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Studio sul tema "Santo Graal" Un'approfondita analisi storico-letteraria


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Studio sul tema "Santo Graal"

Un'approfondita analisi storico-letteraria

Sommario



Introduzione
Il poema di Chrétien

Il romanzo di Robert de Boron

L'influsso celtico

Il leggendario Re Artù

L'influsso cristiano

L'abbazia di Glastonbury

L'opera di von Eschenbach

Perceval e Parzival: un'analisi comparata

I cavalieri del Graal

Il castello del Graal

L'eresia catara

Il misticismo del Graal

Il Graal degli alchimisti

Il Graal di Don Chisciotte

La musica del Graal

Il Graal oggi





Introduzione

A partire dal Medio Evo la leggenda del Graal ha ispirato poeti, scrittori e musicisti. Il primo a parlarne fu Chrètien de Troyes, all'inizio del XII secolo, in un lungo poema intitolato Perceval o il racconto del Graal, che in particolare era ambientato alla corte di re Artù. Questa leggenda adombra una realtà storica oppure è soltanto frutto di un'invenzione letteraria? Dov'è nata: in Europa, in Arabia o in Asia? Ma, innanzi tutto, che cos'è il Graal? La coppa che servì a Gesù Cristo per la Cena la sera del Giovedì Santo, oppure il vaso nel quale trovare la pietra filosofale? Il simbolo della Grazia concessa ai penitenti, o il simbolo della Conoscenza, prima tappa verso la dominazione del mondo? Quest'ultima ipotesi poggia sulla leggenda del mistero dei Templari.Fra tutte le leggende che ancora alimentano la nostra fantasia, quella del Graal è una delle più vive. Come gli appassionati degli abissi tumultuosi amati da Wagner possono sprofondarsi in Parsifal, così altri si sentono spiritualmente più vicini alla lunga e dolorosa ricerca del cavaliere, la cui speranza tende verso i tesori fuggitivi della purezza. Poiché l'umanità, da quando esiste, ha sempre conosciuto due nostalgie: quella del Paradiso perduto, illuminato dallo splendore del Bene e del Bello, e la scoperta dei mezzi che le permetteranno, dopo aver pagato una pena severa per redimersi, di rivivere nella luce della verità. Caratteristica comune a complessi sistemi filosofici, a cantilene ingenue, a leggende misteriose è sempre il vagabondare dell'uomo in un mondo in cui egli, perso dietro il suo profondo ideale, procede tentoni come un cieco. Di fronte a questa sete inestinguibile non esistono più continenti. Così accade per il Graal, che certamente appartiene al patrimonio intellettuale e spirituale europeo; ma sembra che i suoi incanti dolorosi abbiano conquistato anche i poeti arabi che n’avevano raccolto le delizie dalla lontana Asia. Né la radice ancestrale di questa leggenda appartiene al solo cristianesimo o agli Arabi troppo compenetrati dall'Islam, Benché coloro che si propongono di esaltare la difficile conquista della felicità, non si sforzino di far rientrare anche la leggenda pagana nel rigido ambito delle religioni rivelate. Il Graal... parola che vive nella spiritualità di questo Medio Evo costruttore di cattedrali. Si parla con una specie di sacro terrore di questa coppa che, la sera del Giovedì santo, era servita a Cristo per annunciare il mistero della redenzione; questo vaso, infatti, aveva contenuto il pane e il vino che dovevano diventare carne e sangue di colui che stava per morire sul Golgota. Si dice anche che nel Graal Giuseppe d'Arimatea ha raccolto il sangue di Cristo, che era sgorgato dal fianco di Gesù, trapassato dalla lancia del centurione Longino. Attraverso vie misteriose, custodito da mani prudenti e pie, il Graal sarebbe giunto in possesso dei Genovesi i quali lo esposero nella loro città dopo la presa di Cesarea. Vaso cristiano consacrato? Forse. Ma la leggenda abbellirà ciò che la storia non permette di stabilire con esattezza. Perché si dirà anche che il Graal sia una pietra venuta dal cielo; altri affermeranno che si tratta del perduto vangelo di San Giovanni. A poco a poco tutto si confonderà: la tradizione cristiana, l'umanesimo germanico nascente, e persino i miti orientali trasferiti in Europa dai Crociati. Quante sedimentazioni si sono depositate nel corso degli anni sulla primitiva storia del Graal! Quanti poeti famosi ed oscuri rimatori hanno ampliato ed arricchito la versione primitiva, come se ad ognuno di loro importasse non tanto rivolgersi ai posteri quanto liberarsi dalla propria angoscia davanti al mistero che pesava sull'antica storia! Sembra che il primo a raccontare la leggenda del Graal sia Chrètien de Troyes. Ha scritto il poema intitolato: Perceval il racconto del Graal, probabilmente fra il 1180 e il 1183. L'opera è stata concepita per richiesta del suo protettore Filippo di Fiandra, fidanzato di Maria di Champagne. Chrètien de Troyes è uno di quei poeti che le dame tenevano volentieri al loro seguito per alimentare i vagabondaggi della fantasia che rallegravano la vita piuttosto monotona dei castelli. Chrètien de Troyes afferma umilmente che l'idea più originale del suo racconto non gli appartiene, perché l'ha trovata in un libro avuto in prestito da Filippo di Fiandra. L'opera del poeta della Champagne è composta di diecimila e sessantun versi. Ebbe un tale successo, la sua risonanza fu tanto notevole che Chrètien de Troyes ebbe quattordici continuatori, ed alla fine il racconto delle avventure e delle sventure di Perceval occuperà più di sessantamila versi.

Il poema di Chrétien

Ecco dunque questa storia. Durante la sua giovinezza Perceval ha vissuto praticamente allo stato selvaggio. Sua madre, una vedova che ha perduto i primi due figli, vuole salvare l'ultimo bimbo che le resta dai pericoli rappresentati ai suoi occhi dalla cavalleria, i cui membri altro non sognano che di battaglie e spedizioni lontane, dunque di morte. Per questo motivo Perceval è cresciuto ignorante di tutto e di tutti, nel cuore della Gast Forest, della Foresta ospitale. Ma un giorno di primavera ecco che appare un corteo d’abbagliante bellezza: tutto splendente d'oro, d'azzurro e d'argento. Il giovane interroga avidamente i cavalieri; la sua decisione è presa: li seguirà. Sua madre, non potendo ostacolare quest’improvvisa vocazione, moltiplica i consigli a Perceval; nulla dimentica, né le preghiere che occorre fare nelle chiese, né il comportamento da tenere nei confronti delle donne. Ecco il giovane lanciato sulle strade dell'avventura, senza uno sguardo per sua madre, che morirà per il dolore di questo distacco. Le nuove esperienze hanno un inizio burrascoso: corteggia brutalmente, molto brutalmente, la prima fanciulla che incontra, e s’impadronisce dell'anello che le orna il dito. Scambia una tenda militare per una cappella, e qui si comporta con disinvoltura. Eccolo al castello di Re Artù. Perceval, cafonescamente, entra a cavallo nel salone dove siede il sovrano; questi è muto per il dolore, perché è stato offeso in modo grossolano dal cavaliere Vermeil. Benché non sia ancora stato investito cavaliere e non abbia quindi nessun diritto di sfidare Vermeil, Perceval tuttavia si batte contro di colui che ha umiliato Artù gettandogli una coppa di vino in faccia e lo uccide con un colpo di giavellotto. Gornemant, un vecchio cavaliere, si prende cura dell'educazione di Perceval. Gli insegna non soltanto a battersi, ma anche ad usare i più elementari principi di cortesia, che non tarderanno ad esser messi in pratica; armato cavaliere, Perceval si precipita in aiuto dell'onesta Biancofiore, assediata in un castello dal malvagio Anguingueron. Liberata, la fanciulla non rifiuterà il suo cuore al salvatore. E fin qui il poema di Chrètien de Troyes non presenta nulla di particolarmente originale. Nella piccola corte di Maria di Champagne probabilmente si ironizzava sui giovani un po' rozzi e grossolani che bisognava a poco a poco rendere più raffinati. Insomma, la prima parte del Perceval non è che il racconto dell'iniziazione di un giovane selvaggio al codice della cavalleria e dell'amore. Ma ecco che bruscamente l'opera ha una svolta. Cavalcando in cerca d’avventure, che è la sorte naturale dei cavalieri, una sera Perceval giunge sulle rive di un fiume così ampio che non può attraversarlo. Scorge una barca con due uomini, uno dei quali sta pescando e che gli offre ospitalità per la notte. Appena arrivato al castello del Re-Pescatore, poiché questo è il nome del suo ospite, Perceval è vestito con un mantello scarlatto. Il Re-Pescatore è sdraiato su di un letto. E a questo punto si svolge una scena fondamentale nell'opera di Chrètien de Troyes. Un cavaliere armato di una lancia di un biancore scintillante appare nella sala. Una goccia di sangue scorre lungo l'asta, fino alla mano dello scudiero. Alle sue spalle due giovinetti bellissimi portano un candelabro d'oro ciascuno, sovraccarico di candele. Infine avanza una fanciulla riccamente vestita, dal portamento nobile, dal viso angelico, che tiene fra le mani un vaso, o Graal, da cui emana un chiarore folgorante, e che è seguita a sua volta da un'altra fanciulla, che porta un piatto d'argento. Perceval ‚ accecato dal Graal ricco di pietre preziose: di un tale splendore che invano se ne cercherebbero d’eguali. Numerosi sono gli interrogativi che vengono in mente al giovane cavaliere, ma egli non osa esprimerli. E’ poi invitato ad un banchetto sontuoso, e ad ogni portata il Graal attraversa di nuovo la sala. L'indomani mattina Perceval vuole porre finalmente le domande che gli bruciano le labbra, ma non trova interlocutori; il castello sembra deserto, fuori del mondo. Si viene poi a sapere che il silenzio in cui Perceval si è rinchiuso fin dal primo momento dell'apparizione del Graal avrà terribili conseguenze. Se egli avesse posto le due domande, una sulla lancia che sanguinava, e la seconda sul Graal, con le sue parole avrebbe guarito il Re-ferito, che aveva ricevuto cioè una ferita tale da non poter mai più essere uomo. Inoltre il reame di Re Artù sarebbe stato liberato dai mali che l'opprimevano. Dopo una lunga serie d’avventure, un Venerdì Santo Perceval si imbatte in due cavalieri che gli rammentano le parole del credo. Sconvolto, il giovane corre a gettarsi ai piedi di un eremita che, guarda caso, era suo zio. Il religioso esorta il nipote a vivere secondo le leggi della morale e della religione, e Perceval riceverà l'Eucaristia la domenica di Pasqua, non senza aver raccolto dalla bocca dell'eremita qualche lume sulla natura del Graal. Egli non era riuscito a porre domande perché si trovava in stato di peccato, condizione che gli impediva sia di fare un gesto che di aprir bocca. Per quel che riguarda la lancia che sanguinava Chrètien de Troyes non propone nessuna spiegazione. Questo è un enigma, ma non l'unico. Perché è una donna a portare il Graal, contrariamente a tutta la liturgia dell'epoca? Perché i presenti non manifestano nessun segno particolare di raccoglimento al passaggio del vaso sacro? Forse la morte ha impedito al poeta della Champagne di fornire i chiarimenti che si proponeva di dare? Oppure non è riuscito a padroneggiare abbastanza tutte le leggende di cui si è servito per imbastire il suo poema?

Il romanzo di Robert de Boron

E' ad un altro poeta che siamo debitori di qualche lume sulla natura del Graal. Qualche decina d'anni dopo la morte di Chrètien de Troyes, un altro scrittore, questa volta originario della Franca Contea, pubblica tremilacinquecentoquattordici versi che intitola: Le Roman de l'Estoire du Graal (Il Romanzo della Storia del Graal). Robert de Boron pone in rilievo l'aspetto cristiano di questa storia. In effetti per lui il Graal sarebbe servito all'ultima cena di Gesù coi suoi discepoli, la sera del Giovedì santo. Preso dai rimorsi, dopo essersi lavate le mani del sangue di questo giusto, Ponzio Pilato avrebbe consegnato il recipiente a Giuseppe d'Arimatea il quale ha potuto raccogliervi il sangue di Cristo, una volta staccato dalla croce. Imprigionato, privo di cibo, Giuseppe d'Arimatea dovrà la vita alla sola contemplazione del Graal. Più ricco d'immaginazione che non Chrètien de Troyes, Robert de Boron narra poi una serie d’avventure favolose. Il poeta dà una sorella a Giuseppe d'Arimatea, Enygeus, moglie di Hebron, la quale avrà dodici figli di cui uno, stranamente, con un nome d’origine celtica: Alain. Quanto a Giuseppe, accompagnato da una piccola schiera di cristiani, si è inoltrato nel più profondo dell'Oriente. Ma il peccato si abbatte sulla piccola comunità. Dio ordina a Giuseppe d'Arimatea di costruire un tavolo identico a quello dell'ultima Cena. Nel centro risplende il vaso, ossia il Graal. Ai suoi lati un pesce pescato da Hebron. Intorno al tavolo soltanto un posto rimane vuoto: quello del nuovo Giuda, responsabile dell'apparire del peccato nella comunità. Moyset, uno dei suoi membri vi si siede: immediatamente è inghiottito dalla terra. E quotidianamente la rievocazione della Cena avrà luogo: Robert de Boron lo chiama: il servizio del Graal. Il poeta della Franca-Contea è il primo ad attribuire a questo Graal dei poteri soprannaturali: poiché a colui che possiede il Graal, e a lui solo, Dio rivela i suoi segreti. E mentre Giuseppe morirà in Oriente, Hebron che è soprannominato Ricco Pescatore, raggiunge l'Occidente; un giorno suo nipote gli succederà come signore del Graal. Quanto al personaggio di Perceval, Robert de Boron lo fa rivivere in un testo in prosa, il Didot-Perceval. Naturalmente vi si ritrova la scena che si svolge al castello del Re-Pescatore, come in Chrètien de Troyes, ma mentre quest'ultimo non aveva proprio immerso questa scena in un'atmosfera di religiosità, la cosa va altrimenti nel racconto del suo emulo della Franca-Contea. La lancia che appare alla testa del corteo è quella che servì al centurione Longino per trafiggere il fianco del Cristo; all'apparire del Graal (portato da un valletto, e non più da una fanciulla, come in Chrètien de Troyes) il Re e la sua corte manifestano il raccoglimento più profondo. Infine, colui che vuole sedersi sul Seggio Periglioso (analogo a quello posto davanti al Tavolo santo di Giuseppe d'Arimatea) è Perceval: il suolo si apre sotto i suoi piedi e la terra è oscurata dalle tenebre. Solo allora il Re-Pescatore si ammala e non potrà guarire finché un cavaliere non avrà riscoperto il Graal. Queste sono le due opere principali che fiorirono all'inizio del XIII secolo, uno dei periodi più intensamente segnati dalla cristianità. Ed è proprio a partire dai poemi di Chrètien de Troyes e di Robert de Boron che nascerà tutta una letteratura i cui incanti, ancor oggi, sono lungi dall'esser esauriti.

L'influsso celtico

Qualunque impronta personale Chrètien de Troyes e Robert de Boron abbiano dato alle loro rispettive opere, entrambi hanno attinto, per l'essenziale, alla medesima fonte: le leggende celtiche. Queste leggende sono nate da precisi avvenimenti storici: la gloria e la decadenza vissute dai Celti in Gran Bretagna. Per quattro secoli, dopo che Giulio Cesare ebbe conquistato l'isola, i Romani vi mantennero lo stato di pace, spezzando duramente qualunque tentativo d’invasione, dei Pitti e degli Scoti al nord, dei Sassoni al sud. All'ombra della spada di Roma, in questo paese che allora si chiamava Britannia, potè svilupparsi il cristianesimo. Ma all'inizio del V secolo tutto cambia: i Romani si ritirano, abbandonando i Britanni alla loro sorte. Allora i Pitti ritornano in forze, seminando terrore e morte. La fine della pax romana ha un'altra conseguenza: il cristianesimo decade, ritirandosi di fronte ad un ritorno al paganesimo. A questa nuova situazione si aggiunge una spaventosa corruzione dei costumi, tanto che la Bretagna piomba nell'anarchia e nella miseria. Attaccati da ogni parte, i Britanni utilizzano i Sassoni come mercenari per combattere i Pitti. Ma è un'alleanza breve: i Sassoni fanno causa comune coi Pitti e intraprendono la conquista del paese. I Britanni sono perduti. I Sassoni si stanziano solidamente sull'estuario del Tamigi e respingono i Britanni verso occidente. Dalla fine del V secolo i conquistatori occupano definitivamente il Kent e il Sussex ed accrescendo il loro potere creano due nuovi regni: il Wessex e l'Essex. Proprio allora compare un capo prestigioso, che passerà alla leggenda con il nome di Re Arthur o Artù. Sotto il suo comando i Britanni o Bretoni ottengono successi schiaccianti, ma hanno contro di loro il numero e la tenacia. Morto Arthur, i Sassoni continuano la loro marcia in avanti; nel 577 occupano l'estuario della Severn, separando così il paese del Galles dalla Cornovaglia. All'inizio del VII secolo altri regni sassoni occupano la costa del mar dell'Irlanda, isolando i Gallesi dal resto del paese bretone. Praticamente i Celti sopravvissuti sono condannati o a rifugiarsi sulle selvagge montagne dell'ovest, o a passare il mare per stanziarsi nell'Armorica. Popolazione perseguitata, per giunta essa è spaventosamente decimata dai Pitti e dai Sassoni. La Bretagna celuca, due anni prima fiorentissima, è ormai ridotta a qualche povera comunità che tenta di sopravvivere nel Galles, in Cornovaglia, nel Westmoreland, nel Cumberland o presso la foce del Clyde. Ecco la storia, accompagnata dai suoi dolori. Che fertile terreno per la leggenda! Vinto, il popolo bretone va in cerca della spiegazione e della giustificazione delle sue sventure. Il coraggio e la capacità del suoi capi non possono essere messi in dubbio; bisogna dunque trovare una causa soprannaturale di questa decadenza. Ed è perché il popolo bretone ha vissuto in stato di peccato, perché ha offeso Dio, che la maledizione si è abbattuta su di lui. Tuttavia bisogna vivere sperando che un giorno, dopo la remissione dei peccati, l'antica gloria ritorni. Quale può essere dunque il peccato imperdonabile commesso dalla Bretagna? Esso ha un nome: l'eresia pelagiana. Cristiano d’origine bretone, ardente predicatore molto ascoltato, Pelagio va proclamando che l'uomo dispone totalmente del libero arbitrio e che la sua salvezza è una questione personale. Si oppone così direttamente al contemporaneo insegnamento di Sant'Agostino: l'uomo non può salvarsi se la grazia non lo illumina e non lo fortifica. Secondo lui il peccato originale priva della grazia divina tutti coloro che nascono, i quali si trovano così condannati all'ignoranza, al dolore e alla morte. Pelagio al contrario afferma: l'errore d’Adamo è stato un errore suo personale; non riguarda affatto i suoi discendenti, tanto che ciascuno di noi può scegliere liberamente fra il bene e il male. Ma allora che cos'è la grazia? Soltanto l'insieme delle facoltà che Dio ci ha dato e la possibilità di vivere secondo gli insegnamenti di Cristo. All'inizio del V secolo l'eresia pelagiana si è talmente diffusa in Bretagna che il papato si affretta a mandarvi San Germano d’Auxerre, uno dei migliori predicatori del tempo. A forza di controversie appassionate costui riesce a soffocare l'eresia. Il suo successo è totale: i Bretoni infatti ne fanno il vero santo della loro isola. E' così stroncato il peccato bretone: il regno di re Arthur è stato fatto a pezzi per avere ceduto alle attrattive dell'eresia, ma il ritorno alla vera dottrina cristiana gli permetterà di rivivere. Questo ritorno tuttavia non sarà privo d’inconvenienti. Lo spirito celtico è troppo ricco d’immaginazione per non continuare a mescolare fra loro le esigenze della fede cristiana e la leggenda pagana. Mescolanza che si ha l'occasione di trovare, ad esempio, nella personalità di Re Arthur.

Il leggendario Re Artù

Egli compare per la prima volta nella leggenda celtica con il nome di Herla. Eccone la storia: ferito in combattimento, è rimasto imprigionato per tre secoli sotto una montagna (di qui il soprannome di Re della montagna); il suo paese è completamente distrutto. Un giorno, nella sua prigione sotterranea arriva uno straniero che lo interroga a lungo. Ora, questo straniero ha il potere, se lo vuole, di pronunciare le parole che permetteranno a Herla di ritrovare il suo regno. Ma le parole della salvezza non sono pronunciate e il re rimane nella sua prigione. Due sono i temi qui mescolati: quello della redenzione, nelle parole che salvano, e quello della leggenda. Ancora più notevole è il riferimento alle leggende celtiche nell'opera di Chrètien de Troyes e di Robert de Boron, per ciò che riguarda l'episodio del corteo del Graal. E' una strana processione: a questo punto del poema non si conosce esattamente che cosa sia il Graal; né meglio si capisce perché a portarlo, per il poeta della Champagne, debba essere una fanciulla; né si hanno precisazioni sulla lancia scintillante dalla quale scende una goccia di sangue. Questo episodio esprime clamorosamente fino a che punto Chrètien de Troyes fosse diviso tra il desiderio di adattare al gusto francese una vecchia leggenda celtica e la volontà di cristianizzare la storia. Vero è che anche nella sua vita quotidiana alla corte di Maria di Champagne il poeta assisteva ad una specie di confronto tra paganesimo e cristianesimo. Si sa che l'incarico di scrivere il racconto del Graal è stato dato al poeta da Filippo di Fiandra. Ora, il padre di Filippo, Thierry, aveva avuto un ruolo importante nelle crociate, da cui aveva ricondotto l'ampolla contenente il sangue di Cristo (quest'ampolla si trova oggi a Bruges). Imbevuto di racconti favolosi riferiti dai Crociati, Filippo (che morirà in Palestina) ha esercitato dunque un'influenza determinante su Chretien de Troyes. Ma Maria di Champagne, fidanzata di Filippo, aveva, come del resto sua madre, Eleonora d'Aquitania, un vivo interesse per i racconti di Bretagna, ossia per le leggende celtiche. Al poeta, posto nel punto di confluenza di queste due correnti, spettava il compito di riunirle in un unico e identico fiume. Così la famosa scena della processione del Graal, per una grandissima parte non è altro che un richiamo ai riti d'iniziazione e d’investitura del sovrano, come li descrive la mitologia celtica. Ecco, ad esempio, ciò che sta scritto in uno dei più antichi racconti celtici: gli aspiranti alla carica suprema dovevano camminare su questa pietra, la quale indicava il vincitore gettando un grido, come supremo sovrano d'Irlanda. Egli s'imbatte in un cavaliere misterioso che altri non è che il dio Lug; questi invita Conn nel suo palazzo e quivi, seduta su un trono di cristallo, una giovane donna, con il capo cinto da una triplice corona d'oro, tiene presso di sé tre coppe piene di una bevanda divina. Questa giovane donna incarna la sovranità dell'Irlanda. Prima di invitare Conn a bere, domanda a Lug: A chi devo dare la coppa? E Lug indica Conn, poi pronuncia i nomi di tutti i suoi discendenti che, a loro volta, diventeranno re d'Irlanda. Finalmente Lug e la giovane donna scompaiono e Conn rimane solo con la coppa che gli è stata offerta e che è il simbolo del suo potere. La trasposizione operata da Chrètien de Troyes appare chiara: Lug diventa il Re-Pescatore, la giovane donna sarà la portatrice del Graal e Conn si identificherà con Perceval. Questo per il contributo celtico. E l'apporto cristiano?

L'influsso cristiano

Dapprima sembra essere quello di un'eresia: oltre alla pelagiana il nestorianesimo (che in particolare ammette una duplice natura di Cristo, corporale e spirituale), che ebbe un certo successo in Bretagna. In alcune comunità cristiane inoltre le donne erano autorizzate a distribuire la comunione. Il che spiegherebbe come mai, nell'opera del poeta della Champagne, sia una donna a portare il Graal. Ma resta strana l'apparente indifferenza con cui i presenti assistono al passaggio del Graal e della sua processione. Nel 1180, data del racconto del Graal, la dottrina della chiesa nei confronti dell'Eucaristia non è ancora ben definita; lo sarà soltanto trent'anni più tardi, in occasione del concilio Laterano. I fedeli che si comunicavano consumavano in ogni messa tutto il pane e tutto il vino che erano stati consacrati. In questo modo si rievocava esattamente la Cena. Solo nel XII secolo, dopo aspre controversie teologiche, si giunse ad ammettere che Cristo era realmente presente nel pane e nel vino anche indipendentemente dal sacrificio della messa. L'immagine del Graal che ci è offerta da Chrètien de Troyes sembra riprodurre fedelmente l'evoluzione che sta verificandosi nella sua epoca. Siamo a qualche anno di distanza dal concilio Laterano e la nuova concezione dell'Eucaristia sta venendo alla luce, tanto che lo splendore accecante che sembra scaturire dal vaso portato dalla fanciulla prefigura quegli ostensori che ben presto si troveranno sugli altari. Quando Robert de Boron scrive a sua volta Il Santo Graal, la rivoluzione liturgica è praticamente compiuta: la sua descrizione della processione religiosa è infatti già immersa in un’atmosfera di fervore e di raccoglimento. Infine, Chrètien de Troyes si scaglia precisamente contro l'eresia pelagiana. Quando, dopo aver ritrovato il cammino di Dio, Perceval si reca dall'eremita, questi esclama: Il peccato ti ha tagliato la lingua quando vedesti passare davanti a te il ferro che mai si asciugò (allusione alla lancia nel corteo del Graal), e tu non cercasti di conoscerne il motivo. Insomma, il giovane cavaliere si ritrova con una specie d’incapacità morale; non può comandare alla sua volontà, perché è schiacciato sotto il peso di un errore. Incapace d’articolare parola o di muovere un gesto che dimostri il suo interesse nei confronti del Graal, simbolo della fede cristiana, Perceval rappresenta l'impotenza dell'uomo privo dell'aiuto divino. Per guarire il re ferito, per salvare il regno di Re Arthur, infine per provocare un miracolo, a Perceval si chiedeva poco: una semplice prova di buona volontà. Ma, per l'appunto, egli non poteva dare questa prova perché si trovava in stato di peccato. Per salvarsi, e per salvare gli altri, il libero arbitrio non è dunque sufficiente, come pretende di sostenere l'eresia pelagiana. E a questo proposito sia Chrètien de Troyes che Robert de Boron riflettono bene la rigorosa ortodossia cristiana. Ma in confronto al suo predecessore, Robert de Boron ha avuto il vantaggio di soggiornare in Bretagna, molto probabilmente nella celebre abbazia di Glastonbury.
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