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Bisanzio e l’europa


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Bologna, Aula Magna Santa Lucia, 6 novembre 2004, Inaugurazione dell’anno accademico 2004-2005

ANTONIO CARILE



BISANZIO E L’EUROPA



Al mio Maestro Agostino Pertusi (1918-1979)

per la sua Europa “dall’Atlantico agli Urali”

Bisanzio è l'arcaismo toponomastico con cui la propaganda papale, dal 751, caduta dell’Esarcato, ma non dell’insieme dell'impero romano d'Oriente in Italia, all'800, traslazione papale del titolo imperiale romano ai Carolingi, sottraeva a Costantinopoli Nuova Roma la sua qualità storica di basileousa polis, urbs regia (1), o, se vogliamo, con la traduzione di Dante in Conv. IV iv 13 "civitade imperatrice" (2). Si trattava della contesa ideologica per la supremazia politica e infine anche ecclesiastico-religiosa fra le due parti dell'impero (3). Il papato era portato a negare a Bisanzio il suo nome proprio di Costantinopoli Nuova Roma, perché la reduplicazione mistico-magica di Roma, implicita nella denominazione (4), conferiva al patriarca di quella città il fondamento della sua pretesa ai diritti e privilegi papali e perché il nome dell'imperatore Costantino era indiscutibilmente connesso alla idea della legittimità imperiale: il documento, forgiato nella cancelleria papale dell'VIII secolo, della Donazione di Costantino Constitutum Constantini (5) legittimava le pretese ierocratiche e al tempo stesso le riconnetteva alla traslazione della sede imperiale a Costantinopoli: Dante stesso assume, deprecatoriamente, questo assunto quando fa dire all'Aquila, nel XX, 55-57 del Paradiso che Costantino "...con le leggi e meco,/ sotto buona intenzion che fè mal frutto,/ per cedere al pastor si fece greco...".



Greco, per l'allievo di Virgilio, designava una etnicità deteriore (6); cui Dante allude nella ambiguità del "farsi greco", al tempo stesso locativo (andare in Grecia) e assunzione di alterità (diventare un greco).

La “Repubblica di San Pietro” (7), è valsa all'Occidente la unità politica del Sacro Romano Impero; è costata in cambio la dicotomia della sua coscienza in una romanità occidentale contrapposta a quella orientale, un atteggiamento di superiorità civile contro la tradizione cristiana orientale, cioè la fonte del cristianesimo, che marchia ancora la coscienza europea di oggi. La “Repubblica di San Pietro”, paradossalmente, è opera di un papato che dal VII all’ VIII secolo era stato gestito da papi orientali, greci e siriani: dal palestinese Teodoro I (642-649), figlio del vescovo di Gerusalemme, al greco di Sicilia Agatone (678-681), al bilingue siciliano Leone II (682-683), a Conone (686-687) originario del tema dei Tracesi ma educato in Sicilia, Sergio I (687-701) di famiglia siriana di Antiochia, nato a Palermo, Giovanni VI (701-705), Giovanni VII (705-707), Sisinnio (708), Costantino I (708-715), fino a Zaccaria (741-752), che tradusse in greco i Dialogi di Gregorio Magno. Questi papi orientali, di cultura ellenofona, saranno da ultimo ben decisi nella loro politica filocarolingia. La loro tradizione bizantina era chiara al Duchesne, mentre McCormick tende a sottovalutare il ruolo dei prelati greci in Occidente nel VII secolo come per l'Inghilterra, dove Teodoro di Tarso è il primo arcivescovo di Canterbury, e dove agisce Adriano di Africa. Ma che dire fra VIII e IX secolo del vescovo Cristoforo di Olivolo nelle Venezie, che traduce in latino l’Inno acatisto? La disputa a Rialto sulle lingue liturgiche fra il clero veneziano e Costantino/Cirillo e Metodio, di ritorno dalla missione in Moravia attorno all'868, dimostra che la conoscenza del greco letterario dispone ancora di alcuni esponenti nell'alto Adriatico, come dimostra la lettera in greco del patriarca di Grado Domenico Marango al patriarca di Antiochia in occasione dello scisma del 1054. Problemi relativamente al volgare parlato nei porti non dovevano esserci né nelle Venezie né ad Amalfi né a Genova. Berschin (1989) (8) ha mostrato la continuità del medioevo greco-latino da Gerolamo a Niccolò Cusano: testi di alta cultura circolavano in certa misura dall'una all'altra lingua, non solo nel centro di traduzioni di Roma, di cui Anastasio (800-879), divenuto Bibliotecario dopo aver mancato la elezione papale, fu l'esponente più insigne nel IX secolo; ma anche nella scuola di traduzioni di Napoli, fra IX e X secolo: il calendario marmoreo di S. Giovanni Maggiore a Napoli, con il suo ciclo di santi greci e santi latini voluto dal vescovo Atanasio I (849-872), simboleggia bene la fusione delle due culture, patrocinata anche dai duchi greci di Napoli, da cui nascono le traduzioni di vite di santi dal greco in latino ma anche la traduzione, ad opera dell'arcipresbitero Leone, del romanzo di Alessandro dello pseudo-Callistene, che Leone aveva acquistato a Costantinopoli, attorno alla metà del X secolo, dove era stato inviato come ambasciatore dal duca Giovanni III (928-968/969). Dalla traduzione di Leone si sviluppò la ricca tradizione occidentale del romanzo di Alessandro. Quello che venne a mancare, con la divaricazione delle due parti dell’unico impero, fu la formazione bilingue di alta cultura del ceto dirigente: i duchi di Napoli, che nel XII secolo sottoscrivono in latino ma a caratteri greci i loro documenti napoletani, ci chiariscono il limite linguistico del ceto dirigente.

Dante nella Commedia approfondisce il tema della obliterazione della qualità imperiale di Costantinopoli Nuova Roma stemperando l'arcaismo toponomastico "Bisanzio" nella marginalità ideologica di "nello stremo d'Europa" (Par. VI 5), in contrasto con il canone ellenistico della cultura geografica di Tolomeo - accolto anche da Giovanni Villani - che colloca il confine di Europa al Fasi, il fiume caucasico in fondo al Mar Nero, che Socrate morente nel Fedone di Platone (9) indica come orizzonte civile del Mediterraneo "noi che abitiamo dal Fasi sino alle colonne d'Ercole, ne occupiamo soltanto una piccola parte, abitando intorno al mare, come formiche e rane intorno ad uno stagno". Il Fedone era disponibile in latino nella traduzione dell'italo-greco Enrico Aristippo, arcidiacono sovrintendente della cancelleria di Palermo, morto in carcere prima del 1162, che tanta eco ebbe "nei libri morali, nelle raccolte di detti e di esempi di tutto il Medioevo" (Haskins) (10).

L'atteggiamento di Dante verso Costantino è ambiguo: da una parte Dante beatifica Costantino, in accordo con la tradizione orientale e in disaccordo con la tradizione occidentale ad eccezione di Sardegna e Sicilia (11), dall'altro assume un atteggiamento di deprecazione: uno dei cinque "fuochi" che compongono l'orbita dell'occhio dell'aquila in Par. XX 42 è appunto Costantino, "L'altro che segue, con le leggi e meco,/ sotto buona intenzion che fè mal frutto,/ per cedere al pastor si fece greco"; mentre in Mn II xii 8 egli è "infirmator ille Imperii" (il famoso destabilizzatore dell'impero) di cui si augura che mai fosse nato "vel nunquam sua pia intentio ipsum fefellisset" (o almeno che mai la sua pia intenzione lo avesse tratto in errore) (12). Apostrofe che compare anche in Inf.XIX, 115-117 “Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre/ non la tua conversion, ma quella dote/ che da te prese il primo ricco patre!".

La translatio imperii di Costantino da Roma a Costantinopoli viene da Dante subita nella sua intrinseca legittimità e nella sua visibile contraddizione simbolica con il moto del cielo, problema non da poco per chi attribuisce a Dio il compito di mettere in armonia la scelta dell'imperatore con i moti dei cieli, essendo il cielo il tramite della virtù divina di governo del mondo: “Poscia che Costantin l'aquila volse/ contr'al corso del ciel, ch'ella seguìo/ dietro all'antico che Lavina tolse" (Par. VI 1-3). Da Costantino a Giustiniano e fino agli anonimi imperatori del secolo VIII, Dante, in consonanza con Umberto di Romans e con la curia papale (13), riconosce la legittimità orientale della tradizione imperiale romana "sotto l'ombra delle sacre penne/ governò 'l mondo lì di mano in mano" (Par. VI 7-8). "sotto le sue ali/ Carlo Magno, vincendo, la soccorse" (Par. VI, 95-96): la protezione assicurata da Carlomagno alla Chiesa, contro "il dente longobardo", contro gli Arabi secondo Umberto di Romans (14), fonda la legittimità della traslazione imperiale da Costantinopoli ai Carolingi: Dante, che anticipa ad Adriano I (772-795) il gesto di Leone III nel Natale dell'800, sostiene la legittimità di trasferire la corona imperiale da un imperatore all'altro, senza che ciò comporti dipendenza dell'impero dalla chiesa (Mn III X) (15): assunto non sostenibile politicamente anche se fondato sul piano giuridico e comunque negato dalla stessa teoria dantesca della benedictio paterna del papa che consente all'imperatore di esercitare la propria autorità virtuosius (16).

La dicotomia fra Europa Occidentale ed Europa Orientale affonda le sue radici nell’abisso di incomprensione storica fra cristianesimo ortodosso e cristianesimo occidentale, soprattutto cattolico ma anche riformato: si tratta di una lunga storia, dei difficili rapporti fra Oriente e Occidente cristiani, dalla reduplicazione dell’impero romano nell’800, dagli scismi di Fozio nel IX secolo e di Michele Cerulario nell'XI, fino al Concilio Unionista di Ferrara nel 1438 e di Firenze nel 1439. L’episodio del patriarca di Costantinopoli, Cirillo Lucaris (1572-1638), di cultura italiana ma professante il calvinismo, segna un momento centrale di penetrazione occidentale nel mondo ortodosso, legato alla politica balcanica dei grandi imperi, al punto che lo stesso governo del sultano finirà per fungere da braccio secolare del clero ortodosso: facendo fisicamente eliminare il Lucaris, il sultano chiuderà il capitolo dei rapporti fra mondo riformato e chiesa ortodossa, mentre restava pericolosamente aperto quello fra chiesa ortodossa e autocrazia russa.

L'attuale conflitto del patriarca di Mosca contro la chiesa uniate di Ucraina, cioè con il papa di Roma, l’attuale conflitto di Alessio II con i missionari protestanti, è solo una ulteriore tappa in questo processo di avvicinamento negato. La frattura fra le chiese cristiane, cattolica, ortodossa e riformate, costituisce lo sfondo del quadro culturale dei rapporti fra le due parti di Europa; costituisce il nodo da cui storicamente si sviluppa la nozione della diversità nella cultura delle due Europe, quale veniva e viene ancora rispecchiata nella comunicazione, ai livelli reali o immaginari.

La cultura europea occidentale, dall’Illuminismo al Nazionalismo, al Decadentismo, all’odierno multiculturalismo, per lo più sul piano delle buone intenzioni, ha classificato Bisanzio nel gran teatro dell’Orient imaginaire, teatro del paragone e del rifiuto, nel quale a Bisanzio sono stati assegnati due ruoli (17): più comunemente la si rappresenta come soggetto storico nel repertorio dell’esotismo, visitazione transitoria, turistica, per definizione, esotismo esperito in varia gamma, ora magica, ora mistica, ora frivola. Non manca peraltro il ruolo assegnato a Bisanzio, dal pensiero politico occidentale, di modello di produzione asiatica, rientrante nel canonico “dispotismo asiatico” (18), quadro di spicco nella variopinta galleria del potere assoluto, tessuto di violenze, fanatismo, alienazione dalla dignità e dalla libertà del pensiero. Le chiese cristiane occidentali da 950 anni vedono nelle chiese cristiane ortodosse un amalgama riottoso di arcaismo ed ignoranza, istituzionalmente succubo del potere politico. Oscillante fra queste marginalità multiple, Bisanzio, incistata nel suo alone di eccentricità ambigua, rappresenta nella cultura europea, che aspira oggi ad aprirsi alle civiltà altre, viventi nel mondo, un mito di intima negatività e di finale sterilità. Bizantinismo, slavismo, ebraismo, islamismo, culture turcofone, culture estremo-orientali, più o meno incoffessabilmente ripugnano al ferreo processo identitario dell’Occidente e vengono sperduti, attraverso una programmatica ignoranza, nella landa nebulosa e desolata del rifiuto del diverso, distruttivo per antonomasia.

La inesistente Bisanzio è dunque solo un pregiudizio antiortodosso della cultura occidentale, che ne rivela in filigrana la matrice cattolica, peraltro condivisa dal protestantesimo, subito deluso dopo i primi approcci con la ortodossia del XVI secolo, in cerca della “chiesa delle origini”, mentre la ortodossia rifiutava la penetrazione del protestantesimo. E’ esistito al posto di Bisanzio l’impero romano, la Romània delle fonti latine dal IV al XV secolo, Rhomanìa delle fonti greche (19), con capitale Costantinopoli Nuova Roma, titolo determinativo del patriarca ortodosso Bartolomeo, che siede nella turca Istanbul, non presso la basilica patriarcale di Sant’Irene, già arsenale fino al 1969, ed oggi spazio espositivo, ma presso la chiesetta del Fanar, verso il fondo del Corno d’Oro.

Bisanzio è obliterata dalla memoria collettiva dell’Occidente, è di fatto esclusa dalle fonti canoniche della cultura occidentale, non per difetto di strumenti conoscitivi, accumulati da una tradizione di studi bizantinistici e di edizioni di fonti storiche, teologiche e letterarie che risale almeno al XV secolo, e che si avvalse subito del nuovo strumento della stampa. Mentre la filologia bizantina nasceva per gli interessi letterari degli umanisti italiani, la storia bizantina nasceva in Europa sull'onda dell'interesse religioso della Riforma per la chiesa greca, antipapista: fluisce immediatamente la stampa delle fonti bizantine, grazie alla gara fra mecenati luterani, come i banchieri Fugger, e i re di Francia, orientati dai Gesuiti in questa scelta di politica culturale, che rientrava in un più ambizioso e alla fine velleitario quadro di difesa e magari riappropriazione dell’Oriente cristiano sotto dominio ottomano (20), ambizioso programma anche degli zar da Pietro a Caterina II: il Leibniz avrebbe per primo suggerito di tentare lo smembramento dell’impero ottomano a partire dalla riconquista dell’Egitto.

Bisanzio è obliterata ed esclusa piuttosto per arroccamento autodifensivo dell’Occidente: il senso della superiorità della cultura occidentale rispetto a tutte le altre, anche in questo caso, peraltro interno alla Cristianità, sembra l’equivalente ideologico della difesa del territorio, l’automatismo reattivo meno rinunciabile da parte degli esseri viventi. Difficile è pertanto il compito del mio discorso, volto a mostrare che Bisanzio, nonché alterità destinata al rifiuto, è al contrario elemento fondante della identità occidentale, ed è da sempre integrata nella più occidentale delle storie.

Sarebbe tanto pittoresco quanto ozioso ripercorrere il repertorio delle ingiurie rivolte a Bisanzio, dalle lettere papali posteriori al 751, anno di caduta dell’Esarcato di Ravenna in Italia, al vescovo di Cremona Liutprando a metà del X secolo; dal Gibbon nel XVIII secolo, al Cattaneo e al De Amicis del Viaggio a Costantinopoli nel XIX secolo. A questo canto si unisce il controcanto puntuale e velenoso della propaganda bizantina, spesso di superiori capacità dialettiche, il cui tono più anodino è hesperios kai dysgenes cioè “occidentale ignobile”. Questi antichi cori di ingiurie sono ora stemperati nell’uso giornalistico italiano di “bizantino” e “bizantinismo”, sfumatura sardonica che il progetto politico de Il bizantino di Nikolay Spasskiy (2002) (21), romanziere di complemento ma personalità politica della dirigenza putiniana, non credo sarà sufficiente a dissipare nella cultura italiana.

Quando pensiamo al Medioevo, siamo soliti pensare alla caduta dell’Impero Romano e alla vittoria dei barbari. Pensiamo alla decadenza del sapere, all’avvento del feudalesimo e a lotte micragnose. Le cose non andarono così in realtà, senza dubbio, perché l’Impero Romano nella realtà non cadde. Si mantenne durante il Medioevo. Né l’Europa né l’America sarebbero come sono oggi se l’Impero Romano non fosse continuato nella sua esistenza per molti anni dopo la sua presunta caduta”. Così si apriva nel 1970 Constantinople. The Forgotten Empire di uno storico inaspettato, Isaac Asimov. Eppure in due libri recenti sulla formazione dell’Europa di storici eccellenti (22), di Bisanzio, cioè della continuità dell’Impero Romano, non si parla, l’Europa sembra ricostituirsi da una sorta di rimodellamento della società occidentale ad opera dei ceti dirigenti germanici, con una puntuale sottovalutazione dell’apporto del popolamento latino e dei ceti dirigenti bizantini.

L’etichetta “Bisanzio” è stata un metodo capzioso per saldare il debito storico con l’impero romano d’Oriente, il baluardo politico-militare e la potenza che dal IV all’XI secolo controllò Anatolia, Penisola Balcanica e mare Mediterraneo. Bisanzio, i suoi soldati-contadini, i suoi marinai, i suoi imperatori-generali consentirono alle società ed economie europee di mantenere un determinato livello di urbanizzazione lungo le coste, alimentate dal commercio bizantino, e di svilupparsi dal IV al XIII secolo senza affrontare le enormi spese militari che il tracollo di quel baluardo, provocato da un processo di espansione occidentale nel Levante culminato nella IV Crociata nel 1204, in coincidenza con l’espansione turca in Anatolia, avrebbe imposto alle potenze occidentali fino a tutto il XVIII secolo. Gli imprestiti linguistici di origine marinara nel lessico italiano da soli testimoniano questa fase della talassocrazia bizantina: calafato, carato, galea/galera, gattòlo, mandracchio, nocchiero, nolo, fra i più antichi.

Il conflitto con il califfato - cui si accompagna una macroscopica cesura di continuità urbane in tutto il bacino del Mediterraneo già romano e in particolare in Anatolia (23), fenomenologia complessa, attualmente al vaglio di archeologi e storici - venne condotta faticosamente ma strenuamente dal settore ellenico e dalle etnie caucasiche dell'impero romano orientale, fenomeno che conferì ai resti dell'impero romano orientale una gravitazione territoriale prevalentemente microasiatica e un arroccamento culturale sulla tradizione ellenica e sulla ortodossia calcedoniana, conseguente alla origine provinciale del ceto dirigente, di estrazione militare, di lingua e cultura ellenica e di professione ortodossa; fenomeni di lunga durata, atti a divaricare la possibilità di comprensione linguistica e culturale, dei ceti dirigenti, fra l'Oriente e l'Occidente dell'impero romano e a svalutare il senso di importanza dell'Italia, "servilis provincia", agli occhi della corte bizantina, ad eccezione del settore grecanico, - cioè la Calabria, nel senso di allora, cioè Puglia e Calabria - e Sicilia in via di popolamento greco, forse ad opera dei profughi ellenofoni dell'Africa sotto invasione araba e della Penisola Balcanica sotto invasione slava -; e ad eccezione altresì del controllo delle rotte marittime e delle isole del Mediterraneo, - contese per tempo all'impero bizantino nel VII e VIII secolo dalle marinerie siriane e africane: cioè l'area altoadriatica, caratterizzata dalla continuità dei porti tardoantichi, e l'area tirrenica, uno dei due settori marittimi di rilievo per gli scambi verticali fra Europa continentale e Africa. Aree controllate da Bisanzio attraverso l'arcontato di Dalmazia e il ducato delle Venezie in Adriatico, attraverso il ducato di Sardegna, il ducato di Napoli nel Tirreno e il tema di Sicilia fra Tirreno e canale d’Otranto (24).

Lo sforzo economico della guerra contro gli Arabi impose sull'Italia, e sulle proprietà papali in Italia meridionale, un fiscalismo che si fece molto pesante sotto Leone III (717-741) e contro cui si ribellò il papa, rifiutandosi di versare il dovuto (25).

La tradizione orientale dell'impero romano, cioè ellenismo, statalismo tardoantico, esercito, chiese anatoliche viene da alcuni storici proposta secondo l'idea della continuità fra tardoantico e bizantino, sottolineata nelle strutture centralizzate della amministrazione imperiale, nelle relazioni agrarie e nello sviluppo senza cesure di città e cultura, teoria in connessione con la concezione di alcuni storici marxisti della diretta derivazione del feudalesimo bizantino dalla trasformazione della economia schiavistica accentrata nelle città, mentre prevale una burocrazia centralizzata come classe dirigente di servizio (26). Bisanzio mantenne la unità delle etnie anatoliche, fece fronte all’espansionismo del califfato di Damasco, altrimenti possiamo ritenere che leggeremmo una storia d'Europa con le chiese cristiane nella posizione delle sinagoghe ebraiche, con arabo e persiano come lingue di alta cultura al posto del latino e del greco, il papato avrebbe vivacchiato nella posizione dei patriarcati orientali, come la prima sede petrina, quella di Antiochia.

Se vogliamo proseguire in questo esercizio in principio vietato agli storici, il centro dell'Europa avrebbe gravitato verso le sedi califfali di Damasco e poi di Bagdad, invece che da Costantinopoli a Roma: il Mediterraneo avrebbe conservato la tradizione unitaria anteriore alla conquista araba, ma sotto supremazia islamica. Il conflitto con l'Africa settentrionale, una linea di attrito etnico, culturale e politico attiva ancora fra XIX e XX secolo, attrito mal sopito dal trionfo coloniale francese e inglese nella sua evoluzione dal dominio diretto al controllo economico negli anni ‘50 del XX secolo, sarebbe stato composto in una identità culturale comune, anche a livello di alta cultura, mentre il cristianesimo nelle sue varie chiese non avrebbe conosciuto alcuna forma di unificazione gerarchica, il patriarca di Occidente sarebbe stato isolato nel contesto dei patriarcati, come quello di Costantinopoli è isolato nel contesto dei patriarchi orientali, e avrebbe avuto come quello un primato di onore senza riflessi ecclesiologici. I ceti dirigenti sarebbero stati rigorosamente islamici e arabofoni. Il mito politico prevalente sarebbe stato non la antichità classica o la unità imperiale romana e poi il primato di Europa e quindi della civiltà occidentale, ma la ortodossia islamica e la unità del califfato. Per il resto le differenze politiche e regionali e la microconflittualità non sarebbero state diverse. Ma se è chiaro cosa sarebbe stata l'Europa senza la resistenza militare e culturale dell'impero romano orientale, la ambigua ed esecrata Bisanzio della tradizione ideologica occidentale, va ora illustrato quello che l'Europa ha assunto direttamente dalla tradizione culturale, politica ed economica dell'impero romano con sede a Costantinopoli Nuova Roma.

Cinquecento anni prima della scoperta dell’America, duecento anni prima delle Crociate, Costantinopoli Nuova Roma aveva esteso gli orizzonti territoriali della società mediterranea molto al di là dei limites romani, costretti ad oriente entro l’asse Elba-Danubio. La cristianizzazione della penisola balcanica e della Rus’ nel IX e X secolo sono il lascito più carico di futuro che la Romània attraverso i suoi mercanti, i suoi missionari, i suoi politici, i suoi ecclesiastici, i suoi uomini di cultura, ebbe a forgiare nella realtà dei popoli slavi.

Bisanzio attraverso la chiesa ortodossa allargò ai Balcani e alla Russia le frontiere di Europa. La conversione ufficiale dell'antico stato kievano (Rus') al cristianesimo, con il battesimo del gran principe Vladimir nel 988 e della sua capitale Kiev - il centro della Ucraina da cui il fenomeno si diffuse ai tre popoli russi - ha significato, millesedici anni fa, l'ingresso effettivo dei popoli russi nella cultura del Mediterraneo: quando sarebbe stata possibile la ipotesi della giudaizzazione, al pari del regno di Itil sul Volga, giudaizzato già dal 730, oppure della islamizzazione, operante sui Chazari attorno al 965 (27), attraverso la cristianizzazione giunge alla cultura dell'antica Rus' l'alfabeto cirillo-metodiano, giungono i testi della cultura ecclesiastica e della liturgia bizantine, accanto ai testi della cultura e della letteratura profana, giunge soprattutto il codice di diritto canonico bizantino, che modella la struttura della famiglia e dei rapporti sociali, mentre il gran principe e la sua corte adottano la ideologia politica bizantina.

Si apre un processo civile che lega indissolubilmente la Rus' alla civiltà bizantina. Secondo l'ottica dell'impero orientale il gran principe di Kiev passa da "philos/amico", da semplice "archon/signore" senza altro titolo, a "figlio" dell'imperatore di Costantinopoli, cioè entra con tutti i diritti nella legittimità civile più completa della familia regis, la ideale comunità dei popoli civili presieduta dall’imperatore di Costantinopoli (28).

L’omologazione culturale di questi enormi spazi e delle loro molteplici etnie nella cultura mediterranea, nella versione romano-orientale, è stato l’adempimento più alto cui Bisanzio ebbe a condurre la tensione civilizzatrice dell’ellenismo e della romanità, riassunte nella tensione missionaria del cristianesimo. Da Bisanzio la Rus’ assunse un ciclo di acculturazione che va dall’alfabero cirillico fino alla adozione delle forme esteriori e della struttura dell’autocrazia bizantina come forma di potere politico. Il centralismo autocratico di Ivan IV Groznyi, al di là del contesto dinastico (Ivan era il figlio di Basilio figlio di Zoì Paleologhini, figlia di un fratello dell’ultimo imperatore di Costantinopoli) dimostra che l’aquila bicipite dei Paleologi e il titolo di zar, (proveniente dal titolo aulico bizantino di kaisar che si pronunciava chiesar) non era solo il lascito simbolico di Bisanzio allo zarismo e ora alla nuova Russia. Ivan IV era imbevuto della idea imperiale bizantina di una autocrazia come manifestazione provvidenziale del governo di Dio nel mondo, secondo i termini della sua polemica con il principe Andrei Kurbskij. La polemica fra Ivan Groznyi e il principe Andrej Kurbskij (29), in un periodo di riaffermazione centralistica e antisignorile (opricnina) condotta dallo zar, che si pretende imperatore romano orientale, con larga applicazione della violenza imperiale, procedimento consueto della autocrazia bizantina nei suoi esponenti più di spicco, come Costantino V (30), Basilio II o Andronico Comneno. Lo zar Ivan nella sua epistola al principe Kurbskij, fuoriuscito il 30 aprile 1534 in Lituania, sotto la sovranità polacca di re Sigismondo Augusto, compie una rilettura della storia bizantina, di cui si considerava erede e continuatore, alla luce del conflitto fra imperatore e aristocrazia, in cui i momenti di crollo e di rovina dell'impero bizantino venivano ascritti al prevalere delle forze centrifughe della aristocrazia (31). "Laggiù (cioè a Costantinopoli) gli zar obbedivano agli eparchi e al senato e incorsero quindi in tanta rovina "(32), si sottolineava cioè la incapacità dei basileis di contenere le istanze localistiche dei grandi signori fondiari, quei dynatoi, megistanes bizantini che agli occhi di Ivan erano stati l’equivalente dei boiari, dallo zar avversati e repressi crudamente. L’autocrazia russa è stata un fenomeno politico e ideologico che ha contributo a modellare la storia d’Europa almeno fino al 1918 e ha lasciato, forse, una peculiare forma di pensiero e prassi politici.

In stagioni culturali in cui si facevano i conti di teocrazia, ierocrazia e di assolutismo monarchico, gli storici hanno proposto per il sistema di ideologia politica bizantina il termine di teologia politica: sembrava una insegna problematica più adatta a denotare una ideologia politica incardinata sul rispecchiamento dell’ ordine religioso nell’ ordine politico o viceversa. La riflessione degli storici sulla violenza di stato, in coincidenza con il Nazismo e il Comunismo, elaborò negli anni ’30, un sistema di analisi, come risposta ideale all’esercizio spietato della violenza, in particolare nei totalitarismi dalle finalità salvifiche, da Peterson a Schmitt a Voegelin; un sistema di analisi in anni recenti risollevato da Podskalsky, Fowden, Dagron e da Assmann (33), sistema caratterizzato da un parallelismo problematico, talvolta ambiguo, fra potere e salvezza (34).

Autocrazia, missione salvifica del potere, centralizzazione e organizzazione burocratica, concetto e prassi della violenza giusta, come ristabilimento rituale dell’ordine cosmico turbato dal male e dal malvagio, preminenza del potere politico su quello ecclesiastico e su quello economico, sono prassi ed ideologie dello stato che Bisanzio per prima ha mostrato in Europa nella sua più completa organicità. Se lo zarismo ha condotto alle soglie del XX secolo una tale forma ideologica, l’assolutismo regio di Francia e di Inghilterra si era del pari nutrito della tradizione bizantina espressa nei Capitoli parenetici del diacono Agapeto, il maestro di Giustiniano, il cui classico trattatello, forse del 527, Luigi XIII tradusse, o ne firmò la traduzione, mentre Carlo Stuart, la sera prima della sua decapitazione, rilesse l’opera in cui si declina il paradigma della investitura divina del sovrano. Il rumeno voivoda Neagoe Basarab pose Agapeto a fondamento di una sua opera di precettistica regale che ebbe a sua volta grande diffusione nei Balcani cristiani e nella Russia (35). Il trattatello, ora dimenticato, ha in realtà avuto una fortuna enorme nella cultura europea, con una proliferazione di riscritture, in varie lingue, tutte da indagare.

La violenza giusta: gli atti dell’imperatore, scelto da Dio, “preservato dalle mani di Dio” (36), sono comandati da Dio e ogni azione contro l’imperatore e contro la giustizia è azione di un nemico di Dio e della fede, per cui Dio e l’imperatore lo puniscono. Nel singolare speculum che ci fornisce il bios di santa Eufrosine, santa aristocratica nel X secolo, attraverso i suoi consigli all’imperatore Leone VI (30 agosto 886 – 11 maggio 912), la santa asceta formula il concetto che l’imperatore porta la icona di Dio ma porta al tempo stesso il coltello di Dio “non per commettere ingiustizia, ma piuttosto per ristabilire la giustizia se uno sceglie di infrangere il diritto” (37). L’imperatore “usa la spada, che non porta invano né inutilmente” (38) e il cui uso è teorizzato dal diacono Agapeto contro i nemici esterni (39), ma anche contro i prepotenti interni “perché tu insegni agli esseri umani la difesa della giustizia e persegua militarmente la cagnara di coloro che compiono la follia di tumultuare contro di essa” (40), elementi negativi cui il sovrano deve incutere terrore e infliggere distruzione.

Il Paradiso come sito ideale di Dio e dei beati, l’immaginario dell’Inferno come voragine buia di punizioni graduate dei peccatori, sono ispirati all’immaginario cristiano dalla realtà del Sacro Palazzo, cioè la città proibita dell’imperatore, con le sue meraviglie (oggetti e arredi preziosi, mosaici, affreschi, arazzi, automi), i suoi saloni deputati alle apparizioni imperiali e con le sue segrete sotterranee, di cui abbiamo ancora gli ambienti voltati, in scala enorme per dimensione e per numero, sotto il Palazzo delle Blacherne (cinquanta sale sotterranee) e sotto l’area del Bucoleone nell’odierna Istanbul. Già nella visione del prete Doroteo della fine del IV secolo troviamo la rappresentazione del Paradiso come Sacro Palazzo Imperiale, visione riproposta in una serialità di testi posteriori fino alla visione del monaco Cosma del 933 (41). Da quel modo di sentire e di immaginare nel mondo cristiano deriva nel VII secolo il Mi’raj di Maometto, cioè il viaggio del profeta vivente nell’oltretomba, dall’inferno fino al trono di Dio, con una architettura che, secondo Miguel Asìn Palacios, avrebbe influenzato Dante, tramite una versione proveniente dalla Spagna islamica (42): ipotesi anteriore alla edizione del Liber scalae Machometi nel 1949.

L’Europa occidentale nella sua esaltazione della civiltà classica, sembra dimenticare di aver assunto la eredità della filosofia e della letteratura ellenica dall’uso scolastico bizantino. Il movimento di riappropriazione del greco classico come lingua di cultura, tramite della filosofia e della letteratura antica, ha una lunga storia che passa dall’alta cultura della Italia meridionale grecanica, alla tensione missionaria dei francescani e dei domenicani, che fanno reintrodurre l’insegnamento dell’ebraico, del greco e delle lingue orientali, in primo luogo l’arabo, grazie alla appassionata opera di propaganda di Raimondo Lullo, culminata nelle delibere dei concili di Lione del 1274 e di Vienne del 1312 (43).

In piena sintonia con la missione di Oriente del papato e degli ordini mendicanti, Dante è consapevole della necessità di predicare nelle lingue orientali il Vangelo: Un uom nasce alla riva/ dell'Indo, e quivi non è chi ragioni/ di Cristo né chi legga né chi scriva (Par. XIX 70-72). Il problema della integrazione dell'ebraico, del greco e dell'arabo nell'alta cultura latina a livello di conoscenza riflessa, ratio grammaticae, viene posto al centro del programma culturale occidentale dal papato e dagli ordini mendicanti, che fanno pertanto rientrare i tramiti storici dela cultura greca in Italia: il regno di Sicilia e il ducato delle Venezie, nel contesto internazionale dei rapporti con l'oriente scismatico greco e con l'oriente turco e tartaro, cioè in un programma di unità religiosa cristiana che mira ad unificare le chiese cristiane greca e orientali (nestoriana e giacobita), in funzione del programma missionario di conversione degli islamici e in funzione dell'ideale di conversione dei Tartari (44). Nel corso del XIII secolo la cultura occidentale, sotto l'impulso del papato e degli ordini mendicanti, supera la prospettiva consueta all'alto Medioevo fino al XII secolo dei traduttori storicamente attivi nell'area mediterranea, cioè nell' Italia Meridionale grecanica, nel ducato delle Venezie e in Spagna, in vista di una assunzione sistematica e riflessa di capacità grammaticali e linguistiche, per una dialettica diretta, atta ad instaurare la supremazia della cultura occidentale sulla alta cultura ebraica, greca ed araba.

La fondazione dell'Impero Latino di Costantinopoli (1204-1261 ma perdurante in Morea fino al XIV secolo e nelle isole greche e a Creta fino al XVIII secolo) indusse papa Innocenzo III, su cui pesa l'episodio della diversione della IV Crociata e della conquista crociata di Costantinopoli, ad esortare nel 1205 i professori e gli studenti dello studio di Parigi ad accogliere l'invito dell'imperatore latino di Costantinopoli Baldovino di Fiandra (45) a recarsi nella capitale orientale a fondare una università latina. Nel 1248 papa Innocenzo IV (Sinibaldo Fieschi, parente del cronista Salimbene de Adam) dispose che sui fondi di monasteri francesi alcuni giovani latini, nati in Oriente con conoscenza "di madre lingua" dell'arabo e delle altre lingue orientali, studiassero teologia a Parig, per poi tornare in missione in partibus ultramarinis. Questo dispositivo, che suscitò le proteste dei monasteri obbligati a pagare, durò per oltre quarant'anni. In realtà l'ordine dei Domenicani aveva già riconosciuto la relazione fra intenti missionari e studio delle lingue orientali. Umberto di Romans, generale dell'ordine domenicano nel 1254-1263 aveva composto, in vista del Concilio di Lione del 1274, l'Opus tripertitum, la cui secunda pars è il de schismate Graecorum, in cui sostiene la necessità della conoscenza soprattutto del greco, anche per tradurre in greco i maestri latini ignoti ad Oriente (46). Il Concilio di Vienne nel 1312, con disposizione ribadita nel concilio di Basilea nel 1434, fissò il "canone delle lingue" da costituire nelle due sedi della curia romana e nei quattro più importanti studia generalia dell'Occidente: due cattedre di ebraico, greco (Add. ACD) (47), arabo e caldeo (siriaco) a Parigi, Oxford, Bologna e Salamanca. I quaranta docenti dovevano anche tradurre in latino, oltre ad insegnare. I docenti ricevevano lo stipendio dalla curia romana, a Parigi dal re di Francia, a Oxford dai monasteri e dalle chiese di Inghilterra, Scozia, Irlanda e Galles, a Bologna dai monasteri e chiese italiani, a Salamanca da quelli spagnoli (48).

Il Concilio di Vienne aveva recepito l'appassionata opera di promozione dello studio delle lingue orientali di Raimondo Lullo (1232-1316), il doctor illuminatus, che, fra la riconquista bizantina di Costantinopoli nel 1264 e la caduta di San Giovanni d'Acri nel 1291, aveva fondato il Collegio Miramar a Majorca (1276-1279), dove tredici frati minori studiavano l'arabo, per la azione missionaria nel mondo musulmano, che avrebbe dovuto controbilanciare in Tunisia e Marocco la perdita di controllo dell'oriente mediterraneo. Raimondo Lullo esortava il papa ad una crociata di predicazione della fede. Nel suo utopistico romanzo Blanquerna (49), composto a Montpellier fra il 1283 e il 1286 (50), Raimondo Lullo immagina un monastero in cui cinquanta Tartari risiedono assieme a venti monaci per apprendere la lingua e da cui trenta Tartari convertiti partiranno con cinque religiosi per convertire il gran khan, effettivo centro etico-politico dei khan discendenti da Gengiskhan: immaginazione fondata sulle missioni mongoliche di fra Giovanni da Pian del Carpine (1246), di fra Guglielmo di Rubruck (1253), sul tentativo di Lorenzo del Portogallo, sulla missione del domenicano Ascelino di Cremona e di Andrea di Longjumeau e sul progetto diplomatico dei gengiskanidi Il-khan di Persia (51), che fra il 1264 e il 1307 sembrano accarezzare insieme ai papi una alleanza fra Tartari e Cristiani contro i Mamelucchi d'Egitto, - progetto non utopistico, come avrà a dimostrare la devastazione del sultanato turco di Anatolia ad opera di Timur-Lenk nel 1402, che ritardò di un mezzo secolo la caduta di Costantinopoli in mano turca -: ma intanto il khanato tartaro a nord del Mar Nero e i Mongoli dell'Orda d'Oro, che tenevano sotto dominazione i principati russi, non rallentavano le loro aggressioni contro la Polonia e la Ungheria.

Petrarca e Boccaccio, estranei a queste preoccupazioni missionarie, furono i promotori del reinserimento di Omero e di Euripide nella cultura letteraria fiorentina del XIV secolo, attraverso l’insegnamento del monaco italo-greco Leonzio Pilato. Il calabrese, che all’elegante Petrarca piaceva poco, perché, da pio monaco greco, soleva astenersi dalla cura del corpo e dell’abito, reintrodusse la lettura di Omero e di Euripide in Orsanmichele a Firenze, lasciandoci anche la traduzione interlineare in latino del codice greco di Omero, che il Sigero aveva donato al Petrarca (52).

L'Italia meridionale era divenuta un centro di popolamento grecofono, probabilmente in coincidenza della invasione araba dell'Egitto e dell'Africa settentrionale, cioè nella seconda metà del VII secolo: infatti la attribuzione delle diocesi dell'Italia meridionale e dell'Illirico al patriarcato di Costantinopoli ad opera di Leone III attorno al 719 - causa di insanabile attrito fra impero bizantino e papato - si limita a sancire in via di diritto canonico la situazione di fatto del popolamento grecofono dell'Italia meridionale, una realtà la cui cancellazione attraverso una politica di latinizzazione ecclesiastica verrà avviata dal Regno normanno di Sicilia, senza peraltro impedire alla Calabria di fornire alla cultura bizantina personalità come quella di Giovanni Italo, successore di Psello alla Università di Costantinopoli come hypatos ton philosophon nell'XI secolo, e di Barlaam di Seminara, poi vescovo di Gerace, maestro di Leonzio Pilato nel XIV secolo e promotore della contesa esicastica a Costantinopoli. L’Italia meridionale grecanica dal VII al XV secolo fu uno dei poli del tardo-ellenismo e costituì il laboratorio in cui furono trascritti gran parte dei codici greci delle biblioteche d’Italia e d’Europa.

L’Italia meridionale fu una regione non periferica, di approdo, della cultura bizantina, ma un centro attivo in campo letterario e in campo filosofico, bastino fra tutte le personalità di Giovanni Italo nel XII secolo e di Barlaam Calabro nel XIV secolo attivi a Costantinopoli e il gruppo dei poeti italo-greci di terra d’Otranto. Tomaso d’Aquino utilizzò la traduzione di Aristotele commissionata all’arcivescovo occidentale di Corinto, Guglielmo di Moerbeke, che ha lasciato il suo nome ad un villaggio del Peloponneso, Merbeka, impreziosito da una splendisa chiesa bizantina del XIII secolo, con largo uso di materiali di reimpiego di età classica (53).

Senza il ritorno del greco nella cultura occidentale, merito congiunto degli ordini mendicanti e del papato da una parte, degli umanisti dall’altra, non avremmo avuto quel Rinascimento, fondato sui testi in greco oltre che in latino, stagione unanimemente celebrata dalla cultura europea come struttura fondante della mentalità del ceto dirigente: un programma formativo durato circa cinquecento anni, che oggi peraltro assiste al declino delle lingue classiche come lingue di alta cultura nel mondo occidentale, in un periodo di rivolgimenti che investono le stesse lingue nazionali europee. Nicola Acciaiuoli, gran siniscalco del Regno di Napoli angioino, nel 1359 (54) destinò le rendite dei suoi feudi di Morea per la costruzione della Certosa del Galluzzo, mausoleo degli Acciaiuoli, e per finanziare uno studio, con tre facultates, tre magistri stipendiati e cinquanta allievi, mantenuti su uno speciale lascito: legava inoltre alla Certosa la sua biblioteca sacra e profana, consentendo ai dotti fiorentini di accedere alla sua collezione di codici greci. Senza il viaggio del 1338-1341 in Grecia dell’Acciaioli, - messo in burletta, ma solo venti anni dopo, dal Boccaccio nel 1363 -, recatosi ad ispezionare i suoi feudi e i domini dei re di Napoli, non vi sarebbe stata quella raccolta di codici greci che portò il Boccaccio stesso, Johannes tranquillitatum, come lo scherniva di rimando l’Acciauoli, già suo mecenate a Napoli, a venir a contatto con il materiale epico del Digenis Acritas, che ebbe ad ispirargli il suo Arcita (55).

Il lascito più importante ancor oggi vivo del mondo bizantino è la ortodossia, con il suo policentrismo ecclesiastico: questa irriducibilità ad una unità gerarchica delle chiese ortodosse, nel senso canonico della chiesa cattolica, consente oggi di misurare l’abisso di diffidenza e incomprensione nei confronti del Papato, ereditato non tanto dallo scisma del 1054, quanto dalla demolizione dell’impero orientale e della chiesa orientale nel 1204, ad opera della IV Crociata, dalle pressioni unionistiche a partire dal Concilio di Lione del 1274, cui si piegava lo stesso imperatore Michele VIII Paleologo (1258-1282): incalzato dai preparativi diplomatici di invasione dell'impero orientale, orchestrata fra Veneziani e Angioni di Napoli, dal trattato di Viterbo nel 1267 al trattato di Orvieto nel 1281, si era piegato al riconoscimento della supremazia papale. Dal Concilio unionista di Lione del 1274 (56), fino al a Concilio di Ferrara-Firenze 1438-1439, si barattava l’unione della chiesa orientale con una crociata europea contro i Turchi, che ebbe poi a risolversi in un fallimento epocale.

La IV Crociata aveva demolito il ruolo internazionale dell’Impero romano d’Oriente, l’Impero Bizantino, anche se la intenzione era di far convergere le forze, probabilmente sopravvalutate, dell’Impero bizantino nell’idea e nella prassi di Crociata e nella lotta antiturca: lo sbriciolò in una galassia di staterelli regionali, sul tipo delle signorie italiane del XIV e XV secolo. L’Occidente ottenne due risultati: l’assunzione delle spese militari per il contenimento del sultanato ottomano e il potenziamento economico e culturale di Venezia e di Genova a spese dell’Oriente bizantino. Il cardinal Bessarione di Trebisonda poteva definire Venetia quasi alterum Byzantium e anzi nel 1472 legava alla Serenissima la sua collezione di codici greci nel numero di milleventiquattro “un tesoro inestimabile per quei tempi” (57), che arrivò effettivamente a Venezia nel 1473 e che è a fondamento della raccolta di codici greci della Biblioteca di San Marco. Il Bessarione non aveva coronato il suo disegno più ambizioso, di diventare papa per conseguire il potere di unire le due chiese e di spingere le potenze cristiane di Occidente e di Oriente in una crociata antiturca, al fine di ristabilire l’impero bizantino. Era riuscito invece a legare i sovrani russi, in quel momento la famiglia dei Kalita, alla autocrazia bizantina attraverso il matrimoni dinastico di Zoì Paleologhini con Ivan III Kalita.

L’Italia Meridionale grecanica, con i suoi poeti italo-greci, i suoi santi italo-greci, come san Nilo di Rossano, fondatore della badia di Grottaferrata, di cui si celebra quest’anno il millenario, è una parte della storia d’Italia che le convenienze di immagine dell’unità d’Italia ebbero ad obliterare dalla memoria della storia nazionale: una storia d’Italia monca, senza Italia Meridionale grecanica, senza gli imperi coloniali nel levante bizantino di Venezia e di Genova, che hanno lasciato fra l’altro alla Italia il deposito di due dei più importanti archivi storici del Levante e del Mar Nero, cioè la memoria storica non solo del popolo neogreco ma anche di gran parte dei popoli russi.

Nelle regioni del Crescente Fertile (Siria, Palestina ed Egitto) e nelle regioni italiane da cui progressivamente il dominio bizantino si ritrasse dal VII all’XI secolo, la dominazione bizantina lasciò dietro di sé solide società regionali in grado di condizionare i regimi anche stranieri ad esse sovrapposti.

Italia Meridionale, Esarcato, Venezia, Le Italie bizantine (58) mantennero e in qualche caso svilupparono articolazioni di ceti dirigenti, fortemente connotate in senso bizantino e, nel caso di Venezia e delle città marinare italiane, destinate a fungere da tramite di intermediazione fra Italia e Levante. Bisanzio fu fonte di sviluppo e di rapporti diretti che perdurarono fino alla caduta della Serenissima. I tetrarchi di Venezia potrebbero fungere da emblema figurativo di questa intermediazione. E' probabile che i Veneziani del 1204, il cui podestà di Costantinopoli è divenuto capo del feudo veneziano nell'impero latino con il titolo di dominus quarte partis et dimidie totius imperii Romanie, titolo che successivamente il doge stesso assumerà, - quando il rischio di dipendenza feudale dall'imperatore latino di Costantinopoli si farà sempre più teorico -, volessero in realtà dichiarare, nel riuso emblematico dei tetrarchi sul limite della porta del palazzo ducale, la assunzione di funzione imperiale di Venezia. Ma quel piede di tetrarca lasciato a Costantinopoli, dove è stato ritrovato nel 1966, evidenzia materialmente il legame fra area altoadriatica e impero bizantino, il tramite geopolitico che conduce sull'Adriatico gli esponenti del ceto dirigente militare dell'impero dal VI al XII secolo (59).

Il ducato di Napoli fino al 1138 ci trasmette la stessa tipologia del ceto dirigente venetico e dei suoi rapporti con Bisanzio. La situazione è analoga nel ducato di Sardegna e nell'arcontato e poi tema di Dalmazia.

L’Archivio di Stato di Venezia, come l’Archivio di stato di Genova, custodiscono gli archivi storici del Levante, dalle isole greche a Creta, alla Crimea e al Mar Nero, sono cioè gli archivi della Grecia, della Russia e dell’Anatolia. Venezia ospitò anzi le prime tipografie in neogreco e in armeno, quando erano proibite nell’impero ottomano, Venezia, Genova, Napoli, Trieste ospitano anzi colonie di greci ancor presenti mentre Roma con il suo Collegio Greco contribuì per cinquecento anni alla formazione del ceto dirigente neogreco, così come la Università di Padova.

Fin qui abbiamo toccato la storia della tradizione. Se in Bisanzio vedessimo solo “la postina dell’antichità”, come dichiarò nel 2003 Vera von Falkenhausen ad un tribunale italiano, spinta dalla disperazione di riuscire a farsi comprendere dal giudice; se la tradizione di una grande eredità fosse l’unica funzione civile di Bisanzio, potremmo, tutto sommato, lasciarla alle cure degli specialisti e, per quanto riguarda tutti gli altri cittadini europei, potremmo lasciarli alla loro navigazione, Sailing to Byzantium, fra le nebbie dorate dell’esotismo di consumo turistico.

Bisanzio offre in realtà al mondo di oggi e di domani un patrimonio spirituale vivo nelle sue chiese ortodosse e nel suo monachesimo; offre un patrimonio letterario che nell’epigramma, nella poesia erotica, nell’epica, nel romanzo, nell’autobiografia, nei trattati teologici e spirituali, nella satira sociale – di cui, per inciso, ebbero ad alimentarsi la novellistica e la grafica russa dell’800 e del ‘900 (60) – ha raggiunto vette di introspezione psicologica, di capacità espressiva, di ricchezza contenutistica, di analisi e contestazione della organizzazione sociale incomparabili con gli analoghi risultati delle contemporanee letterature europee.

Amputare il patrimonio culturale europeo di questa ricca e suggestiva regione, presumendo che i bizantini fossero solo tardi e stanchi retori, compositori di vite di santi stereotipate, sarebbe un indebito impoverimento della formazione culturale dell’europeo a venire, che richiede molteplici chiavi interpretative, diverse dalla sola cultura occidentale. Sono convinto che cinquecento anni di studi, di edizioni di testi e di ricerche bizantinistiche possano comunque assicurare il lascito di questo tesoro a generazioni meno rinchiuse nelle loro formazioni localistiche. Bisanzio nondimeno è una delle grandi occasioni interpretative del mondo di oggi, al di fuori dei paradigmi occidentalistici: una sfida che l’Europa dovrà affrontare se vorrà misurarsi con il mondo attuale, acquistando la coscienza di essere molto più estesa ad est e da molto più tempo di quanto non supponga.

Mi sia consentito di concludere con un aneddoto, in omaggio al luogo comune della Bisanzio pittoresca. Nella chiesa patriarcale del Fanar a Istanbul, si trova, nella piccola navata di destra, una capsella di argento dorato: contiene le reliquie di Teofano, la prima moglie di un imperatore del IX secolo, celebre per la sua dottrina e i trattati che ci ha lasciato, Leone VI, il Sapiente appunto. L’aristocratica dama della famiglia dei Martinakioi, si era ritirata in monastero delusa dalla indifferenza del marito, tutto preso dalla passione per Zoì Zautsina. La monacazione di Teofano, secondo il diritto giustinianeo, scioglieva il matrimonio. La pia dama morì comunque nell’897 e per espressa volontà del marito venne venerata come santa dalla chiesa ortodossa. Intanto Leone VI poté impalmare la bella cortigiana, figlia del potente ministro Stiliano Zautsès. Zoì divenne pertanto imperatrice, donò al marito la porfirogenita Anna, ma non l’atteso erede maschio. Giunta al culmine del suo successo mondano, nell’898 Zoì assistette in diciotto mesi alla rovina dell’edificio da lei pazientemente costruito: suo padre conobbe l’estromissione dal potere, la piccola porfirogenita morì, Zoì stessa si ammalò e morì, mentre Leone VI si consolava con altri amori, giungendo a totalizzare, contro i canoni ecclesiastici della chiesa ortodossa, ma con dispensa del papa di Roma, quattro matrimoni successivi, fino alla nascita del sospirato erede: lo scandalo della tetragamia, che portò alla scomunica di Leone VI da parte del patriarca di Costantinopoli e alla conseguente rimozione di quest’ultimo - a Bisanzio non si sfidava impunemente il potere politico.

Zoì Zautsina, già aristocratica fortunata, già etera amata al punto da far spedire in monastero la moglie dell’imperatore, imperatrice ella stessa, dette disposizione si essere sepolta anonimamente sotto questo epitafio “Infelice figlia di Babilonia” (61). Non riesco ad immaginare una sua contemporanea imperatrice occidentale in grado di esprimere il proprio senso di colpa, l’autogiustificazione per essere stata abbacinata dalle lusinghe della dolce vita cortese, soprattutto la sua delusione esistenziale, con tale icastica compendiarietà. Se la cultura che dà questi frutti espressivi sia sterile e meritevole dell’oblio in cui la teniamo, lascio al loro giudizio.


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