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Feudi e feudatari in Trexenta (Sardegna meridionale) agli esordi della dominazione catalano-aragonese


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Alfonso etc. Al nobile e diletto consigliere nostro Ramon de Cardona, governatore generale dell’isola di Sardegna e a chi pro tempore reggerà l’ufficio, salute e dilezione. In seguito alla pace stabilita tra noi e i pisani facemmo restituire agli stessi pisani la villa di Selegas, sita nella curatoria di Trexenta, che prima avevamo concesso al diletto nostro Piere de Llibià. Perciò vi ordiniamo che qualora le ville e i luoghi che i pisani detengono in detta isola dovessero ritornare in qualche modo in nostro possesso, detta villa sia restituita al ricordato Pere de Llibià e da questi sia posseduta conformemente alla carta di concessione a suo tempo da noi fattagli. Ciò senza attendere altro nostro ordine53.

5. I protagonisti dell’effimera feudalizzazione del 1324-25
5.1. Teresa Gombau de Entença, mancata signora di Bangio Donico
Teresa Gombau d’Entença discendeva da una delle più illustri famiglie della nobiltà catalano-aragonese54, per quanto appartenesse ad un ramo bastardo del lignaggio. Sorellastra dell’infanta Teresa d’Entença, contessa d’Urgell e moglie dell’infante Alfonso, nacque dalla relazione extraconiugale tra Gombau de Entença, barone di Alcolea de Cinca, Xiva e Xestalgar, e Stefania di Sicilia. Da questa unione nacquero anche Guillem, Ponç Hug ed un’altra Teresa Gombau monaca del monastero di Casbes55.

Prima di maritarsi nel 1324 con Berenguer Carroz, figlio dell’ammiraglio Francesc Carroz56, era stata promessa sposa di Ramon o Ramonet de Cardona, nobile catalano al seguito dell’infante Alfonso in Sardegna, figlio di Bernat Amat de Cardona signore di Torà, nipote pertanto del visconte Ramon Folc VI de Cardona e –verosimilmente – del Ramon de Cardona nominato governatore generale di Sardegna nel 133057.

In previsione di questo matrimonio l’infante Alfonso, nel novembre 1323, le promise 60.000 soldi di Barcellona in auxilium maritagii58 e, contestualmente, le concesse in feudo secondo il costume d’Italia una rendita annua di 30.000 soldi sopra i redditi di qualsiasi luogo del regno di Sardegna59. A questo atto seguì a distanza di un mese la concessione in feudo secondo il costume d’Italia con le riserve del mero e misto imperio, oste e cavalcata e il servizio di sette cavalli armati per tre mesi l’anno, di sette ville comprese nei territori di varie curatorie all’interno dell’archidiocesi di Cagliari: Cerargio, Lene, Decimo Popussi, Villanova, Seruso, Palma e Bana (o Bona) Danico60, nella quale non si può non riconoscere la villa di Bangio Donico in Trexenta.

Il centro, sviluppatosi sul sito di un cospicuo abitato di età romana con visibili resti di un impianto termale che ha dato il nome alla località (balneum in latino da cui il sardo bangiu)61, è da localizzare nella fertile piana a sud del moderno abitato di Ortacesus ove ha lasciato profonde tracce nella toponomastica: Su Bangius, Funtana Bangius, Pardu Bangius62.

Entrambe le suddette donazioni non ebbero tuttavia luogo per la morte in battaglia del futuro marito, evento registrato anche nella Cronaca di re Pietro IV d’Aragona63. In particolare il promesso ausilio di 60.000 soldi fu congelato sino alle nuove nozze con Berenguer Carroz, mentre alcune delle ville contenute nel primitivo atto di concessione feudale furono assegnate ad altri personaggi della cerchia dell’infante: Decimoputzu e Leni, nella curatoria di Gippi, rispettivamente ad Arnau de Montseny64 e ad Arnau de Ladrera65, Bangio Donico, nella curatoria di Trexenta, al barcellonese Guillem Sapera66.

Nella nuova donazione del luglio 1324 a vantaggio di Teresa Gombau de Entença, questa volta promessa sposa se non già moglie di Berenguer Carroz, le tre ville delle curatorie di Gippi e Trexenta furono sostituite con altre due del Campidano, Sexto e Sennuri, rimanendo invariate le altre pur nella diversa grafia dei nomi: Cerargio, Palma, Saparasi e Villanova Sancti Basili67.

La morte di Teresa Gombau, avvenuta pochi anni dopo il matrimonio, diede avvio ad un contrasto per la sua eredità tra il marito Berenguer Carroz e il re Alfonso IV d’Aragona68. Oggetto del contendere era una clausola allegata all’atto di concessione feudale in cui detta Teresa aveva concordato con l’allora infante Alfonso che se fosse morta senza figli, come in effetti fu, i luoghi a lei infeudati sarebbero ritornati alla Corona, tutto ciò all’oscuro del Carroz.

La controversia si appianò nel corso del 1332 quando Berenguer Carroz rimise al re ogni debito che la regia curia aveva nei suoi confronti, vale a dire 42.500 soldi genovini rimanenti dei 60.000 promessi in dote alla defunta moglia Teresa e inoltre tutti i diritti da lui posseduti sulle ville di Decimoputzu, Gippi Ius e Bangio de Sipollo comprate da Arnau de Montseny nella curatoria di Gippi e cedute ai pisani dopo la pace del 1326, valenti 6.000 soldi di genovini l’anno. In cambio riceveva il possesso con il mero e misto imperio delle ville di Cerargio, Palma, Sexto, Sennuri, Saparasi e Villa Nova Sancti Basili site nella curatoria di Campidano come erede universale della detta moglie Teresa Gombau de Entença69.



5.2. Pere de Llibià signore di Selegas
Pere de Llibià, cavaliere e consigliere reale, fu un alto funzionario del regno di Sardegna e Corsica nei primi anni della conquista, appartenente ad una famiglia della piccola nobiltà catalana attestata a partire dagli anni venti del secolo XIII70. Il cognome, nelle sue varianti ortografiche Llbià/Llebià/Llevià/Llavià/Llivià/Libià/Lebià/Labià (de Libiano, de Labiano o de Lebiano in latino), denuncia una chiara origine toponimica essendo Llabià o Llavià un piccolo paese in provincia di Girona, frazione del comune di Fontanilles (Baix Empordà)71. La villa e la sua parrocchia, nel basso medioevo, erano comprese nell’area di influenza politica ed economica di Torroella de Montgrí che dal 1273 – quando entrò a far parte del patrimonio reale – divenne il centro di riferimento dell’autorità dei re d’Aragona per tutta la zona settentrionale del Baix Empordà e sede di un procuratore reale72. Tale carica fui esercitata per vari anni da membri della famiglia Llibià.

Una fonte autorevole73 identifica erroneamente il nostro personaggio col Pere de Lebià che nel 1276, in occasione della rivolta dei saraceni valenzani, fu incaricato di organizzare una squadra navale della quale fu ammiraglio supplente l’anno successivo74 e che ricoprì le cariche di justícia di Valenza (1276-1284)75 e procuratore di Minorca al momento dell’occupazione col compito di ripopolare l’isola (1287-88)76. Definito dalla letteratura trecentesca «molt prohom e savi»77 godette di grande considerazione alla corte d’Aragona come traspare dagli importanti uffici ricoperti sino 1297: maestro razionale78, tesoriere del regno di Maiorca79, baiulo maggiore del regno di Maiorca, Minorca e Ibiza80, baiulo generale del regno di Valenza81. Il fatto tuttavia che questo Pere [I] de Llibià risulti deceduto anteriormente al 1° marzo 130082 esclude l’identificazione con l’omonimo giunto in Sardegna nel 1323, del quale era verosimilmente il nonno.

Il nostro Pere [II] de Llibià era con ogni probabilità figlio del cavaliere Bernat de Llibià, sposatosi nel 1293 con una figlia di Guillem Escrivà83, che fu baiulo di Tortosa84, Girona85 e baiulo generale del regno di Valenza86 nonché baiulo e procuratore reale a Torroella de Montgrí (Baix Empordà, Girona)87. Qui, per ordine del re Giacomo II, sovrintese alla costruzione di una imponente fortezza mai ultimata88. Sciolto l’ordine dei Templari fu stretto collaboratore e rappresentante del sovrano nel recupero dei castelli di Peñiscola (dicembre 1307) e Miravet (dicembre 1308)89.

Nella documentazione d’archivio il nostro Pere [II] de Llibià compare a partire dal 1312 come procuratore reale «in Turricella de Montegrino et in honore de Crudiliis et Peratallada»90, castelli tra i più strategici del Baix Empordà. Nel 1321, a ridosso quindi della spedizione dell’infante Alfonso in Sardegna, «Petrus de Libiano miles», padre di «Bernardus de Libiano», figura procuratore regio «in honore Turricelle de Montegrino, necnon castrorum de Pals et de Pontonibus»91. Un uomo quindi nel quale il re e l’infante riponevano la massima fiducia.

Nell’isola ricoprì ruoli di primo piano in seno all’amministrazione regia: fu dapprima vicario generale «in partibus Callari» (metà luglio 1323 - metà luglio 1324)92 con giurisdizione sulle curatorie di Campidano, Bonavoglia, Trexenta, Siurgus, Galilla, Nuraminis e Sarrabus, nonché sulle Barbagie di Seulo e Girasole93, poi amministratore generale delle regie entrate in coppia con Arnau de Caçà94, quindi podestà e capitano di Villa di Chiesa con giurisdizione anche sulle curatorie di Sigerro, Sulci, Nuras e Gippi95. Inizialmente tenne cumulate le due ultime cariche poi, agli inizi del 1326, fu sostituito nell’ufficio di amministratore da Francesco Daurats96. Nell’agosto dello stesso anno gli fu concessa la castellania del castello di Acquafredda97, mentre dall’ottobre 1328 operò ancora come amministratore generale98, carica dalla quale fu momentaneamente sospeso nel corso del 1330 perché accusato di malversazione, subendo anche la confisca dei beni99. Sfuggì all’arresto solo grazie all’appoggio del governatore Ramon de Cardona ma nel luglio 1331 risulta reintegrato al vertice dell’amministrazione generale del regno100 e nella carica di castellano del castello di Acquafredda con una provvigione annua di 7000 soldi101. Morì alla fine dello stesso anno perché una carta datata 5 marzo 1332 ci informa che era deceduto da quattro mesi102.

A guerra di conquista non ancora conclusa, il primo maggio 1324, l’infante Alfonso gli donò in feudo secondo il costume d’Italia la villa di Selegas sita nella curatoria di Trexenta con le case e i beni appartenuti a tale Nicola Geraldi103, ordinando contestualmente a Filippo Orlando, giudice di fatto «in certis curatoriis», di procedere alla relativa investitura104.

La precocità della donazione – tra le più antiche che si conoscano per la Sardegna – giustifica l’estrema prudenza adottata dall’infante Alfonso nel riservare per sé il mero e misto imperio e tutta la giurisdizione completa, civile e criminale, compresi i crimini di lieve entità che tuttavia comportassero la fuoriuscita di sangue. Solo nei crimini di lieve entità senza fuoriuscita di sangue il feudatario poteva giudicare a suo piacimento. Particolarmente gravoso appare inoltre il servizio di due cavalli armati che detto Llibià era tenuto a fornire per tre mesi all’anno a sue spese, non solo in Sardegna al re d’Aragona ma anche in qualunque parte d’Italia al romano pontefice, qualora gli fosse stato richiesto.

Queste condizioni così sfavorevoli, comuni ad altre infeudazioni precedenti la fine del conflitto con Pisa105, vennero solo in parte mitigate due mesi più tardi quando l’infante, fatta salva la riserva del mero e misto imperio – senza però la clausola «etiam in levibus criminibus» –, rinnovò al Llibià la carta di donazione eliminando l’obbligo di prestare il servizio militare anche al papa e riducendo il numero dei cavalli armati richiesti ad uno solamente, pur con l’aggiunta di un censo di 10 fiorini d’oro106.

Nel volgere di un anno il patrimonio feudale del Llibià si accrebbe grazie alla donazione in feudo secondo il costume d’Italia di 3000 soldi di genovini sui redditi annui di qualsiasi villa del regno di Sardegna107, cui seguì l’investitura della villa di Siliqua, sita nella curatoria di Sigerro, concessagli con la riserva del mero imperio e col servizio di un cavallo armato108.

Dopo questa concessione anche per la villa di Selegas Pere de Llibià si vide finalmente riconosciuto l’esercizio del misto imperio con tutta la giurisdizione civile, fatto salvo il servizio di un cavallo armato, e senza più alcun cenno al censo annuo di 10 fiorini d’oro109. Il godimento di questi vantaggi fu tuttavia di breve durata perché con la seconda pace del 25 aprile 1326 stipulata tra Corona d’Aragona e Pisa, la villa di Selegas fu ceduta al comune toscano assieme a tutti gli altri centri delle curatorie di Trexenta e Gippi110. Al Llibià rimase il diritto a rientrarne in possesso qualora la Corona avesse avuto modo di recuperarla.

Così quando l’infante Alfonso, sulla base di un accordo raggiunto con i feudatari dell’isola di Sardegna che non detenevano il mero imperio, riconobbe a Pere de Llibià la metà del denaro proveniente dall’esazione delle machizie nella sua villa di Siliqua, tale concessione fu estesa anche alla villa di Selegas nel caso in cui il Llibià ne fosse rientrato in possesso111.

All’inizio del 1331 poi lo stesso Alfonso, da qualche anno re d’Aragona, ricordava al governatore generale del regno di Sardegna che se la villa di Selegas fosse in qualche modo tornata sotto il controllo della Corona doveva essere restituita a Pere de Llibià senza attendere altra sua disposizione112.

Tali diritti trapassarono verosimilmente al figlio ed erede Nicholay de Llibià che nell’agosto del 1332, tramite il cavaliere Ramon de Llibià suo procuratore, era investito della villa di Siliqua prestando omaggio e giuramento di fedeltà al re Alfonso113.
5.3. Pere de Montpaó signore di Senorbì, Simieri e Sèbera
Pere de Montpaó (Petrus de Monte Pavone o Montepavone in latino), cavaliere, alguazir e consigliere reale, discendeva da una famiglia della medio-piccola nobiltà catalana che alcuni studiosi ritengono originaria della Francia114. Questa ipotesi si basa sulla effettiva attestazione del toponimo e del cognome in distinte aree del territorio occitano (Aveyron, Dorgogne, Aude, Bouches-du-Rhône), sin dal secoli XI-XII115, ma non meno significative per diffusione e antichità paiono le testimonianze toponomastiche offerte dalle attuali province catalane di Barcellona, Lerida e Tarragona in riferimento a monti (Anoia, Segarra), fiumi (Baix Penedès) e abitati (Conca de Barberà, Baix Penedès, Segarra)116. Esiste anche un castello di Montpaó in provincia di Lerida nei pressi del paese di Sant Pere dels Arquells (Ribera d’Ondara, Segarra), poco a sud di Cervera117. Detto castello era in origine relazionato ad un omonimo abitato oggi scomparso che a buon titolo può essere considerato il reale luogo di origine del lignaggio118.

Fin dalla prima metà del secolo XII i Montpaó catalani paiono strettamente legati alla valle del Riu Francolí (Conca de Barberà, Tarragona). Qui, tra i centri di Vimbodí, Poblet e L’Espluga de Francolí, si ergeva il poderoso castello di Milmanda donato nel 1148 da Guerau de Granyena ad Arnau de Montpaó119, noto nelle fonti storiche per aver partecipato nel 1149 alla presa cristiana di Lerida e alla successiva ripartizione dei benefici120. Pochi anni dopo, nei limiti di detto castello, sorse il reale monastero di Poblet che divenne luogo di sepoltura del casato121. A l’Espluga de Francolí122 i Montpaó godevano nel corso del secolo XIII di vari diritti e proprietà: nel 1203 Guillem de Montpaó donò al suddetto monastero tre mulini da lui posseduti per concessione dei signori feudali del luogo, i Cervera123, mentre nel 1270 fu siglato un accordo relativo all’omonimo castello fra il gran commendatore dell’ordine degli ospedalieri in Spagna e il cavaliere Bernardo de Montpaó124. Questi nel 1288 fondò due cappellanie nella chiesa di Valls, il cui patronato assegnò all’abate e priore di Poblet125.

Lo stato della nostra ricerca non consente al momento di ricostruire un preciso quadro genealogico della famiglia Montpaó126, diversi membri della quale presero parte attiva alla guerra di liberazione del Pais Valencià dai musulmani127. In particolare un Pere de Montpaó (†ante 27 dicembre 1265)128 ricevette da Giacomo I una casa e un campo a Valenza all’epoca della conquista della capitale nel 1238 e anche terre e mulini nel 1247129.

Un altro Pere de Montpaó, distinto dal precedente, figura nel 1277 comanador del castello templare di Corbins (Segrià, Lerida)130.

Il nostro Pere de Montpaó era verosimilmente figlio o nipote del citato Bernat de Montpaó131, cosigliere reale e castellano del castello di Valls nonchè signore di Vilallonga e Ribaroja (tutte località dell’attuale provincia di Tarragona) che morì il 30 maggio 1299 e fu seppellito nel chiostro del monastero di Poblet132. Figura nota nella seconda metà del secolo XIII, Bernat de Montpaó fu un fedelissimo della casa reale per conto della quale tenne vari anni in custodia il castello di Siurana (Priorat, Tarragona), famoso per essere stato prigione di illustri personaggi133. Ebbe anche, sino al 1285, diritti sul castello di Conesa (Conca de Barberà, Tarragona)134 e ricoprì gli uffici di veguer di Lerida135 e baiulo «montanearum de Pradis»136. Nel 1291, assieme a Berenguer e a Poncet de Montpaó, figura tra i feudatari catalani chiamati a prestare giuramento di fedeltà e omaggio al nuovo re d’Aragona Giacomo II137, mentre l’anno successivo presenziò con gli stessi alle corti generali di Catalogna tenute a Barcellona138.

Da una carta del 1293 ricaviamo che questo Bernat era padre di un Perico139 de Montpaó, cui il re Giacomo II riconosceva il rimborso per la perdita di un ronzino al suo servizio140. Lo stesso Perico doveva essere impegnato nel 1297 nella guerra di Murcia se il re d’Aragona ordinava al baiulo di quel regno di rifornirlo di vesti141.

Non è chiaro se sia lo stesso Pere de Montpaó che nel 1311, in qualità di scudiero, accompagnò l’infante Giovanni d’Aragona ad Avignone per ricevervi la tonsura dalle mani del papa142, mentre sussistono pochi dubbi sull’identificazione di quest’ultimo col Pedro de Monpahó citato dallo Zurita tra i catalani al seguito dell’infante Alfonso nella spedizione per la conquista della Sardegna del 1323143.

Le fonti documentarie delineano un personaggio nel quale la casa reale riponeva la massima fiducia tanto che nel 1314, allo scoppio di una violenta pestilenza, il re Giacomo II d’Aragona progettò un eventuale ricovero degli infanti Giovanni e Raimondo Berengario nell’abitazione posseduta da Pere de Montpaó nelle campagne di Valls per farli sfuggire al contagio144. Lo stesso Pere risulta poi veguer di Montblanc (Tarragona) nel 1319145.

Sin dalla prime fasi della campagna sarda operò a stretto contatto dell’infante Alfonso, essendo da questi gratificato con cariche di prestigio: fu infatti veguer dei castelli di Cagliari e Bonaria146 e luogotenente del governatore generale dell’isola147. Contemporaneamente il fratello (?) Ramon fu castellano del Castello di Cagliari148, podestà di Sassari e capitano del Logudoro149, reggendo in seguito anch’egli l’ufficio di governatore generale per assenza o morte del titolare150. Si pensa che la torre del Castello di Cagliari nota come della Paona, abbia preso il nome da questa famiglia151 il cui stemma araldico contempla un pavone d’azzurro in campo d’argento152.

Nel 1324, con carta data a Bonaria l’11 luglio, l’infante Alfonso concesse in feudo a Pere de Montpaó secondo il costume d’Italia e col servizio di due cavalli armati le ville di Senorbì, Simieri e Sèbera, site nella curatoria di Trexenta, riservando per sè il mero e misto imperio, il laudemio, la fatica di trenta giorni e il diritto di appello da parte degli abitanti153. Le ville infeudate occupavano un’area lievemente ondulata proprio al centro della conca trexentese, abitata continuativamente sin dall’età prenuragica. Senorbì, l’unica sopravvissuta, aveva all’epoca un’estensione territoriale di gran lunga inferiore all’attuale, esito dall’accorpamento degli antichi centri abitati di Sisini e Arixi (comuni autonomi sino al 1927) e delle ville scomparse di Segolay, Aluda, Donigala Alba e Villa di Campo. La villa medievale confinava ad ovest/nord ovest con quella di Simieri, spopolatasi nel corso del secolo XV, che ha lasciato tracce di sé nei toponimi nuraghe Simieri e Xea Simieri154. Una sentenza arbitrale del 1455, relativa alla causa tra il signore della Trexenta Pietro de Sena e l’arcivescovo di Cagliari per il possesso dei salti di Simieri e Cixì, ci dà, in sardo e catalano, i confini della villa corrispondenti ai limiti meridionali dell’attuale comune di Suelli155. Non vi era invece continuità territoriale con la villa di Sèbera, localizzata da taluni in agro di Ortacesus alle pendici del colle di Bruncu Lau de Sèbera, ove sussistono i ruderi di una chiesa dedicata a San Bartolomeo156, da altri invece ad ovest di Guasila, sul versante occidentale del colle di Mont’e Sèbera157.

Successivamente l’infante ampliò al Montpaó la concessione con l’aggiunta del mero imperio e di altri 2000 soldi di rendita su ville confinanti, sostituendogli inoltre il servizio di due cavalli armati con un censo annuo di 40 fiorini d’oro di Firenze158.

In seguito alla seconda pace tra Aragona e Pisa (25 aprile 1326) Pere de Montpaó perse le sue ville della Trexenta a vantaggio del comune toscano, ottenendo in risarcimento 6 000 soldi di rendita annua sopra i redditi di una o più ville situate nel distretto della città di Sassari o di quelle confiscate ai ribelli della Corona. Di questi 6 000 soldi 4 000 corrisopondevano all’indennizzo per la perdita delle ville trexentesi159, i restanti erano a rimborso della citata donazione di 2 000 soldi che non aveva avuto esito per mancanza di ville da assegnare in feudo160.

Nel volgere di un anno, a titolo di globale ricompensa, si vide infeudare le ville di Sorso, Tànega, Gennor e Oruspe site nella curatoria di Romangia, ma fu osteggiato da parte dei probi uomini e degli anziani della città di Sassari in virtù dei privilegi di cui la città godeva sui centri del circondario. La donazione gli fu così revocata anche se nel 1328 re Alfonso IV gli concedeva ugualmente di percepire le rendite161. Riuscì a prenderne effettivo possesso solo nel 1330162, dopo che si concluse la terza ribellione di Sassari con l’espulsione degli originari abitanti e il ripopolamento attuato con nuovi pobladors catalano-aragonesi163. Ancora dopo un anno tuttavia la legittimità della concessione al Montpaó non appare ancora del tutto chiara, fino alla conferma di re Alfonso nel giugno 1331164.

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