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The Tribe Myroslav Slaboshpytskiy


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tarix25.06.2016
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The Tribe Myroslav Slaboshpytskiy
Titolo originale: Plemya. Regia e sceneggiatura: Myroslav Slaboshpytskiy. Fotografia e montaggio: Valentyn Vasyanovych. Scenografia: Vlad Odudenko. Costumi: Alena Gres. Interpreti: Grigoriy Fesenko (Sergei), Yana Novikova, Rosa Babiy, Alexander Dsiadevich, Yaroslav Biletskiy, Ivan Tishko, Alexander Osadchiy, Alexander Sidelnikov, Sasha Rusakov, Denis Gruba, Dania Bykobiy, Lenia Pisanenko, Alexander Panivan, Kirill Koshik, Marina Panivan, Tatiana Radchenko, Ludmila Rudenko. Produzione: Myroslav Slaboshpytskiy, Iya Myslytska per Germata Film Productions. Distribuzione: Officine Ubu. Durata: 132’. Origine: Ucraina/Olanda, 2014.
Sergey, sordomuto, arriva in un collegio per ragazzi affetti dalla stessa problematica. In questo nuovo contesto, si trova subito a lottare per conquistare il proprio spazio all’interno della gerarchia criminale che, fra violenze e prostituzione, regola la vita dell’istituto. Coinvolto in un serie di furti, Sergey si guadagna presto la fiducia dei compagni. Ma l’amore per Anna, una delle ragazze del gruppo, lo porta a infrangere pericolosamente tutte le regole del branco.

L’unico senso possibile del degrado
Andrea Pesoli
L’inusuale capacità di stupire
Il quarantunenne Myroslav Slaboshpytskiy, regista di The Tribe, deve essere stato assalito in questa specifica occasione da un bisogno semplice, quasi primordiale nel modo in cui si è palesato dinanzi al suo autore. Uno stimolo che l’ha ricondotto verso una tipologia di cinema degli albori, ma che al contempo ha generato un nuovo prototipo di spettacolo filmico in grado di compiere ciò che oggi è sempre meno possibile. Ovvero sbalordire, colpire lo spettatore chiuso nel buio della sala e ormai abituato a qualsiasi genere di evento straordinario, con una serie di uppercut letali, decisi a tavolino e sviluppati con violenta freddezza. Un’escalation d’immoralità che, nel bene o nel male, tocca corde profonde, preziose alleate in un’ormai smaliziata umanità capace di abituarsi a tutto, comprese le più efferate tragedie.

Slaboshpytskiy, qui al suo debutto in un lungometraggio, ha scelto di stupire giocando di sottrazione (soprattutto sui sensi), facendo sprofondare il pubblico nel medesimo inferno dei suoi protagonisti. Non solo segnati dalla violenza di un Paese allo sfascio, abbruttito da inumanità adolescenziali inaspettate, ma anche da una forma di handicap tra le più limitanti e incomprensibili per chi non ne è affetto. L’impossibilità di udire e la conseguente necessità di affidarsi all’unico senso possibile, la vista, è la condizione che il cineasta ucraino riserva anche a chi assiste al suo dramma: solo rumori d’ambiente, nessuna parola. Straordinariamente la decisione veicola con tutta la veemenza possibile le angherie subite prima dal giovane Sergei (Grigoriy Fesenko) poi, una volta accettato dal branco, dalle vittime incontrate di volta in volta.

Un racconto ipnotico ed ellittico, una parabola dei nostri giorni più bui, messa in scena con estremo distacco e rigore, inusuali sia per il plot sia per il contesto descritto. Con brutale consapevolezza del mezzo, il regista sceneggia questa triste storia, pur non comprendendo il linguaggio dei propri interpreti. Portando ovunque con sé dei traduttori simultanei, decide di affrontare a viso aperto ciò che di solito non si deve mostrare. In questo senso, si tratta di un film sugli spazi chiusi, luoghi angusti e claustrofobicamente trasandati, ma ancor di più sui corpi e sul contatto tra essi. In quest’opera si alternano così diversi tipi di scontro fra carni umane, talmente scioccanti da richiedere del tempo per essere interiorizzati. L’urto fra lembi durante un fugace rapporto sessuale ha lo stesso valore dei pugni amari che centrano mascelle giovani e intonse.

Il perno resta sempre fisso, una vorticosa degenerazione che si autoalimenta nei danni subiti dai tessuti viventi. Il resto è uno scipito contorno, che serve ad arricchire il risultato finale. Un saggio visivo che del tema affronta anche le parti più disturbanti, senza lasciare nulla all’immaginazione.


La linearità del caos
Sin dalla prima proiezione (avvenuta sulla Croisette nel 2014) chiunque aveva facilmente individuato nella cura della messa in scena il vero valore aggiunto dell’opera. Un rigore estetico che è valso il Gran Premio Settimana Internazionale della Critica e che ha permesso al regista di venir citato d’improvviso sulle più famose testate specializzate del globo. Certo, l’intuizione di non sottotitolare il linguaggio dei segni aiuta, ma ciò che più stranisce è l’orizzontalità della trama accompagnata da un egual movimento della macchina da presa. Sono, infatti, ammirabili i lunghi long take a cui Slaboshpytskiy cerca di abituare il proprio pubblico, costretto nello sguardo ininterrotto anche di fronte alle azioni più sordide. Sesso, pestaggi e aborti trovano tutti spazio senza censura davanti alla sua lente, che dipinge quadri d’impassibile bellezza formale. Una spirale del male dalle forti tinte sbiadite, evocative di scenari post bellici e assai poco vivibili che, da un’iniziale staticità, prendono vita attraverso il gioco del contrasto ed emergono in primo piano più e più volte.

Un neorealismo postsovietico e postmodernista in grado di sfruttare al meglio diversi interpreti imberbi, buttati in scena senza alcuna esperienza. I giovani Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy, Alexander Dsiadevich, Yaroslav Biletskiy, Ivan Tishko, Alexander Osadchiy, Alexander Sidelnikov e Alexander Panivan sono tutti perfettamente calati nel ruolo perché in realtà stanno vivendo mimeticamente nella storia. In questo modo, i loro gesti freneticamente silenziosi assumono un valore aggiunto, una caratteristica importante: l’inadeguatezza della spontaneità al cospetto di situazioni che sarebbero ingestibili persino per i normodotati. Sommando l’occhio di Slaboshpytskiy alla freschezza opprimente degli attori ne scaturisce una miscela tanto compatta da divenire indigeribile agli stomaci più deboli, probabilmente non pronti per un tipo di racconto così diretto e spietato.



Che alla lunga però dimostra tutti i limiti della prima volta, approssimativa e frettolosa nel voler raggiungere l’obiettivo. Una forma d’arte che si spegne gradatamente, il cui più grande pregio, ovvero la forza del messaggio, svanisce con la stessa velocità con cui s’era accesa. Le trovate originali del cineasta ucraino soffrono l’inseguimento perpetuo, il plot necessitava forse meno cura dell’immagine e una maggiore limatura degli aspetti contenutistici. Fa tutta la differenza del mondo a livello semantico scegliere con quanta intensità insistere su certe immagini.
Il voyerismo del male
Non ci sono primi piani in The Tribe, qualsiasi tipologia di mimesi è consapevolmente evitata, sostituita appunto da campi lunghi di una fissità disarmante. Per il regista le forme umane che tentano di sopravvivere in quel tugurio a cielo aperto non devono mai mostrare i propri tratti distintivi, bensì essere delle pedine (in)coscienti nelle mani degli adulti. Pensano di potersi salvare, proiettati senza remore nel calderone della malavita, ma non hanno purtroppo capito di essere solo dei figuranti facilmente sostituibili. Queste soluzioni però hanno il grosso difetto di diventare alla lunga manierismo: dopo l’ennesimo spezzone d’iper-realismo cruento, ci si chiede, giustamente, dove termina il desiderio di raccontare senza filtri e dove invece subentra un fastidioso voyerismo del male, in cui il dolore di chi guarda combacia fittiziamente con quello di chi lo sta vivendo.

Una spettacolarizzazione che, come già scritto in precedenza, è frutto di un’inesperienza bulimica incapace di fermarsi in tempo. Era quantomeno auspicabile che il sensazionalismo da trovata originale venisse arginato, così come il ridondante accento sulle peculiarità strutturali del film. In questo senso, i centotrentadue minuti di pellicola non potevano che portare verso un accanimento percepito, capace di tramutarsi in un superfluo “gioco” di cattivo gusto. Sicuramente involontario, ma che pesa come un macigno sulla valutazione finale dell’opera, altrimenti annoverabile tra i migliori esempi degli ultimi anni. L’handicap al cinema è da sempre un tema delicato, qui ancor di più perché mescolato a problematiche sociali d’impatto devastante: l’emigrazione verso Nazioni più abbienti (guarda caso l’Italia) e la desolante povertà dell’Ucraina sono solo la punta di un iceberg narrativo che, in quanto tale, avrebbe dovuto lasciare sott’acqua la maggior parte degli spunti. Anche qui, la via giusta da percorrere a ogni costo doveva essere quella del non detto.


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