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Testimonianze sullo stalinismo Premessa: cosa non si può non sapere sulla repressione staliniana


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Testimonianze sullo stalinismo

Premessa: cosa non si può non sapere sulla repressione staliniana

Sono sorpreso anch’io, che sull’URSS ho scritto qualche libro, e ne ho letti moltissimi, di scoprire qualcosa di veramente nuovo e utile in una nuova pubblicazione. Eppure è così: Sospetto e silenzio di Orlando Figes (Mondadori, Milano, 2009) mi ha colpito, e spinto a una lettura non affrettata. Ero sorpreso anche perché non mi era piaciuto affatto il suo primo lavoro, di mole monumentale, ma con molte banalità e luoghi comuni anticomunisti: La tragedia di un popolo. La rivoluzione russa, 1891-1924, Corbaccio, Milano, 1997.

Anche se ignorata o rimossa da parte della sinistra, esiste da molti anni anche in italiano un’ampia selezione della enorme memorialistica di sopravvissuti al Gulag. In genere si pensa soltanto a Arcipelago Gulag, che viene però più facilmente rifiutato insieme alle concezioni conservatrici e anche reazionarie a cui l’autore, inizialmente comunista critico, è approdato alla fine della sua vita travagliata. Ed è già un grave errore: uno scrittore va valutato per quello che scrive, non per le sue concezioni, altrimenti dovremmo gettar via Dostoevskij e Balzac, per non parlare di Mario Vargas Llosa. E Alexander Solzhenitsyn è un grande scrittore, almeno per due romanzi come Il primo cerchio o Divisione cancro (Reparto C, nell’edizione Einaudi curata da Vittorio Strada).

Arcipelago Gulag non è un romanzo, ma un’immensa e insostituibile documentazione frutto del ruolo assunto dall’autore per aver potuto pubblicare legalmente in URSS nel 1962, nell’ultimo periodo di Chrusciov, il primo (e per decenni, l’unico) romanzo ambientato nei campi di lavoro, Una giornata di Ivan Denisovic. Un romanzo breve che oggi può apparire modesto anche perché allora probabilmente limato per superare la censura, ma che provocò un’emozione straordinaria trasformando Solzhenitsyn in un punto di riferimento per tanti sopravvissuti e ancor più per chi nel periodo staliniano aveva perduto un familiare e non sapeva nulla della sua sorte.

In Arcipelago Gulag ci sono pagine fastidiose in cui Solzhenitsyn espone le sue idee conservatrici, e i suoi anacronismi (per lui sono la stessa cosa una fucilazione sbrigativa nel contesto della drammatica lotta per la sopravvivenza nel caos della guerra civile, e lo sterminio a freddo di intere categorie dapprima sociali o politiche, e poi con un terrore preventivo e indiscriminato), ma ciò non toglie nulla al valore documentario e anche letterario di questa opera monumentale.

Ma non c’è solo Solzhenitsyn! Ci sono i due volumi di Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, c’è Undici anni nelle prigioni e nei campi di concentramento sovietici di Elinor Lipper, il bellissimo L’epoca e i lupi di Nade~da Mandel’stam, Gli anni del grande terrore di Anatolij Rybakov, Gli straordinari Racconti della Kolima di Varlam Šalamov, di cui sono uscite tre edizioni, e ora una singolare integrazione documentaria (Varlam Šalamov, Alcune mie vite. Documenti segreti e racconti inediti, Mondadori, Milano, 2009) che contiene i verbali dei tre processi in cui lo scrittore fu condannato, recuperati, molto tempo dopo la sua morte, dalla pazienza certosina di una curatrice.

Vorrei ricordare il dimenticatissimo Il redivivo tiburtino. 24 anni di deportazione in URSS del nostro Dante Corneli, un libro che fu fortemente voluto da Umberto Terracini, a cui si deve anche l’impegno per far “riabilitare” e uscire dall’URSS questo “redivivo”, condannato nell’Italia fascista a venti anni per aver ucciso un fascista in uno scontro del 1921, e che scontò in URSS ventiquattro anni tra carcere e confino per la sola colpa di aver votato nel 1925 una mozione dell’Opposizione di sinistra. Ma per qualche ritocco stilistico dell’editore (La Pietra, Milano, 1977) non piacque a Corneli, che proseguì la sua opera pubblicando a sue spese preziosi libricini (i suoi samizdat), che distribuiva personalmente nelle edicole e nelle librerie. Tutti i libri usciti successivamente sull’argomento devono molto a questo straordinario autodidatta.

Ma si potrebbe continuare per decine di pagine, centinaia se non ci si limita all’Italia. Io stesso, negli anni, di libri sul periodo staliniano ne ho accumulati tanti da riempire quasi completamente una parete della mia biblioteca.

Ci sono opere sorprendenti, come quella curata da Vitalij Šentalinskij, che aveva avuto l’intuizione che negli archivi della NKVD ci dovevano essere preziosi manoscritti confiscati ai maggiori scrittori sovietici al momento dell’arresto. Šentalinskij cercava inizialmente le tracce di Babel e Mandel’štam, ma ha finito per trovare anche i fascicoli di alcuni scampati, come Bulgakov, seguito con attenzione dai servizi anche se restava libero per decisione di Stalin, e Gor’kij, che non ne esce benissimo (Vitalij Šentalinskij, I manoscritti non bruciano, Garzanti, 1994).

Interessante il piccolo libro di Pavel Chinsky, La fabbrica della colpa. Microstoria del terrore staliniano (Bruno Mondadori, Milano, 2006), dedicato alla ricostruzione minuziosa del “caso” di Izrail’ Savel’evic Vizelskij, un ingegnere chimico che si ostinò tenacemente a non confessare alcuna colpa, resistendo fino alla morte senza collaborare, e tentando di ottenere giustizia da Stalin.

Ci sarebbero anche opere d’insieme scritte da autori non sovietici, come quella monumentale di Robert Conquest, Il grande terrore (BUR, Milano 1999), detestata dai giustificazionisti nostalgici del “socialismo reale”, o quella più superficiale di Anne Applebaum, Gulag. Storia dei campi di concentramento sovietici (Mondadori, Milano, 2004), ben documentata sugli anni Trenta ma zeppa di anacronismi e di sviste per quanto riguarda il primo decennio e le caratteristiche della prima fase della rivoluzione. Peraltro dall’uso minuzioso delle fonti emerge comunque involontariamente l’infondatezza dell’amalgama tra il periodo staliniano e le asprezze della guerra civile. Ad esempio emerge che se i primi campi voluti da Trockij e Lenin di cui esiste documentazione riguardano prigionieri di guerra cechi in rivolta, e sono esattamente analoghi ai campi esistenti in tutti i paesi belligeranti, risulta poi dalle testimonianze riportate fedelmente l’enorme differenza di campi e prigioni rispetto al Gulag: ad esempio fino al 1929 “ai prigionieri era consentito uscire liberamente dalla prigione. Organizzavano sessioni di ginnastica mattutine, avevano istituito un’orchestra e un coro, creato un «circolo» fornito di riviste straniere e di una buona biblioteca”. Ovviamente nei decenni successivi, era impossibile avere non solo libri o riviste, ma perfino un pezzo di carta…

Ancor più scorretto e arbitrario il recentissimo Il laboratorio del Gulag di Francine-Dominique Liechtenhan (Lindau, Torino, 2009), aggravato da una faziosissima prefazione di Emmanuel Le Roy Ladurie, che forzando ulteriormente gli anacronismi dell’autrice, non solo se la prende con Lenin, ma insinua che “a inventare la «cosa» fu forse Trockij… quel caro Trockij i cui retrivi discepoli oggi, unendo le varie tendenze, raccolgono il 10% dell’elettorato francese…” Un bell’esempio di “rigore storico” per un allievo di Braudel… Tanto per dare un’idea di questi anacronismi, la Liechtenhan aveva detto che la creazione del primo “campo a destinazione speciale” risale al 13 Ottobre 1923, “quando Lenin è ancora in vita”: peccato che egli avesse perso conoscenza irreparabilmente il 9 marzo di quell’anno. Ma Le Roy Ladurie, non contento, lo retrodata addirittura al 1921…

Preferisco quindi basarmi sulla documentazione di prima mano, di sopravvissuti al Gulag, anche se spesso non sfuggono anche loro alla tentazione di mescolare la testimonianza o la creazione letteraria con lunghe e poco interessanti ricostruzioni psicologiche dei presunti moventi di Lenin (penso ad esempio al romanzo Tutto scorre…di Vasilij Grossman, peraltro notevole, e che è il proseguimento ideale del grande Vita e destino dello stesso autore. Entrambi pubblicati da Adelphi).

Una pregevole eccezione è però rappresentata dalla Storia del Gulag. Dalla collettivizzazione al Grande terrore, (Einaudi, Torino, 2006) di Oleg Chlevnjuk, un giovane ricercatore russo (nato nel 1956) che su fonti documentarie sovietiche ricostruisce rigorosamente l’origine e le trasformazioni dei campi.

In ogni caso credo di dover fare un’altra eccezione segnalando alcuni libri di autori italiani, in genere frutto di una preziosa collaborazione con l’associazione russa Memorial: In primo luogo GULag. Il sistema dei lager in URSS, a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Mazzotta, Milano, 1999. Intanto contiene alcuni saggi importanti di autori russi come Lev Razgon, Victor Zaslansky, ecc, e ha una vastissima bibliografia (325 titoli) curata da Hélène Kaplan, ed è corredato da un’ampia documentazione fotografica. L’altro è Gulag. Storia e memoria, a cura di Elena Dundovich, Francesca Gori, Emanuela Guercetti, uscito dapprima nel 2003 negli Annali della Fondazione Giangiacomo Feltrinelli, e poi nei Saggi dell’Universale Economica Feltrinelli nel 2004. Un libro prezioso.

Nella nota bibliografica segnalo anche una parte dei libri dedicati alla tragedia dell’emigrazione italiana in URSS, sulla scia dell’opera pionieristica di Dante Corneli, iniziata come testimonianza individuale “dovuta” ai compagni che non sono tornati, e proseguita poi esplorando l’Archivio di Stato a Roma alla ricerca di rapporti delle spie fasciste che imperversavano a Mosca, e che seguivano attentamente il mondo dei rifugiati.

Ho dovuto fermarmi qui, con la rassegna, altrimenti non sarei mai arrivato al dunque: ne posso ricordare ancora solo un paio, quello di Jacques Rossi (Com’era bella questa utopia. Cronaca dal Gulag, Marsilio, Venezia, 2003), il comunista polacco di origine francese, diventato funzionario del Comintern e condannato nel 1937 per spionaggio a favore della Francia e della Polonia, che ha raccontato la sua odissea durata 19 anni in un libro che richiama molto (in parte ricalcandoli, anche se con diversa capacità letteraria) i racconti della Kolima di Varlam Šalamov; e la straordinaria testimonianza di Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e di Hitler (il Mulino, Bologna, 1995), l’unica dei duemila comunisti tedeschi e austriaci consegnati dall’URSS a Hitler nel 1940 che è sopravvissuta e ha potuto raccontare quindi la sua esperienza.

 

Il senso di questa rapida panoramica è semplice: chi voleva, poteva conoscere tutto sull’universo concentrazionario.



Ma questo nuovo libro, Sospetto e silenzio, sorprendentemente, aggiunge una nuova riflessione sulle ripercussioni della repressione staliniana sulla psicologia dei sopravvissuti e soprattutto dei familiari delle vittime.

La ricerca era partita dalla ricostruzione della sorte di alcune famiglie, tra cui quella di Konstantin Simonov, per anni scrittore di regime e caratterizzato da una certa viltà: egli non intervenne neppure in difesa di mogli, amiche e amici travolti dal terrore, e accettò perfino di unire la sua penna alla canea antisemita dell’ultimo periodo di Stalin; Figes ne ricostruisce la logica, e registra che in parte si riscattò difendendo o aiutando materialmente alcuni intellettuali dissidenti, negli anni immediatamente precedenti alla sua morte, avvenuta nel 1979.

Di alcune famiglie - spesso molto vicine al potere staliniano - le vicende sono seguite in un arco di tempo molto lungo, anche grazie ad archivi privati conservatisi miracolosamente, o ricostruiti dopo il 1956. Ma il libro ha una forza che gli deriva dall’impianto corale, dovuto alla collaborazione di tre sezioni dell’associazione Memorial (di Mosca, San Pietroburo e Perm) che hanno portato a un migliaio le testimonianze utilizzate.

L’attenzione di Figes è rivolta a tutti gli aspetti umani: molto belle, ad esempio, anche se a volte fin troppo indulgenti, le ricostruzioni delle contraddizioni di Simonov, che al momento della destalinizzazione e del suicidio di Aleksandr Fadeev che l’aveva diretta a lungo, era vicepresidente della potente Unione degli scrittori.

Il titolo Sospetto e silenzio si capisce bene fin dalle prime pagine, da una vicenda su cui Figes ritornerà a lungo. Quella di Antonina Golovina. Aveva otto anni quando il padre fu arrestato in quanto “kulak”, e lei fu confinata con la madre e due fratelli più piccoli nella lontana regione siberiana dell’Altaj. Quando il padre finì di scontare la pena, si trasferirono a Pestovo, “una cittadina brulicante di ex kulak e delle loro famiglie”. Umiliata dal bullismo di alcuni compagni di scuola, trovò insegnanti che invece di proteggerla la insultavano, “dicendole di fronte a tutta la classe che «la sua razza» era quella dei «nemici del popolo, i maledetti kulak»: di certo avete meritato la deportazione, e spero che vi sterminino tutti”. Voleva gridare, ma una paura ancor più grande la spinse a tacere. Per tutta la vita.

Brillante e intelligente, proseguì negli studi appoggiata da altri insegnanti, e da alcuni dirigenti del Komsomol che “chiusero un occhio sulla sua provenienza sociale perché apprezzavano il suo spirito di iniziativa”. Finiti gli studi secondari, adottò una strategia assai rischiosa: si procurò documenti falsi per trasferirsi a Leningrado, nella facoltà di Medicina, che le sarebbe stata altrimenti preclusa. Lavorò all’Istituto di Fisiologia per quarant’anni, iscrivendosi al partito comunista, di cui continuò a fare parte fino allo scioglimento nel 1991.

Antonina nascose la verità sulle sue origini perfino ai due mariti, con ciascuno dei quali visse per oltre vent’anni. Lei e il primo marito, Georgij Znamenskij, rimasero amici per tutta la vita, ma raramente parlavano del passato delle rispettive famiglie. Nel 1987 una zia di Georgij andò a trovarla e si lasciò sfuggire che il nipote era figlio di un ammiraglio zarista giustiziato dai bolscevichi. Per tutti quegli anni, senza saperlo, Antonina era stata sposata con un uomo che, come lei, aveva trascorso l’infanzia nei campi di lavoro e negli insediamenti speciali. (p.4)

La data è importante: nel 1987 era esplosa la glasnost’, e la zia si era lasciata andare. Ma Antonina ancora non si fidava. E ancora per alcuni anni non disse nulla al secondo marito, un estone di nome Boris Ioganson. Solo agli inizi degli anni Novanta, dopo il crollo e lo smembramento dell’URSS, cominciarono a parlare, e Antonina seppe che anche Boris “proveniva da una famiglia di nemici del popolo”. Suo padre e suo nonno erano stati arrestati nel 1937. Nel clima di rigetto almeno formale dello stalinismo, con le forti critiche espresse dai media alle repressioni, “cominciarono finalmente ad aprirsi”.

Ma di questo non parlarono con la figlia Ol’ga, maestra di scuola, perché temevano un colpo di coda dei comunisti e pensavano che, se fossero tornati gli stalinisti, il fatto di non sapere nulla l’avrebbe protetta. Fu solo alla metà degli anni Novanta che Antonina a poco a poco vinse finalmente la paura e trovò il coraggio per rivelare alla figlia della sua famiglia di Kulak (p. 4-5)

Questo episodio, che risulterà non unico o eccezionale, è giustamente messo all’inizio del libro, e ne spiega il titolo: Sospetto e silenzio…

Il libro vuole raccontare la storia segreta di tante famiglie come quella dei Golovin, e ci riesce. È ancora più agghiacciante delle descrizioni degli aspetti più evidenti del terrore, gli arresti, i processi insensati, la violenza gratuita, gli eccidi per raggiungere la “quota” assegnata. Scoprire come la repressione penetrava in profondità nella vita familiare delle persone.

Com’era la vita privata dei cittadini sovietici negli anni del regime staliniano? Che cosa pensavano e sentivano davvero? Che tipo di intimità era possibile negli angusti appartamenti in coabitazione in cui viveva la maggior parte della popolazione urbana, dove una stanza era condivisa da un’intera famiglia e spesso da più di una,e ogni conversazione poteva essere udita nella stanza accanto? (…) Milioni di persone vivevano come Antonina in un continuo stato di paura perché i loro familiari avevano subito la repressione. (…) A quali compromessi dovevano scendere per superare il marchio d’infamia della loro «biografia compromessa» e farsi accettare come membri di una società uguali a tutti gli altri? (…).

La sfera morale della famiglia è il principale campo di ricerca di Figes, che esamina “i modi in cui essa reagì alle varie pressioni del regime sovietico. Come si potevano conservare le proprie tradizioni e la proprie convinzioni e trasmetterle ai figli, se contrastavano con gli obiettivi e i principi morali del sistema, inculcati nella generazione più giovane attraverso la scuola e istituzioni come il Konsomol?” Inculcati accettando e condizionando, oppure respingendo ai margini i giovani marchiati dal peccato originale della provenienza sociale…

Ovviamente sapevo bene, e ne avevo anche scritto in Intellettuali e potere, della corresponsabilità familiare punibile, anche solo per un silenzio su presunte colpe paterne, fin dai 12 anni… Ma in questo libro viene rievocata concretamente, ricostruendo tanti casi dolenti, a partire dalle vicende di quelli che vennero strappati ai nonni e messi a forza in terribili orfanotrofi-riformatorii per le presunte colpe dei padri. Qualcosa che ricorda la sorte dei figli dei desaparecidos argentini…

E uno dei dati più inquietanti riguarda una concezione incredibile della responsabilità collettiva, che in molti casi faceva ricadere le conseguenze di una punizione già in sé assurda sia sui figli più piccoli, incapaci di capirne il senso o sui vecchi genitori di chi veniva proclamato “nemico del popolo”, a cui veniva tolta la tessera alimentare e la casa.

Molte delle testimonianze raccolte ci parlano più spesso di una colpevolizzazione che di una indignazione e di un’almeno embrionale protesta.

Una conseguenza del regime di Stalin che perdura ancor oggi è il carattere riservato e conformista della popolazione. (…) Ai bambini veniva insegnato a tenere la lingua a freno, a non parlare con nessuno della propria famiglia e a non giudicare né criticare nulla di quanto vedessero fuori casa.

In una società in cui si pensava che la gente venisse arrestata perché parlava troppo, le famiglie sopravvivevano grazie alla riservatezza. Imparavano a condurre una doppia vita, nascondendo agli occhi e alle orecchie dei pericolosi vicini, e talvolta ai propri stessi figli, informazioni e opinioni, fedi religiose, valori e tradizioni familiari, consuetudini e fatti della vita privata in contrasto con le norme pubbliche sovietiche. Imparavano a parlare sottovoce.

La lingua russa ha due parole per definire chi parla sottovoce: una indica «chi sussurra per paura di essere udito» (šep uš ij) e un’altra «chi fa l’informatore o parla alle spalle del prossimo» (šeptun). Questa distinzione trae origine dal lessico degli anni di Stalin, quando tutta la società sovietica era costituita da «sussurratori» di un tipo o dell’altro. (pp. 6-7).

Già questo preambolo di Figes, che ricerca le caratteristiche e il lascito dello stalinismo non solo nella violenza più brutale e diretta, ma nello stravolgimento generale della società, al punto di ingenerare l’idea (scorretta e in realtà fuorviante, ma attraente) di un “mutamento genetico” del popolo russo, dovrebbe essere sufficiente per mettere a tacere le stolte giustificazioni di quella tragedia, magari in base a un ridimensionamento del numero delle vittime dirette.

Avevo sempre pensato che i Canfora, i Burgio, i Losurdo, o il loro ultimo adepto, Giorgio Galli (di cui ho recensito severamente su Limes online il penoso libro su Stalin), impegolandosi in un conteggio dei morti degno dei negazionisti dello sterminio nazista, o accettando la menzogna staliniana sul Patto Ribbentrop-Molotov firmato “per guadagnare tempo”, dimenticassero le conseguenza morali e non solo materiali del terrore nei confronti dei comunisti, e del biennio di complicità con Hitler. Pensavo ad esempio che questi “nostalgici” dimenticavano la prima vittima dello stalinismo, il partito comunista, che da organizzazione di rivoluzionari coscienti fu trasformato in caserma, o meglio prigione, con carcerati e secondini. Ma, confesso, mettevo un po’ in secondo piano le distorsioni profonde nella vita quotidiana dei russi, anche di quelli sfuggiti all’arresto (anche se sapevo di Bulgakov o Šostakovi , che hanno passato tante notti con la valigetta pronta, in attesa che qualcuno bussasse) o di quelli sopravvissuti a lunghi anni di Gulag, e dei loro familiari.

Cercherò di seguire la traccia del libro, anche perché la suddivisione in capitoli contribuisce a tracciare quella periodizzazione del periodo staliniano che è indispensabile per sfuggire agli anacronismi rilevati in tanti autori.

Ma prima di lasciare l’introduzione, vorrei segnalare una nota metodologica molti utile. Per anni gli storici indagavano quasi esclusivamente sulla sfera pubblica, la politica, l’ideologia, ecc. L’individuo compariva quasi solo come autore di lettere alle autorità.

La sfera privata della gente comune era in larga parte celata alla vista. Il problema, ovviamente erano le fonti. La maggior parte delle “collezioni private” negli ex archivi del soviet e del partito appartenevano a noti personaggi del mondo della politica, della scienza e della cultura. I documenti di tali raccolte venivano selezionati con cura dai proprietari per essere donati allo Stato, e riguardavano soprattutto la loro vita pubblica. Tra le molte migliaia di collezioni private esaminate nelle prime fasi delle ricerche per questo libro, meno di una decina rivela qualcosa della vita familiare o privata. (p.7)

Le ragioni erano varie, ma tutte riconducibili alla prudenza e al sospetto, che ingeneravano silenzio. Anche i testi di memorie pubblicati in Unione Sovietica o accessibili negli archivi sovietici prima del 1991, rivelavano ben poco (con qualche eccezione per quelli pubblicati nella seconda metà degli anni Ottanta, nel periodo della glasnost’). E c’è un altro problema, che Figes analizza in modo convincente.

I memoriali di intellettuali emigrati dall’Unione Sovietica e di sovietici sopravvissuti alle repressioni staliniane editi in Occidente non sono meno problematici, pur essendo stati accolti come la “voce autentica” di chi “fu messo a tacere” che narra l’esperienza del terrore staliniano vissuta da semplici cittadini. All’inizio degli anni Ottanta, al culmine della guerra fredda, in Occidente l’immagine del regime staliniano era dominata dai racconti di sopravvivenza dei membri dell’intellighenzia, soprattutto quelli di Evgenija Ginzburg e Nade~da Mandel’štam. (…) Questa visione morale (…) ha avuto una profonda influenza sull’enorme numero di memoriali scritti dopo il crollo del regime sovietico, e un forte impatto sugli storici, che dopo il 1991 erano più inclini a mettere in rilievo le forze della resistenza popolare alla dittatura staliniana. Ma sebbene dicano il vero riguardo ai molti sopravvissuti al terrore, in particolare ai membri dell’intellighenzia, ferventi fautori degli ideali di libertà e individualismo, questi memoriali non rappresentano i milioni di persone comuni, tra cui anche numerose vittime del regime staliniano, che non solo non ne condividevano la libertà interiore o il sentimento di dissenso, ma anzi, al contrario, accettavano in silenzio e interiorizzavano i valori fondamentali del sistema, si conformavano alle sue leggi pubbliche e, forse, collaboravano alla perpetrazione dei crimini. (p.8)

Figes analizza con umanità e senza moralismi questi atteggiamenti. Per la maggioranza delle persone, osserva, comprese molte vittime del regime staliniano, “integrarsi nel sistema sovietico era un mezzo per sopravvivere, un passo necessario per tacitare i propri dubbi e i propri timori che, se espressi, avrebbero potuto rendere la vita impossibile” (in senso letterale).

Credere nel progetto sovietico e collaborarvi era un modo per dare un senso alle sofferenze che, senza una finalità superiore, avrebbero potuto ridurli alla disperazione. Come disse un altro figlio di kulak, condannato a molti anni di confino in quanto nemico del popolo e che pure rimase per tutta la via uno stalinista convinto, “credere nella giustizia di Stalin… rendeva più facile accettare la punizione, e faceva svanire la paura”. (p.9)

È questo che rende particolarmente utile questo libro, che combinando con rigorosa cautela storia orale e documenti, ricostruisce non i “dettagli esteriori” del terrore e dell’esperienza del Gulag, ma il “mondo interiore delle famiglie e degli individui”. Sospetto e silenzio segue la vicenda di centinaia di famiglie, di diversa estrazione sociale e provenienti da città, cittadine e villaggi di tutta l’Unione Sovietica. Di esse, “alcune subirono la repressione, mentre altre, quelle degli agenti dell’NKVD o degli amministratori del Gulag, furono coinvolte nel sistema di repressione”. Ci sono anche famiglie che non furono toccate direttamente dal terrore, ma dal punto di vista statistico il loro numero risulta piuttosto esiguo.

La principale pecca del libro, è che non è sempre facile seguire le storie delle famiglie che si intrecciano e ritornano in capitoli diversi (dato che questi sono organizzati in base a criteri prevalentemente cronologici). L’autore stesso consiglia di connettere i brani ricorrendo all’Indice dei nomi. Abbastanza faticoso farlo per la famiglia allargata di Konstantin Simonov, la cui vicenda occupa un centinaio di pagine sparse tra la 12 e la 633… Ma è come un libro nel libro, e lo scopo complessivo di Figes è di tracciare un grande affresco della società sovietica, non una serie di ritratti. Tuttavia, in appendice, è fornito un albero genealogico delle famiglie più ricorrenti, e anche un inserto fotografico molto bello.

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