, senza giungere al punto di violare alcuno dei loro diritti costituiti. In questo caso il colpevole può essere giustamente condannato dall'opinione, ma non dalla legge. Non appena qualsiasi aspetto della condotta di un individuo diventa pregiudiziale degli interessi altrui, ricade sotto la giurisdizione della società, e ci si può chiedere se questa interferenza giovi o meno al benessere generale. Ma tale questione non si pone in alcun modo quando la condotta di un individuo coinvolge soltanto i suoi interessi, o coinvolge quelli di altre persone consenzienti (tutti essendo maggiorenni e dotati di normali facoltà mentali). In tutti questi casi, vi dovrebbe essere piena libertà, legale e sociale, di compiere l'atto e subirne le conseguenze. Sarebbe un grave malinteso supporre che si tratti di una dottrina ispirata a egoistica indifferenza, secondo la quale la vita di ciascuno non è affare degli altri e gli uomini non devono preoccuparsi del benessere reciproco, a meno che non vi siano coinvolti i loro interessi. Al contrario, gli sforzi disinteressati per il bene altrui non vanno diminuiti, ma grandemente aumentati. Ma la benevolenza disinteressata può persuadere gli uomini a compiere il proprio bene senza far uso di sferze o flagelli, letterali o metaforici che siano. Sono l'ultimo a sottovalutare le virtù verso se stessi: per importanza sono seconde, se lo sono, soltanto a quelle sociali. Tocca all'educazione coltivarle entrambe: ma anche l'educazione opera con la convinzione e la persuasione oltre che con la costrizione, e solo mediante le prime due, finito il periodo educativo dovrebbero essere insegnate le virtù verso se stessi. Gli uomini hanno il dovere reciproco di aiutarsi a distinguere il bene dal male, e incoraggiarsi a scegliere il primo e evitare il secondo. Dovrebbero sempre stimolarsi vicendevolmente a esercitare maggiormente le facoltà più elevate e a dirigere sentimenti e azioni verso scopi e pensieri saggi e non insensati, nobilitanti e non degradanti. Ma nessuno, e nessun gruppo, è autorizzato a dire a un adulto che per il suo bene non può fare della sua vita quel che sceglie di farne. Ciascuno è la persona maggiormente interessata al proprio benessere; L'interesse che chiunque altro può avervi, salvo che in casi di profondi legami personali, è minimo in confronto al suo; L'interesse che la società ha per lui in quanto individuo (cioè eccezion fatta per la sua condotta verso gli altri) è scarsissimo e del tutto indiretto, e inoltre l'uomo o la donna più ordinari hanno mezzi di conoscere i propri sentimenti e la propria condizione incommensurabilmente superiori a quelli di cui può disporre chiunque altro. L'interferenza della società in ciò che riguarda solo l'individuo al fine di prevaricarne giudizio e intenzioni, si fonda per forza su presupposizioni generiche, che possono essere completamente sbagliate, e che, anche se giuste, hanno buone probabilità di essere applicate erroneamente ai casi specifici da persone che non ne conoscono le circostanze né più né meno di qualunque altro osservatore esterno. È quindi in questo settore delle attività umane che l'individualità trova il suo giusto campo d'azione. Nel comportamento reciproco degli uomini, è necessario che le norme generali vengano sostanzialmente rispettate, perché gli altri sappiano che cosa aspettarsi da una determinata situazione; ma, nelle questioni che riguardano solo il singolo, la spontaneità individuale di ciascuno ha diritto a esercitarsi liberamente. Gli altri possono proporgli, o persino imporgli, delle considerazioni che lo aiutino nel giudizio, o delle esortazioni che ne rafforzino la volontà; ma è lui il giudice ultimo. Tutti gli errori che può commettere ignorando consigli e ammonimenti saranno un male infinitamente inferiore a quello di lasciarsi costringere da altri a fare ciò che essi ritengono il suo bene. Non voglio dire che i sentimenti con cui gli altri considerano una persona non debbano essere influenzati in alcun modo dal suo comportamento nella sfera di azioni che riguardano solo lui stesso. Non è possibile, né auspicabile. Se la persona è ricca di qualità che favoriscono il suo benessere, è degna d'ammirazione perché è più vicina alla perfezione ideale della natura umana. Se ne è grossolanamente carente, provocherà un sentimento opposto all'ammirazione. Vi è un certo livello di follia, e un livello di ciò che può essere chiamato (anche se la terminologia presta il fianco a obiezioni) bassezza o depravazione di gusti, che, anche se non può giustificare che si nuoccia alla persona che lo manifesta, la rende inevitabilmente e giustamente oggetto di disgusto o, in casi estremi, persino di disprezzo: chi non provasse questi sentimenti non avrebbe le qualità opposte in misura sufficiente. Pur non facendo torto a nessuno, una persona può comportarsi in modo da costringerci a giudicarla uno stupido o un essere inferiore, e a provare nei suoi confronti un certo tipo di sentimenti. Poiché la persona non li gradirebbe, le rendiamo un favore avvertendola in anticipo di questa e di ogni altra conseguenza spiacevole cui si espone col suo comportamento. Sarebbe in effetti opportuno che questo tipo di servigio fosse molto più frequente di quanto non permetta la normale buona educazione, e che si potesse onestamente far notare a chiunque che secondo noi sta sbagliando senza essere considerati maleducati o presuntuosi. Abbiamo inoltre diritto, sotto varie forme, ad agire in base alla nostra opinione negativa di qualcuno, non per opprimerne l'individualità, ma esercitando la nostra. Per esempio, non siamo obbligati a cercare la sua compagnia; abbiamo il diritto di evitarlo (non però ostentatamente), perché è nostro diritto scegliere la compagnia che più ci piace. Abbiamo il diritto, e può essere nostro dovere, di mettere altre persone in guardia contro di lui, se pensiamo che il suo esempio o la sua conversazione possano avere effetti dannosi su chi lo frequenta. Possiamo fare favori – che non siano obbligatori – ad altri invece che a lui, a cui invece dobbiamo quelli che possono migliorarlo. Con queste svariate modalità si può punire molto severamente un individuo per colpe che direttamente riguardano soltanto lui; egli però subisce gli effetti di queste punizioni solo nella misura in cui sono le conseguenze naturali, e per così dire spontanee, delle sue colpe, non perché gli vengano inflitte espressamente per punirlo. Una persona sconsiderata, ostinata, presuntuosa; che non può vivere senza grandi ricchezze; che è incapace di autocontrollo; che persegue piaceri da animale ai danni di quelli morali e intellettuali, deve aspettarsi di perdere la stima altrui e di essere considerata con sentimenti meno favorevoli, ma non ha diritto di lamentarsene, a meno che non abbia dei meriti sociali e quindi abbia diritto a una speciale considerazione, non intaccata dai suoi demeriti verso se stesso. La mia tesi è che le sole sanzioni a cui un individuo può essere legittimamente sottoposto per quella parte della sua condotta e del suo carattere che lo riguarda esclusivamente e non tocca gli interessi di chi abbia rapporti con lui, sono quelle strettamente inscindibili dal giudizio sfavorevole altrui. Gli atti che danneggino altre persone vanno trattati in modo completamente diverso. Violare i diritti altrui, causare agli altri danni o perdite non giustificati dai propri diritti, ingannarli con falsità e doppiezze, approfittare ingiustamente o ingenerosamente di loro, anche evitare egoisticamente di difenderli: sono tutte azioni che meritano la riprovazione morale e, nei casi più gravi, il castigo. E non solo gli atti, ma anche le inclinazioni che li provocano sono realmente immorali e meritano la disapprovazione, che può giungere all'abominio. La crudeltà d'animo, la malizia e il malanimo, la passione più antisociale e odiosa, l'invidia, la dissimulazione e l'insincerità, l'irascibilità per motivi insufficienti, il risentimento sproporzionato alla causa, la passione del dispotismo, il desiderio di accaparrarsi più di quanto si meriti (la pleonexía dei greci), l'orgoglio che si soddisfa nell'avvilimento altrui, l'egoismo che considera i propri interessi più importanti di qualsiasi altra cosa, e decide tutte le questioni dubbie a proprio favore: questi sono vizi morali, elementi malvagi e odiosi del carattere, diversi in questo dalle colpe verso di sé menzionate più sopra, che non sono immoralità in senso stretto e che, per quanto portate all'estremo, non costituiscono malvagità. Possono essere segni della più completa follia, o mancanza di dignità e di rispetto di sé, ma sono passibili di riprovazione morale solo quando implicano un'infrazione al dovere, che ciascuno ha nei confronti degli altri, di badare a se stesso. I cosiddetti doveri verso di sé non sono socialmente obbligatori, a meno che le circostanze non li rendano contemporaneamente doveri verso gli altri. Il termine "dovere verso se stessi", quando non significa semplicemente "prudenza", significa o rispetto di sé o sviluppo di sé, entrambe cose di cui nessuno deve rendere conto ai suoi simili, perché non coinvolgono gli interessi dell'umanità. La distinzione tra la perdita dell'altrui stima, in cui si può giustamente incorrere per mancanza di prudenza o dignità personale, e la riprovazione che si merita se si ledono i diritti altrui, non è puramente nominale. Fa molta differenza, nei termini sia dell'atteggiamento che del comportamento che teniamo nei suoi confronti, che qualcuno ci offenda in qualcosa che riteniamo di avere il diritto di controllare o invece in qualcosa in cui sappiamo di non averlo. Se la persona ci infastidisce, possiamo esprimerle la nostra antipatia, ed evitarla, come evitiamo tutto ciò che ci infastidisce; ma non ci sentiremo in obbligo di rovinarle l'esistenza. Terremo in considerazione il fatto che sconta già, o sconterà, tutti i suoi errori; proprio perché si rovina da sola la vita, sprecandola, non desidereremo rovinargliela ulteriormente: invece di punirla, cercheremo piuttosto di alleviarle la punizione mostrandole come evitare o rimediare ai mali che la sua condotta tende a causarle. Nei suoi confronti possiamo provare pietà, forse antipatia, ma non ira o risentimento. Non la tratteremo come un nemico della società; al massimo ci riterremo giustificati ad abbandonarla a se stessa, ma potremmo interferire benevolmente mostrando interesse o preoccupazione per lei. Ben altrimenti accade se un individuo ha violato le norme necessarie alla protezione, individuale o collettiva, dei suoi simili. Le conseguenze negative dei suoi atti non ricadono allora su di lui, ma sugli altri; e la società, in quanto protettrice di tutti i suoi membri, deve rifarsi su di lui, deve farlo soffrire all'esplicito scopo di punirlo, e deve assicurarsi che la punizione sia sufficientemente severa. In un caso l'individuo è imputato di fronte al nostro tribunale, e siamo chiamati non solo a giudicarlo ma anche, in un modo o nell'altro, a eseguire la nostra sentenza; nell'altro, non è nostro compito infliggergli sofferenze, salvo quelle che possono incidentalmente derivare dal nostro esercizio, nella condotta dei nostri affari, della stessa libertà che consentiamo a lui nei suoi. Molti rifiuteranno questa distinzione tra la parte della vita di un uomo che riguarda soltanto lui e quella che riguarda gli altri. Come può (si potrebbe domandare) essere indifferente agli altri un qualsiasi aspetto del comportamento di un membro della società? Nessuno è completamente isolato; è impossibile arrecare un danno serio o permanente a se stessi senza che il male si estenda almeno fino a chi ci è più vicino, e spesso molto oltre. Se un uomo lede le sue proprietà, danneggia chi direttamente o indirettamente ne traeva sostentamento, e generalmente diminuisce in maggiore o minore misura le risorse complessive della comunità. Se deteriora le sue facoltà fisiche o mentali, non solo fa del male a coloro la cui felicità dipendeva, in misura minore o maggiore, da lui, ma si pone nell'incapacità di rendere i servigi di cui è in generale debitore ai suoi simili, e talvolta diventa un peso per il loro affetto e la loro benevolenza. Se questo comportamento fosse molto frequente, sarebbe più rovinoso per il bene comune di quasi ogni altro crimine possibile. Infine (si potrebbe dire), anche se una persona non danneggia direttamente altri con i suoi vizi o follie, tuttavia è dannosa con l'esempio, e dovrebbe essere costretta a controllarsi per il bene di chi potrebbe essere corrotto o ingannato dall'osservazione, diretta o indiretta, della sua condotta. E (si potrebbe aggiungere), anche se le conseguenze del comportamento di un individuo vizioso o sconsiderato potessero venire limitate a lui, può la società abbandonare a se stessi coloro che non sono manifestamente in grado di badarsi? Se, per ammissione comune, i bambini e i minori vanno protetti da se stessi, la società non è forse ugualmente obbligata a proteggere adulti che sono ugualmente incapaci di controllarsi? Se il gioco d'azzardo, l'ubriachezza, l'incontinenza, la pigrizia o la sporcizia sono altrettanto nocivi alla felicità e contrari al progresso che la maggior parte degli atti vietati dalla legge, perché (ci si potrebbe chiedere) la legge non dovrebbe cercare di reprimerli, nella misura in cui ciò è possibile e socialmente utile? E, per supplire alle inevitabili imperfezioni della legge, non dovrebbe l'opinione pubblica almeno organizzare una poderosa polizia contro questi vizi e colpire con rigide pene sociali coloro che notoriamente li praticano? Qui non si tratta (si potrebbe asserire) di reprimere l'individualità o di impedire che vengano tentati nuovi e originali esperimenti di vita. Le sole cose che si cerca di impedire sono state giudicate e condannate dall'alba del mondo ai nostri giorni – e l'esperienza le ha dimostrate inutili o dannose per l'individualità di chiunque. Ci deve essere un periodo – espresso in termini di tempo o di quantità di esperienze – trascorso il quale una verità morale o pratica può essere data per acquisita: e ciò al solo scopo di impedire a generazione dopo generazione di precipitare nello stesso baratro che è stato fatale a quelle che l'hanno preceduta. Ammetto incondizionatamente che il male fatto a noi stessi può colpire gravemente, sia negli affetti sia negli interessi, le persone che ci sono strettamente legate e, in misura minore, la società in generale. Quando una condotta di questo tipo porta a violare un impegno distinto e preciso verso una o più persone, il caso non è classificabile come danno verso se stessi e diventa passibile di disapprovazione morale in senso stretto. Se per esempio un uomo, per intemperanza o stravaganza, diventa insolvente, o, avendo assunto la responsabilità morale di una famiglia, diventa per cause analoghe incapace di mantenerla o di educarla, viene meritatamente riprovato e può essere giustamente punito; ma per l'inadempienza al dovere verso la famiglia o i creditori, non per la stravaganza. Se le risorse loro destinate fossero state loro negate per essere investite nel modo più oculato possibile, la colpevolezza morale sarebbe stata identica. George Barnwell ammazzò suo zio per dare dei soldi alla sua amante, ma se l'avesse ucciso per iniziare un'attività commerciale sarebbe stato ugualmente impiccato. Ancora, nel caso frequente di uomini che causano dolore alle loro famiglie per le loro cattive abitudini, essi meritano rimprovero perché sono crudeli o ingrati; ma potrebbero meritarne altrettanto coltivando abitudini di per sé non viziose, che pure fanno soffrire coloro con cui vivono, o chi per legami personali dipende da loro per il proprio benessere. Chiunque non tenga nella considerazione che generalmente è loro dovuta gli interessi e i sentimenti altrui, senza essere costretto a ciò da un dovere più alto o giustificato da un'ammissibile preferenza per sé, è degno di disapprovazione morale per questo comportamento, ma non per le sue cause né per gli errori che possono averlo indirettamente provocato, e che riguardano solo lui. Analogamente, chi con il suo comportamento verso di sé si renda incapace di compiere un preciso dovere verso il pubblico è colpevole di un reato sociale. Nessuno dovrebbe essere punito semplicemente perché è ubriaco; ma un soldato o un poliziotto dovrebbero essere puniti per ubriachezza in servizio. In breve, in presenza di un preciso danno, o di un preciso rischio di danno, per il pubblico o per un individuo, il caso esula dalla sfera della libertà e rientra in quella della moralità o della legge. Ma, per quanto concerne il danno puramente contingente o, come lo si può chiamare, costruttivo che un individuo causa alla società con una condotta che non infranga alcun dovere specifico verso il pubblico, né leda percettibilmente alcuna persona precisa salvo l'individuo stesso, si tratta di un fastidio che la società può permettersi di sopportare, negli interessi di un bene maggiore, la libertà umana. Se degli adulti devono proprio essere puniti perché non si occupano abbastanza bene di se stessi, preferirei che lo fossero per il loro bene, non con il pretesto di impedire loro di danneggiare le proprie facoltà o con la scusa di rendere alla società benefici cui essa non pretende di aver diritto. Ma non posso consentire a una discussione in cui si dà per scontato che la società non avrebbe mezzo alcuno di elevare i suoi membri più deboli al livello normale di condotta razionale, salvo quello di aspettare che commettano qualcosa di irrazionale e poi punirli, legalmente o moralmente. La società ha avuto potere assoluto su di essi durante tutta la prima parte della loro esistenza: ha avuto tutto il periodo dell'infanzia e dell'adolescenza per cercare di renderli capaci di condurre razionalmente la propria vita. La generazione di oggi è signora e padrona sia dell'educazione sia di tutte le condizioni di vita della generazione di domani: in effetti, non può farla diventare perfettamente saggia e buona, perché è essa stessa così deplorevolmente priva di saggezza e bontà; e, in certi casi, i suoi maggiori sforzi non sempre sono i più riusciti; ma nel complesso è perfettamente in grado di formare una nuova generazione altrettanto buona, anzi un poco migliore. Se la società lascia che un numero considerevole dei suoi membri, pur crescendo fisicamente, resti bambino e incapace di essere influenzato dalla considerazione razionale di motivi non immediatamente percepibili, può incolpare solo se stessa. Ha a disposizione non solo tutti i poteri dell'educazione, ma anche il predominio che l'autorità di un'opinione comune esercita sempre sulle menti meno in grado di giudicare da sole, e inoltre è aiutata dalle punizioni naturali che non possono non abbattersi su coloro che incorrono nel disgusto o nel disprezzo del prossimo: che la società non pretenda di aver bisogno, oltre che di questo armamentario, anche del potere di emanare e far rispettare ordini riguardanti questioni personali dei singoli, le quali, stando a qualsiasi principio legale o politico, andrebbero decise da chi deve sopportarne le conseguenze. E niente scredita e frustra i migliori metodi di influire sulla condotta umana più del ricorso ai peggiori. Se tra coloro che la società cerca di costringere alla prudenza e alla temperanza vi è qualcuno della stoffa di cui sono fatti i caratteri indipendenti e vigorosi, si ribellerà infallibilmente al giogo. Nessuna persona del genere penserà mai che gli altri hanno diritto di controllarlo nei suoi affari, come invece lo hanno di impedirgli di disturbare i loro; perciò, sfidare questa autorità usurpata, facendo ostentatamente l'esatto contrario di ciò che comanda, come accadde all'epoca di Carlo II con la moda della volgarità che subentrò alla fanatica intolleranza morale dei puritani, finisce facilmente coll'essere considerato segno di uno spirito coraggioso. Quanto alla necessità, menzionata in precedenza, di proteggere la società dal cattivo esempio dato dai viziosi o da chi è troppo indulgente con se stesso, è vero che il cattivo esempio può avere effetti dannosi, specialmente nel caso di chi faccia un torto ad altri e resti impunito. Ma qui stiamo parlando di comportamenti che, mentre non danneggiano gli altri, si presume siano gravemente dannosi a chi li tiene; e non vedo come coloro che li ritengono tali possano non pensare che, nel complesso, l'esempio finisce coll'essere più salutare che dannoso, poiché mostra il comportamento ma anche le sue conseguenze, che, se lo si biasima a ragione, si devono supporre nella maggior parte dei casi penose o degradanti. Ma l'argomento più forte contro l'interferenza del pubblico nella condotta puramente individuale è che, quando si verifica, si verifica con ogni probabilità sia nei modi sbagliati che nel posto sbagliato. Nelle questioni di moralità sociale, di doveri nei confronti degli altri, L'opinione del pubblico, cioè della stragrande maggioranza, è più spesso giusta che sbagliata, poiché si tratta soltanto di giudicare sui propri interessi, su come verrebbero coinvolti da un dato comportamento, se venisse consentito. Ma l'opinione di una simile maggioranza, imposta come legge a una minoranza, in questioni di condotta strettamente individuale ha uguali probabilità di essere giusta o sbagliata, perché nel migliore di questi casi opinione pubblica significa l'opinione di alcuni su che cosa sia bene o male per altri, e molto spesso non significa neanche questo – il pubblico, con la più perfetta indifferenza, ignora i sentimenti o le esigenze di coloro di cui biasima la condotta, e pensa solo alla propria preferenza. Molti considerano lesiva dei propri interessi qualsiasi condotta che loro dispiaccia, e se ne risentono come di un oltraggio ai loro sentimenti; simili a quel bigotto che, accusato di disprezzare i sentimenti religiosi degli altri, ha ribattuto che sono loro a disprezzare i suoi persistendo nel loro abominevole culto o credo. Ma non sono sullo stesso piano ciò che uno pensa della propria opinione e ciò che ne pensa un altro che la considera un'offesa, come non lo sono il desiderio di un ladro di rubare una borsa e il desiderio del legittimo proprietario di tenersela. E i gusti di un individuo sono una sua questione personale, quanto la sua opinione o la sua borsa. È facile immaginare un pubblico ideale che lasci indisturbata la libertà e la scelta individuale in tutte le questioni dubbie, e si limiti a chiedere agli individui di evitare comportamenti che l'esperienza universale ha condannato. Ma dove si è mai visto un pubblico che imponesse limiti del genere alla propria facoltà di censura? O quando mai il pubblico si preoccupa dell'esperienza universale? Nelle sue interferenze con la condotta individuale pensa raramente ad altro che alla mostruosità di agire o pensare diversamente da lui; e questo criterio di giudizio, lievemente camuffato, viene presentato agli uomini come il dettame della religione e della filosofia dai nove decimi dei moralisti e pensatori, i quali insegnano che le cose sono giuste perché sono giuste; perché sentiamo che lo sono. Ci dicono di cercare nelle nostre menti e nei nostri cuori le norme di condotta per noi e per tutti gli altri. Cos'altro può fare chi è parte del pubblico, se non seguire le istruzioni e rendere le proprie concezioni personali del bene e del male, se sono tollerabilmente unanimi, obbligatorie per tutto il mondo? Questo male non esiste soltanto in teoria; e ci si potrebbe forse aspettare che io specifichi i casi in cui il pubblico contemporaneo del nostro paese conferisce impropriamente veste legale alle sue preferenze. Non sto scrivendo un saggio sulle aberrazioni dell'odierno sentimento morale: è un argomento troppo vasto per discuterlo incidentalmente, a fini illustrativi. Tuttavia si rendono necessari degli esempi per dimostrare che il principio da me affermato è di notevole importanza pratica, e che non sto cercando di erigere difese contro mali immaginari. E non è difficile dimostrare, con abbondanza di esempi, che l'ampliamento del raggio d'azione di quella che può essere chiamata polizia morale fino a farle ledere la libertà individuale più indiscutibilmente legittima è una delle più universali propensioni umane. Consideriamo come primo caso le antipatie nei confronti di coloro la cui sola colpa è che, avendo opinioni religiose diverse dalle nostre, non praticano le nostre osservanze religiose, in particolare le astinenze. Per citare un esempio alquanto banale, ciò che più eccita l'odio dei musulmani nei confronti della fede e della pratica cristiane è il fatto che i cristiani mangiano carne di maiale. Pochi sono gli atti per cui cristiani e europei provano un disgusto più sincero di quello dei musulmani per questo particolare modo di sfamarsi. Innanzitutto è una trasgressione alla loro religione, ma ciò non spiega affatto la violenza o il tipo della loro ripugnanza; infatti anche il vino è loro vietato dalla religione, e tutti i musulmani considerano il bere peccaminoso, ma non disgustoso. La loro avversione per la carne della "bestia immonda" è al contrario analoga a quella dell'antipatia istintiva che l'idea di sporcizia, una volta che sia stata profondamente assimilata, sembra sempre suscitare anche in persone le cui abitudini sono tutt'altro che scrupolosamente pulite, e di cui è notevole esempio il sentimento dell'impurità religiosa, così forte negli indù. Supponiamo ora che in un popolo a maggioranza maomettana venga proibito a tutti di mangiare carne di maiale entro i confini del paese: non sarebbe una novità per i paesi musulmani . Si tratterebbe di un esercizio legittimo dell'autorità morale della pubblica opinione, oppure sarebbe illegittimo, e perché? Per questa gente la pratica è davvero rivoltante: e inoltre pensano sinceramente che sia vietata e aborrita dalla Divinità. Né questa proibizione potrebbe essere condannata in quanto persecuzione religiosa: potrà avere origini religiose, ma non è una persecuzione, perché non c'è religione che comandi di mangiare carne di maiale. La sola base difendibile su cui condannarla sarebbe che il pubblico non ha diritto di interferire nei gusti personali e nelle questioni strettamente individuali. Per venire più vicino a noi: la maggioranza degli spagnoli considera grossolanamente empio, massimamente ingiurioso dell'Essere Supremo, adorarlo in modo diverso da quello cattolico romano; e in Spagna ogni altro culto pubblico è vietato. I popoli di tutta l'Europa meridionale considerano un clero che non pratica il celibato non soltanto irreligioso, ma impuro, indecente, volgare e disgustoso. Che cosa pensano i protestanti di questi sentimenti perfettamente sinceri, e del tentativo di farli rispettare anche da chi non è cattolico? E tuttavia, se gli uomini possono giustificatamente interferire nella loro reciproca libertà anche in questioni che non riguardano gli interessi altrui, in base a quale principio si possono coerentemente escludere questi casi? O chi può biasimare gente che desidera sopprimere ciò che considera uno scandalo al cospetto di Dio e degli uomini? Gli argomenti a favore della proibizione di tutto ciò che è considerato immoralità individuale sono identici a quelli usati per giustificare la soppressione di certe pratiche religiose da coloro che le considerano empie; e, a meno che non vogliamo adottare la logica dei persecutori, e sostenere che dobbiamo perseguitare altre persone perché abbiamo ragione, mentre loro non devono perseguitare noi perché hanno torto, dobbiamo guardarci dall'ammettere un principio la cui applicazione nei nostri confronti considereremmo grossolanamente ingiusta. Si potrebbe obiettare, anche se a torto, che i casi precedenti si riferiscono a situazioni impossibili tra noi, dato che non è probabile che l'opinione di questo paese costringa tutti a non mangiare carne o interferisca nella libertà della gente di praticare un culto, e di sposarsi o di non sposarsi a seconda delle proprie fedi o inclinazioni. Il prossimo esempio tuttavia si riferisce a una interferenza nella libertà che costituisce un pericolo ancora attuale. In ogni situazione in cui sono stati sufficientemente potenti – per esempio nella Nuova Inghilterra o in Gran Bretagna ai tempi di Cromwell –, i puritani hanno cercato, con considerevole successo, di sopprimere tutti i divertimenti pubblici e quasi tutti quelli privati: in particolare la musica, la danza, i giochi pubblici o le altre riunioni a fini ricreativi, e il teatro. Ancor oggi vi sono in questo paese vasti gruppi i cui ideali morali e religiosi condannano questi svaghi; e dato che queste persone appartengono soprattutto alla classe media, che nelle attuali condizioni politiche e sociali del Regno costituisce il potere dominante, non è affatto impossibile che prima o poi ottengano la maggioranza in parlamento. Al resto della comunità farà piacere che quegli svaghi che gli saranno consentiti siano regolamentati dai sentimenti morali e religiosi dei calvinisti e metodisti più severi? Non auspicherà, in modo alquanto perentorio, che questi pii e invadenti membri della società badino ai fatti propri? È esattamente quel che si dovrebbe dire a qualsiasi governo o pubblico che pretendono che nessuno si diverta in un modo da loro ritenuto sbagliato. Ma se in linea di principio si ammette questa pretesa, non si può ragionevolmente chiedere che non venga attuata secondo i voleri della maggioranza, o comunque di chi detiene il potere in un dato paese; e dobbiamo essere pronti a conformarci alla concezione di comunità cristiana che avevano i primi coloni della Nuova Inghilterra, nel caso che una confessione religiosa simile alla loro riesca a riguadagnare il terreno perduto, come hanno spesso fatto religioni che erano ritenute in declino. Immaginiamo un'altra situazione, forse più probabile di quest'ultima. Tutti concordano nell'affermare che il mondo moderno presenta una forte tendenza verso una costituzione democratica della società, accompagnata o meno da istituzioni politiche popolari. Si afferma anche che, nel paese in cui questa tendenza è più compiutamente realizzata – in cui società e governo sono più democratici, cioè gli Stati Uniti –, il sentimento della maggioranza, che non gradisce alcuna ostentazione di uno stile di vita più brillante o costoso di quello che può sperare di emulare, funziona con discreta efficacia da legge suntuaria, e che in molte parti dell'Unione una persona con un reddito molto elevato trova veramente difficile spenderlo senza incorrere nella disapprovazione popolare. Anche se affermazioni del genere sono senza dubbio molto esagerate, la situazione da esse descritta è un risultato, non solo concepibile e possibile, ma probabile, della combinazione del sentimento democratico con la nozione secondo cui il pubblico ha diritto di veto sul modo in cui gli individui spendono i loro redditi. Supponiamo inoltre che le opinioni socialiste si diffondano considerevolmente: ogni proprietà che non sia minima o ogni reddito che non derivi dal lavoro manuale rischiano di diventare un'infamia agli occhi della maggioranza. Opinioni in linea di principio simili a questa predominano già nella classe dei lavoratori manuali, e opprimono pesantemente coloro che principalmente si riferiscono a esse – vale a dire, i membri di quella classe. È ben noto che gli operai inefficienti che in molti rami dell'industria costituiscono la maggioranza, sono decisamente dell'opinione che essi dovrebbero essere pagati quanto quelli efficienti, e che a nessuno dovrebbe essere consentito, mediante il cottimo o altre forme, di guadagnare più di altri che non sono altrettanto abili o operosi. E impiegano una polizia morale, che talvolta diventa fisica, per far sì che gli operai più abili non ricevano una maggiore remunerazione per un migliore servizio, e che i datori di lavoro non la concedano. Se il pubblico ha una qualsiasi giurisdizione sulle questioni private, non vedo perché questa gente debba avere torto, o perché si debbano criticare le persone direttamente in rapporto con uno specifico individuo se rivendicano sulla condotta individuale di quest'ultimo la stessa autorità che il pubblico nel suo complesso rivendica su tutti i singoli individui. Ma, tralasciando i casi ipotetici, al giorno d'oggi si verificano effettivamente grossolane violazioni della libertà privata, ne vengono minacciate, con probabilità di successo, di più gravi, e viene apertamente sostenuto il diritto incondizionato del pubblico non solo a vietare per legge tutto ciò che ritiene sbagliato, ma a proibire, per colpire quelli che considera errori, una serie di attività che, per sua stessa ammissione, sono innocue. Con la scusa di prevenire l'intemperanza, è stato vietato per legge alla popolazione di una colonia inglese, e di quasi metà degli Stati Uniti, di far uso di bevande fermentate, salvo che per fini medicinali; la proibizione della loro vendita è in effetti, come era intesa essere, proibizione del loro uso. E anche se l'impossibilità di farla rispettare in pratica ha fatto sì che questa legge venisse abrogata in parecchi stati che l'avevano adottata, ivi compreso il Maine, da cui prende nome, nel nostro paese molti filantropi dichiarati hanno iniziato, e proseguono con notevole zelo, a far propaganda in favore dell'adozione di un provvedimento analogo. L'associazione, o "Alleanza", come si autodefinisce, costituita a questo scopo ha ricevuto una certa notorietà in seguito alla pubblicazione di una corrispondenza tra il suo segretario e uno dei pochissimi uomini pubblici inglesi che ritengono che le opinioni di un politico debbano fondarsi su principî. Le lettere di Lord Stanley aumenteranno certamente le speranze già riposte in lui da coloro che sanno quanto siano purtroppo rare, nella vita politica, le qualità già manifestatesi in qualche suo intervento pubblico. Il segretario dell'Alleanza, che "deplorerebbe profondamente il riconoscimento di qualsiasi principio che potrebbe essere travisato in modo tale da giustificare fanatismi e persecuzioni", intende ribadire la "spessa e invalicabile barriera" che separa principi del genere da quelli dell'associazione. "Tutte le questioni relative al pensiero, all'opinione, alla coscienza, mi sembrano", afferma, "al di fuori della sfera della legislazione; tutto ciò che è invece attinente a atti, abitudini, rapporti sociali – che è soggetto solo a un potere discrezionale spettante allo Stato e non all'individuo – dentro di essa". Non viene menzionata una terza classe, diversa da entrambe, cioè quella degli atti e delle abitudini che non sono sociali ma individuali: anche se, sicuramente, è ad essa che appartiene l'atto di bere liquori fermentati. Tuttavia, vendere liquori fermentati è commercio, e il commercio è un atto sociale. Ma la violazione contro cui protestiamo non è della libertà del venditore, ma di quella del compratore e consumatore; poiché lo Stato potrebbe benissimo vietargli di bere vino, dal momento che gli rende espressamente impossibile ottenerlo. Tuttavia, il segretario sostiene: "Affermo, come cittadino, il mio diritto a un intervento legislativo in ogni caso in cui i miei diritti sociali siano violati dall'atto sociale di un altro". Ed ecco la definizione di questi "diritti sociali": "Se c'è qualcosa che viola i miei diritti sociali è certamente il commercio di bevande alcooliche. Distrugge il mio diritto fondamentale alla sicurezza, creando e stimolando costantemente il disordine sociale. Viola il mio diritto all'uguaglianza, derivando profitto dalla creazione di un'indigenza sostentata dalle tasse che pago. Ostacola il mio diritto a un libero sviluppo morale e intellettuale, circondando di pericoli il mio cammino e indebolendo e demoralizzando la società da cui ho diritto di pretendere mutuo soccorso e appoggio". Probabilmente nessuno ha mai enunciato distintamente qualcosa di simile a questa teoria dei "diritti sociali", che equivale a quanto segue: è diritto sociale assoluto di ciascun individuo che ciascun altro individuo si comporti sotto ogni aspetto esattamente come dovrebbe comportarsi; inoltre, chiunque non ottemperi nei minimi dettagli a quanto sopra viola il mio diritto sociale e mi autorizza a esigere che il motivo della mia lagnanza venga eliminato per legge. Un principio così mostruoso è molto più pericoloso di qualsiasi singola interferenza nella libertà; non vi è violazione della libertà che esso non giustifichi; non riconosce alcun diritto ad alcuna libertà, salvo forse quella di avere opinioni in segreto, senza rivelarle a nessuno poiché nell'attimo in cui un'opinione che considero nociva viene proferita, viola tutti i "diritti sociali" che l'Alleanza mi conferisce. La dottrina attribuisce a tutti gli uomini un interesse acquisito nella reciproca perfezione morale, intellettuale e persino fisica, definita da ciascuno secondo i propri criteri. Un altro importante esempio di interferenza illegittima nella giusta libertà dell'individuo, e non semplicemente minacciata ma ormai da molto realizzata con successo, è la legislazione riguardante le domeniche. Senza dubbio, astenersi dall'abituale attività quotidiana nella misura in cui lo permettono le esigenze della vita, è una consuetudine altamente benefica, anche se non è sotto alcun aspetto un obbligo religioso, salvo che per gli ebrei. E, nella misura in cui questa consuetudine non può essere rispettata senza il consenso generale di chi lavora, dato che se alcuni lavorano anche altri possono trovarsi costretti a lavorare, può essere consentito e giusto che la legge garantisca l'osservanza reciproca del riposo, sospendendo le principali attività lavorative in un dato giorno. Ma questa giustificazione, fondata sull'interesse diretto di tutti al rispetto dell'usanza da parte di ciascuno, non vale per le occupazioni indipendenti cui si può voler dedicare il proprio tempo libero, né, in alcun modo, per le restrizioni legali imposte agli svaghi. È vero che lo svago di alcuni è il lavoro di altri; ma il divertimento, per non dire l'utile ricreazione, di molti vale la fatica di pochi, purché l'abbiano liberamente scelta. Gli operai hanno perfettamente ragione a pensare che, se tutti lavorassero la domenica, il lavoro di sette giorni riceverebbe il salario di sei; ma se la attività lavorative sono per la gran maggioranza sospese, i pochi che devono continuare a lavorare per il divertimento altrui ricevono un aumento proporzionale dei guadagni; e, se preferiscono il tempo libero all'emolumento, non sono obbligati a svolgere quel particolare lavoro. Volendo migliorare ulteriormente la situazione, si può stabilire per consuetudine un giorno di vacanza settimanale per chi lavora la domenica. Quindi, le restrizioni ai divertimenti domenicali possono giustificarsi solo sostenendo che sono contrari al dettato religioso – motivo di legislazione, questo, contro cui non si protesterà mai abbastanza. "Deorum injuriae Diis curae". Resta da provare che la società, o qualunque suo funzionario, ha ricevuto dall'alto l'incarico di vendicare ogni presunta offesa all'Onnipotente che non sia anche un torto verso i nostri simili. Il concetto secondo cui è dovere di ognuno che gli altri siano religiosi è stato alla base di tutte le persecuzioni religiose, e, una volta accettato le giustifica pienamente. Anche se il sentimento che traspare dai ripetuti tentativi di fermare le ferrovie o di tenere chiusi i musei la domenica, e così via, non ha la crudeltà dei vecchi persecutori, l'atteggiamento mentale che esso indica è fondamentalmente lo stesso. È la determinazione a non tollerare che altri facciano ciò che è permesso dalla loro religione, perché non è permesso da quella del persecutore. È la convinzione che Dio non solo aborre le azioni del miscredente, ma non ci considererà innocenti se lo lasciamo in pace. Non posso evitare di aggiungere a questi esempi dello scarso conto in cui la libertà umana è abitualmente tenuta, il linguaggio apertamente persecutorio cui indulge la stampa di questo paese quando si sente investita della missione di occuparsi del fenomeno del Mormonismo. Molto si potrebbe dire sul fatto, imprevisto e istruttivo, che centinaia di migliaia di persone credano a una pretesa nuova rivelazione e alla religione fondata su di essa – frutto di evidente impostura, neppure sostenuta dal prestigio o dalle straordinarie qualità del suo fondatore –, che è diventata la base di una società, nell'epoca dei giornali, delle ferrovie e del telegrafo. Ciò che ci interessa in questa sede è che questa religione, come altre migliori di essa, ha i suoi martiri; che il suo profeta e fondatore fu linciato a causa dei suoi insegnamenti; che altri suoi aderenti persero la vita a causa della stessa violenza scatenata; che i Mormoni furono espulsi a forza, in massa, dal paese in cui erano nati, e, ora che sono stati confinati in un rifugio solitario nel mezzo di un deserto, molti abitanti di questo paese dichiarano apertamente che sarebbe giusto (ma è scomodo) mandare una spedizione che li costringa a forza a uniformarsi alle opinioni altrui. L'aspetto della dottrina mormone che maggiormente provoca avversione e scatena un'insolita intolleranza religiosa è il permesso di praticare la poligamia; che, anche se consentita a musulmani, indù e cinesi, sembra suscitare un'implacabile animosità se praticata da persone che parlano inglese e si dichiarano una sorta di cristiani. Nessuno disapprova più di me quest'istituzione mormone; tra l'altro anche perché, lungi dal rappresentare un'espressione del principio della libertà, lo viola direttamente, poiché non fa che ribadire le catene di una metà della comunità e emancipare l'altra dalla reciprocità dell'impegno nei suoi confronti. Eppure, va ricordato che le donne coinvolte in questo tipo di rapporto – che possono esserne considerate la parte lesa – l'accettano altrettanto volontariamente che qualsiasi altra forma di matrimonio: e ciò, per quanto sembri sorprendente, trova spiegazione nelle opinioni e nelle usanze comuni che, insegnando alle donne che il matrimonio è la sola cosa che conti, fanno sì che molte preferiscano essere una moglie insieme a parecchie altre piuttosto di non esserlo del tutto. Agli altri paesi non viene chiesto di riconoscere queste unioni, né di esimere dal rispetto della legge alcun loro cittadino a causa della sua fede mormone. Ma quando i dissenzienti hanno concesso agli altrui sentimenti ostili ben più di quanto fosse giusto esigere da loro; quando hanno abbandonato i paesi che rifiutavano le loro dottrine e si sono stabiliti in un remoto angolo della terra, che hanno colonizzato e reso abitabile, è difficile comprendere in base a quali principi, salvo quelli della tirannide, si possa loro impedire di viverci secondo le leggi che preferiscono, purché non commettano atti di aggressione contro altre nazioni e lascino a chi non è soddisfatto del loro modo di vivere la perfetta libertà di andarsene. Un autore recente, e sotto certi aspetti di considerevole merito, propone (per usare le sue parole), non una crociata, ma una civilizzata contro questa comunità poligamica per porre termine a quello che gli pare un arretramento della civiltà. Pare anche a me, ma non mi risulta che una comunità abbia il diritto di costringere un'altra a essere civilizzata. Purché le vittime di una legge iniqua non invochino l'aiuto di altre comunità, non possono ammettere che persone del tutto estranee intervengano e esigano che si ponga fine a una situazione, di cui tutti i diretti interessati sembrano soddisfatti, perché dà scandalo a gente lontana migliaia di miglia e senza alcun titolo o motivo per interferire. Mandino dei missionari, se ne hanno voglia; e si oppongano con ogni mezzo leale (tra cui non è compreso ridurre al silenzio i predicatori) al progresso di simili dottrine nel loro paese. Se la civiltà ha sconfitto la barbarie che dominava il mondo, non è lecito professare il timore che la barbarie, dopo essere stata largamente debellata, risorga e sconfigga la civiltà. Una civiltà che può soccombere in questo modo al nemico che ha già battuto in precedenza deve essere prima arrivata a un tale punto di degenerazione, che né i suoi sacerdoti e maestri designati né chiunque altro hanno la capacità, o la voglia, di difenderla. Se le cose stanno così, prima una tale civiltà riceve l'ordine di andarsene meglio è: può solo continuare a peggiorare finché (come accadde all'Impero d'Occidente) dei barbari vigorosi non la distruggano e la rigenerino.

V APPLICAZIONI

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