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Il nome della rosa


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« Ma maestro, » azzardai dolente, « voi ora parlate così perché siete ferito nel profondo dell’animo. Però c’è una verità, quella che avete scoperto stasera, quella cui siete arrivato interpretando le tracce che avete letto nei giorni scorsi. Jorge ha vinto, ma voi avete vinto Jorge perché avete messo a nudo la sua trama... »

« Non v’era una trama, » disse Guglielmo, « e io l’ho scoperta per sbaglio. »

L’asserto era autocontraddittorio, e non capii se veramente Guglielmo voleva che lo fosse. « Ma era vero che le orme sulla neve rinviavano a Brunello, » dissi, « era vero che Adelmo si era suicidato, era vero che Venanzio non era annegato nell’orcio, era vero che il labirinto era organizzato così come lo avete immaginato, era vero che si entrava nel finis Africae toccando la parola ’quatuor’, era vero che il libro misterioso era di Aristotele... Potrei continuare a elencare tutte le cose vere che voi avete scoperto giovandovi della vostra scienza... »

« Non ho mai dubitato della verità dei segni, Adso, sono la sola cosa di cui l’uomo dispone per orientarsi nel mondo. Ciò che io non ho capito è stata la relazione tra i segni. Sono arrivato a Jorge attraverso uno schema apocalittico che sembrava reggere tutti i delitti, eppure era casuale. Sono arrivato a Jorge cercando un autore di tutti i crimini e abbiamo scoperto che ogni crimine aveva in fondo un autore diverso, oppure nessuno. Sono arrivato a Jorge inseguendo il disegno di una mente perversa e raziocinante, e non v’era alcun disegno, ovvero Jorge stesso era stato sopraffatto dal proprio disegno iniziale e dopo era iniziata una catena di cause, e di concause, e di cause in contraddizione tra loro, che avevano proceduto per conto proprio, creando relazioni che non dipendevano da alcun disegno. Dove sta tutta la mia saggezza? Mi sono comportato da ostinato, inseguendo una parvenza di ordine, quando dovevo sapere bene che non vi è un ordine nell’universo. »

« Ma immaginando degli ordini errati avete pur trovato qualcosa... »

« Hai detto una cosa molto bella, Adso, ti ringrazio. L’ordine che la nostra mente immagina è come una rete, o una scala, che si costruisce per raggiungere qualcosa. Ma dopo si deve gettare la scala, perché si scopre che, se pure serviva, era priva di senso. Er muoz gelichesame die Leiter abewerfen, so Er an ir ufgestigen ist... Si dice così?

« Suona così nella mia lingua. Chi l’ha detto? »

« Un mistico delle tue terre. Lo ha scritto da qualche parte, non ricordo dove. E non è necessario che qualcuno un giorno ritrovi quel manoscritto. Le uniche verità che servono sono strumenti da buttare. »

« Voi non potete rimproverarvi nulla, avete fatto del vostro meglio. »

« E’ il meglio degli uomini, che è poco. E’ difficile accettare l’idea che non vi può essere un ordine nell’universo, perché offenderebbe la libera volontà di Dio e la sua onnipotenza. Così la libertà di Dio è la nostra condanna, o almeno la condanna della nostra superbia. »

Ardii, per la prima e l’ultima volta in vita mia, una conclusione teologica: « Ma come può esistere un essere necessario totalmente intessuto di possibile? Che differenza c’è allora tra Dio e il caos primigenio? Affermare l’assoluta onnipotenza di Dio e la sua assoluta disponibilità rispetto alle sue stesse scelte, non equivale a dimostrare che Dio non esiste? »

Guglielmo mi guardò senza che alcun sentimento trasparisse dai tratti del suo viso, e disse: « Come potrebbe un sapiente continuare a comunicare il suo sapere se rispondesse di sì alla tua domanda? » Non capii il senso delle sue parole: « Intendete dire, » chiesi, « che non ci sarebbe più sapere possibile e comunicabile, se mancasse il criterio stesso della verità, oppure che non potreste più comunicare quello che sapete perché gli altri non ve lo consentirebbero? »

In quel momento una parte dei tetti del dormitorio crollò con immenso fragore soffiando verso l’alto una nuvola di scintille. Una parte delle pecore e delle capre, che erravano per la corte, ci passarono accanto lanciando atroci belati. Dei servi passarono in frotta accanto a noi, gridando, e quasi ci calpestarono.

« C’è troppa confusione qui, » disse Guglielmo. « Non in commotione, non in commotione Dominus. »


ULTIMO FOLIO.


L’abbazia arse per tre giorni e per tre notti e a nulla valsero gli ultimi sforzi. Già nella mattinata del settimo giorno della nostra permanenza in quel luogo, quando ormai i superstiti si avvidero che nessun edificio poteva più essere salvato, quando delle costruzioni più belle diroccarono i muri esterni, e la chiesa, quasi avvolgendosi su di sé, ingoiò la sua torre, a quel punto mancò a ciascuno la volontà di combattere contro il castigo divino. Sempre più stanche furono le corse ai pochi secchi d’acqua rimasti, mentre ancora ardeva quetamente la sala capitolare con la superba casa dell’Abate. Quando il fuoco raggiunse il lato estremo delle varie officine, i servi avevano ormai da tempo salvato quante più suppellettili potevano, e preferirono battere la collina per recuperare almeno parte degli animali, fuggiti oltre la cinta nella confusione della notte.

Vidi qualcuno dei famigli avventurarsi entro quello che rimaneva della chiesa: immaginai che cercassero di penetrare nella cripta del tesoro per arraffare, prima della fuga, qualche oggetto prezioso. Non so se ci siano riusciti, se la cripta non fosse già sprofondata, se i gaglioffi non siano sprofondati nelle viscere della terra nel tentativo di raggiungerla.

Salivano intanto uomini dal villaggio, a prestar soccorso, o a cercar anch’essi di racimolare un qualche bottino. I morti rimasero per lo più tra le rovine ancora roventi. Al terzo giorno, curati i feriti, seppelliti i cadaveri rimasti allo scoperto, i monaci e tutti gli altri raccolsero le loro cose e abbandonarono il pianoro ancora fumante, come un luogo maledetto. Non so dove si siano dispersi.

Guglielmo e io lasciammo quei luoghi, su due cavalcature trovate smarrite nel bosco, e che ormai considerammo res nullius. Puntammo verso oriente. Giunti di nuovo a Bobbio apprendemmo cattive nuove dell’imperatore. Arrivato a Roma era stato incoronato dal popolo. Ritenuta ormai impossibile ogni composizione con Giovanni, aveva eletto un antipapa, Nicola Quinto. Marsilio era stato nominato vicario spirituale di Roma, ma per sua colpa, o per sua debolezza, avvenivano in quella città cose assai tristi a riferirsi. Si torturavano sacerdoti fedeli al papa che non volevano dir messa, un priore degli agostiniani era stato gettato nella fossa dei leoni in Campidoglio. Marsilio e Giovanni da Gianduno avevano dichiarato Giovanni eretico e Ludovico l’aveva fatto condannare a morte. Ma l’imperatore malgovernava, si stava inimicando i signori locali, sottraeva danaro al pubblico erario. Man mano che udivamo queste notizie, ritardavamo la nostra discesa verso Roma, e capii che Guglielmo non voleva trovarsi a essere testimone di eventi che umiliavano le sue speranze.

Giunti che fummo a Pomposa, apprendemmo che Roma si era ribellata a Ludovico, il quale era risalito verso Pisa, mentre nella città papale rientravano trionfalmente i legati di Giovanni.

Nel frattempo Michele da Cesena si era reso conto che la sua presenza ad Avignone non portava ad alcun risultato, anzi temeva per la sua vita, ed era fuggito ricongiungendosi con Ludovico a Pisa. L’imperatore aveva frattanto perso anche l’appoggio di Castruccio, signore di Lucca e Pistoia, che era morto.

In breve, prevedendo gli eventi, e sapendo che il Bavaro si sarebbe portato a Monaco, invertimmo il cammino e decidemmo di precederlo colà, anche perché Guglielmo avvertiva che l’Italia stava diventando insicura per lui. Nei mesi e negli anni che seguirono, Ludovico vide l’alleanza dei signori ghibellini disfarsi, l’anno dopo Nicola antipapa si sarebbe reso a Giovanni, presentandoglisi con una corda al collo.

Come giungemmo a Monaco di Baviera io dovetti separarmi, tra molte lacrime, dal mio buon maestro. La sua sorte era incerta, i miei parenti preferirono che tornassi a Melk. Dalla tragica notte in cui Guglielmo mi aveva palesato il suo sconforto davanti alle rovine dell’abbazia, come per tacito accordo, non avevamo più parlato di quella vicenda. Né più vi accennammo nel corso del nostro doloroso commiato.

Il mio maestro mi diede molti buoni consigli per i miei studi futuri, e mi regalò le lenti che gli aveva fabbricato Nicola, lui avendo ormai di nuovo le sue. Ero ancora giovane, mi disse, ma un giorno mi sarebbero tornate utili (e invero le tengo sul naso, ora che scrivo queste righe). Poi mi abbracciò forte, con la tenerezza di un padre, e mi congedò.

Non lo vidi più. Seppi molto più tardi che era morto durante la grande pestilenza che infierì per l’Europa verso la metà di questo secolo. Prego sempre che Dio abbia accolto la sua anima e gli abbia perdonato i molti atti d’orgoglio che la sua fierezza intellettuale gli aveva fatto commettere.

Anni dopo, già uomo assai maturo, ebbi occasione di compiere un viaggio in Italia su mandato del mio Abate. Non resistetti alla tentazione e al ritorno feci una lunga deviazione per rivisitare quello che era rimasto dell’abbazia.

I due villaggi alle falde del monte si erano spopolati, le terre intorno erano incolte. Salii sino al pianoro e uno spettacolo di desolazione e di morte si presentò ai miei occhi inumiditi di pianto.

Delle grandi e magnifiche costruzioni che adornavano quel luogo, erano rimaste sparse rovine, come era già accaduto dei monumenti degli antichi pagani nella città di Roma. L’edera aveva ricoperto i brandelli dei muri, le colonne, i radi architravi rimasti intatti. Erbe selvatiche invadevano il terreno per ogni dove, e non si capiva neppure dove fossero stati un tempo l’orto e il giardino. Solo il luogo del cimitero era riconoscibile, per alcune tombe che ancora affioravano dal terreno. Unico cenno di vita, alti uccelli da preda cacciavano lucertole e serpenti che, come basilischi, si acquattavano tra le pietre o guizzavano sui muri. Del portale della chiesa erano rimaste poche vestigia corrose di muffa. Il timpano sopravviveva per metà e vi scorsi ancora, dilatato dalle intemperie e languido di luridi licheni, l’occhio sinistro del Cristo in trono, e qualcosa del volto del leone.

L’Edificio, tranne il muro meridionale, diroccato, sembrava ancora stare in piedi e sfidare il corso del tempo. I due torrioni esterni, che davano sullo strapiombo, parevano quasi intatti, ma dappertutto le finestre erano occhiaie vuote le cui lacrime vischiose eran rampicanti putridi. Nell’interno l’opera dell’arte, distrutta, si confondeva con quella della natura e per vasti tratti dalla cucina l’occhio correva al cielo aperto, attraverso lo squarcio dei piani superiori e del tetto, diruti abbasso come angeli caduti. Tutto ciò che non era verde di muschio era ancora nero dal fumo di tanti decenni prima.

Rovistando tra le macerie trovavo a tratti brandelli di pergamena, precipitati dallo scriptorium e dalla biblioteca e sopravvissuti come tesori sepolti nella terra; e incominciai a raccoglierli, come se dovessi ricomporre i fogli di un libro. Poi mi avvidi che da uno dei torrioni saliva ancora, pericolante e quasi intatta, una scala a chiocciola allo scriptorium, e di lì, inerpicandosi per un pendio di macerie, si poteva arrivare all’altezza della biblioteca: la quale era però soltanto una sorta di galleria rasente le mura esterne, che dava in ogni punto sul vuoto.

Lungo un tratto di muro trovai un armadio, ancora miracolosamente ritto lungo la parete, non so come sopravvissuto al fuoco, marcio d’acqua e di insetti. Dentro vi stava ancora qualche foglio. Altri lacerti trovai frugando le rovine da basso. Povera messe fu la mia, ma passai una intera giornata a raccoglierla, come se da quelle disiecta membra della biblioteca dovesse pervenirmi un messaggio. Alcuni brandelli di pergamena erano scoloriti, altri lasciavano intravvedere l’ombra di una immagine, a tratti il fantasma di una o più parole. Talora trovai fogli su cui erano leggibili intere frasi, più facilmente rilegature ancora intatte, difese da quelle che erano state borchie di metallo... Larve di libri, apparentemente ancora sane di fuori ma divorate all’interno: eppure qualche volta si era salvato un mezzo foglio, traspariva un incipit, un titolo...

Raccolsi ogni reliquia che potei trovare, e ne empii due sacche da viaggio, abbandonando cose che mi erano utili pur di salvare quel misero tesoro.

Lungo il viaggio di ritorno e poi a Melk passai molte e molte ore a tentar di decifrare quelle vestigia. Spesso riconobbi da una parola o da una immagine residua di quale opera si trattasse. Quando ritrovai nel tempo altre copie di quei libri, li studiai con amore, come se il fato mi avesse lasciato quel legato, come se l’averne individuato la copia distrutta fosse stato un segno chiaro del cielo che diceva tolle et lege. Alla fine della mia paziente ricomposizione mi si disegnò come una biblioteca minore, segno di quella maggiore scomparsa, una biblioteca fatta di brani, citazioni, periodi incompiuti, moncherini di libri.


Più rileggo questo elenco più mi convinco che esso è effetto del caso e non contiene alcun messaggio. Ma queste pagine incomplete mi hanno accompagnato per tutta la vita che da allora mi è restata da vivere, le ho spesso consultate come un oracolo, e ho quasi l’impressione che quanto ho scritto su questi fogli, che tu ora leggerai, ignoto lettore, altro non sia che un centone, un carme a figura, un immenso acrostico che non dice e non ripete altro che ciò che quei frammenti mi hanno suggerito, né so più se io abbia sinora parlato di essi o essi abbiano parlato per bocca mia. Ma quale delle due venture si sia data, più recito a me stesso la storia che ne è sortita, meno riesco a capire se in essa vi sia una trama che vada al di là della sequenza naturale degli eventi e dei tempi che li connettono. Ed è cosa dura per questo vecchio monaco, alle soglie della morte, non sapere se la lettera che ha scritto contenga un qualche senso nascosto, e se più d’uno, e molti, o nessuno.

Ma questa mia inabilità a vedere è forse effetto dell’ombra che la grande tenebra che si avvicina sta gettando sul mondo incanutito.

Est ubi gloria nunc Babylonia? Dove sono le nevi di un tempo? La terra danza la danza di Macabré, mi sembra a tratti che il Danubio sia percorso da battelli carichi di folli che vanno verso un luogo oscuro.

Non mi rimane che tacere. O quam salubre, quam iucundum et suave est sedere in solitudine et tacere et loqui cum Deo! Tra poco mi ricongiungerò col mio principio, e non credo più che sia il Dio di gloria di cui mi avevano parlato gli abati del mio ordine, o di gioia, come credevano i minoriti di allora, forse neppure di pietà. Gott ist ein lautes Nichts, ihn rührt kein Nun noch Hier... Mi inoltrerò presto in questo deserto amplissimo, perfettamente piano e incommensurabile, in cui il cuore veramente pio soccombe beato. Sprofonderò nella tenebra divina, in un silenzio muto e in una unione ineffabile, e in questo sprofondarsi andrà perduta ogni eguaglianza e ogni disuguaglianza, e in quell’abisso il mio spirito perderà se stesso, e non conoscerà né l’uguale né il disuguale, né altro: e saranno dimenticate tutte le differenze, sarò nel fondamento semplice, nel deserto silenzioso dove mai si vide diversità, nell’intimo dove nessuno si trova nel proprio luogo. Cadrò nella divinità silenziosa e disabitata dove non c’è opera né immagine.

Fa freddo nello scriptorium, il pollice mi duole. Lascio questa scrittura, non so per chi, non so più intorno a che cosa: stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus.


РАЗУМЕЕТСЯ, РУКОПИСЬ
16 августа 1968 года я приобрел книгу под названием «Записки отца Адсона из Мелька, переведенные на французский язык по изданию отца Ж. Мабийоиа» (Париж, типография Ласурсского аббатства, 1842). [1] Автором перевода значился некий аббат Балле. В довольно бедном историческом комментарии сообщалось, что переводчик дословно следовал изданию рукописи XIV в., разысканной в библиотеке Мелькского монастыря знаменитым ученым семнадцатого столетия, столь много сделавшим для историографии ордена бенедиктинцев. Так найденный в Праге (выходит, уже в третий раз) раритет спас меня от тоски в чужой стране, где я дожидался той, кто была мне дорога. Через несколько дней бедный город был занят советскими войсками. Мне удалось в Линце пересечь австрийскую границу; оттуда я легко добрался до Вены, где, наконец, встретился с той женщиной, и вместе мы отправились в путешествие вверх по течению Дуная.

В состоянии нервного возбуждения я упивался ужасающей повестью Адсона и был до того захвачен, что сам не заметил, как начал переводить, заполняя замечательные большие тетради фирмы «Жозеф Жибер», в которых так приятно писать, если, конечно, перо достаточно мягкое. Тем временем мы оказались в окрестностях Мелька, где до сих пор на утесе над излучиной реки высится многократно перестраивавшийся Stilt. [2] Как читатель, вероятно, уже понял, никаких следов рукописи отца Адсона в монастырской библиотеке не обнаружилось.

Незадолго до Зальцбурга одной проклятой ночью в маленьком отеле на берегах Мондзее разрушился наш союз, прервалось путешествие, и моя спутница исчезла; с нею улетучилась и книга Балле, в чем безусловно не было злого умысла, а было лишь проявление сумасшедшей непредсказуемости нашего разрыва. Все, с чем я остался тогда, — стопка исписанных тетрадей и абсолютная пустота в душе.

Через несколько месяцев, в Париже, я вернулся к разысканиям. В моих выписках из французского оригинала, среди прочего, сохранилась и ссылка на первоисточник, удивительно точная и подробная:

Vetera analecta, sive collectio veterum aliquot operum & opusculorum omnis generis, carminum, epistolarum, diplomaton, epitaphiorum, &, cum itinere germanico, adnotationibus aliquot disquisitionibus R. P. D. Joannis Mabillon, Presbiteri ac Monachi Ord. Sancti Benedicti e Congregatione S. Mauri — Nova Editio cui accessere Mabilonii vita & aliquot opuscula, scilicet Dissertatio de Pane Eucharistico, Azimo et Fermentatio, ad Eminentiss. Cardinalem Bona. Subjungitur opusculum Eldefonsi Hispaniensis Episcopi de eodem argumento Et Eusebii Romani ad Theophilum Gallum epistola, De cultu sanctorum ignotorum, Parisiis, apud Levesque, ad Pontem S. Michaelis, MDCCXXI, cum privilegio Regis. [3]

Vetera Analecta я тут же заказал в библиотеке Сент-Женевьев, но, к моему величайшему удивлению, на титульном листе открылось по меньшей мере два расхождения с описанием Балле. Во-первых, иначе выглядело имя издателя: здесь — Montalant, ad Ripam P. P. Augustianorum (prope Pontem S. Michaelis). Во-вторых, дата издания здесь была проставлена на два года более поздняя. Излишне говорить, что в сборнике не оказалось ни записок Адсона Мелькского, ни каких-либо публикаций, где бы фигурировало имя Адсон. И вообще это издание, как нетрудно увидеть, состоит из материалов среднего или совсем небольшого объема, в то время как текст Балле занимает несколько сотен страниц. Я обращался к самым знаменитым медиевистам, в частности к Этьену Жильсону. чудесному, незабываемому ученому. Но все они утверждали, что единственное существующее издание Vetera Analecta — это то, которым я пользовался в Сент-Женевьев. Посетив Ласурсское аббатство, располагающееся в районе Пасси, и побеседовав со своим другом отцом Арне Лаанештедтом, я стопроцентно уверился, что никакой аббат Балле никогда не публиковал книг в типографии Ласурсского аббатства; похоже, что и типографии при Ласурсском аббатстве никогда не было. Неаккуратность французских ученых в отношении библиографических сносок общеизвестна. Но этот случай превосходил самые дурные ожидания. Становилось ясно, что в руках у меня побывала чистая фальшивка. Вдобавок и книга Балле теперь оказывалась вне досягаемости (в общем, я не видел способа получить ее обратно). Я располагал только собственными записями, внушавшими довольно мало доверия.

Бывают моменты крайне сильной физической утомленности, сочетающейся с двигательным перевозбуждением, когда нам являются призраки людей из прошлого («en me retracant ces details, j'en suis a me demander s'ils sont reels, ou bien si je les al reves»). Позднее я узнал из превосходной работы аббата Бюкуа, что именно так являются призраки ненаписанных книг.

Если бы не новая случайность, я, несомненно, так и не сошел бы с мертвой точки. Но, слава богу, как-то в 1970-м году в Буэнос-Айресе, роясь на прилавке мелкого букиниста на улице Коррьентес, недалеко от самого знаменитого из всех Патио дель Танго, расположенных на этой необыкновенной улице, я наткнулся на испанский перевод брошюры Мило Темешвара «Об использовании зеркал в шахматах», на которую уже имел случай ссылаться (правда, из вторых рук) в своей книге «Апокалиптики и интегрированные», разбирая более позднюю книгу того же автора — «Продавцы Апокалипсиса». В данном случае это был перевод с утерянного оригинала, написанного по-грузински (первое издание — Тбилиси, 1934). И в этой брошюре я совершенно неожиданно обнаружил обширные выдержки из рукописи Адсона Мелькского, хотя должен отметить, что в качестве источника Темешвар указывал не аббата Балле и не отца Мабийона, а отца Атанасия Кирхера (какую именно его книгу — не уточнялось). Один ученый (не вижу необходимости приводить здесь его имя) давал мне голову на отсечение, что ни в каком своем труде (а содержание всех трудов Кирхера он цитировал на память) великий иезуит ни единого разу не упоминает Адсона Мелькского. Однако брошюру Темешвара я сам держал в руках и сам видел, что цитируемые там эпизоды текстуально совпадают с эпизодами повести, переведенной Балле (в частности, после сличения двух описаний лабиринта никаких сомнений остаться не может). Что бы ни писал впоследствии Беньямино Плачидо, [1] аббат Балле существовал на свете — как, соответственно, и Адсон из Мелька.

Я задумался тогда, до чего же судьба записок Адсона созвучна характеру повествования; как много здесь непроясненных тайн, начиная от авторства и кончая местом действия; ведь Адсон с удивительным упрямством не указывает, где именно находилось описанное им аббатство, а разнородные рассыпанные в тексте приметы позволяют предполагать любую точку обширной области от Помпозы до Конка; вероятнее всего, это одна из возвышенностей Апеннинского хребта на границах Пьемонта, Лигурии и Франции (то есть где-то между Леричи и Турбией). Год и месяц, когда имели место описанные события, названы очень точно — конец ноября 1327; а вот дата написания остается неопределенной. Исходя из того, что автор в 1327 году был послушником, а во время, когда пишется книга, он уже близок к окончанию жизни, можно предположить, что работа над рукописью велась в последнее десяти- или двадцатилетие XIV века.

Не так уж много, надо признать, имелось аргументов в пользу опубликования этого моего итальянского перевода с довольно сомнительного французского текста, который в свою очередь должен являть собой переложение с латинского издания семнадцатого века, якобы воспроизводящего рукопись, созданную немецким монахом в конце четырнадцатого.

Как следовало решить вопрос стиля? Первоначальному соблазну стилизовать перевод под итальянский язык эпохи я не поддался: во-первых, Адсон писал не по-староитальянски, а по-латыни; во-вторых, чувствуется, что вся усвоенная им культура (то есть культура его аббатства) еще более архаична. Это складывавшаяся многими столетиями сумма знаний и стилистических навыков, воспринятых позднесредневековой латинской традицией. Адсон мыслит и выражается как монах, то есть в отрыве от развивающейся народной словесности, копируя стиль книг, собранных в описанной им библиотеке, опираясь на святоотеческие и схоластические образцы. Поэтому его повесть (не считая, разумеется, исторических реалий XIV века, которые, кстати говоря, Адсон приводит неуверенно и всегда понаслышке) по своему языку и набору цитат могла бы принадлежать и XII и XIII веку.

Кроме того, нет сомнений, что, создавая свой французский в неоготическом вкусе перевод, Балле довольно свободно обошелся с оригиналом — и не только в смысле стиля. К примеру, герои беседуют о траволечении, ссылаясь, по-видимому, на так называемую «Книгу тайн Альберта Великого», текст которой, как известно, на протяжении веков сильно трансформировался. Адсон может цитировать только списки, существовавшие в четырнадцатом столетии, а, между тем, некоторые выражения подозрительно совпадают с формулировками Парацельса или, скажем, с текстом того же Альбертова травника, но в значительно более позднем варианте, — в издании эпохи Тюдоров. [1] С другой стороны, мне удалось выяснить, что в те годы, когда аббат Балле переписывал (так ли?) воспоминания Адсона, в Париже имели хождение изданные в XVIII в. «Большой» и «Малый» Альберы, [2] уже с совершенно искаженным текстом. Однако не исключается ведь возможность наличия в списках, доступных Адсону и другим монахам, вариантов, не вошедших в окончательный корпус памятника, затерявшихся среди глосс, схолий и прочих приложений, но использованных последующими поколениями ученых.

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