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Il “castrum” di carcari in un territorio a vocazione estrattiva la Toponomastica


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IL “CASTRUM” DI CARCARI IN UN TERRITORIO

A VOCAZIONE ESTRATTIVA

La Toponomastica
E’ difficile localizzare l’antico “Castrum” (Rocca) di Carcari a causa della solita scarsità di documenti e di significative risultanze archeologiche. Le origini di questa Rocca risalgono al medioevo ed è appunto da un documento di quel tempo che veniamo a conoscere la sua posizione topografica. Si tratta del noto atto1 di compravendita del 1349 tra il Prefetto Giovanni di Vico e Nerio di Tolfa Nuova (la Tolfaccia) da cui risulta che Carcari confinava col territorio dei seguenti Castelli: a Sud S. Severa, ad Est il Sasso, a Nord-Ovest Tolfa Nuova e a Nord-Est monte Castagno. Il riscontro moderno al documento medioevale può essere eseguito osservando la carta dell’I.G.M. (f. S. Severa, 143 III S.O.) laddove, sul territorio posto a Nord di S. Severa, si possono osservare due toponimi: “Pian Calcari” e “Il Castellaccio” che non sono altro che la memoria cartografica dell’insediamento medievale.

In corrispondenza del toponimo “Pian Calcari” (a Nord dell’attuale frazione di Tolfa che è S. Severa Nord) è stata riconosciuta un’antica discarica di anfore, tegole e mattoni d’epoca romana da mettere in relazione ad una “figlina” rustica, storicamente accostabile alla fabbrica romana di laterizi della “Massa Liciniana”2 . Va aggiunto che l’edizione 1950 dell’I.G.M. (f. S. Severa) riporta presso “Pian Calcari” i resti di una fornace di laterizi da collegare probabilmente alla cava di argilla rimasta in funzione fino a qualche decennio fa. Nella zona in esame è rinvenibile ceramica d’epoca romana ed è ancora visibile uno (foto n.1) sperone di un antico muro che è il documento archeologico utile ad avanzare l’ipotesi dell’identificazione con il “Castrum” medievale del quale si traccia il seguente profilo storico (foto n.2).

Va anche considerato che a Nord di “Pian Calcari” è posto l’altro toponimo quello de “Il Castellaccio” caratterizzato da una collinetta che presenta due cime racchiuse da una folta macchia mediterranea. Nella cima più bassa, nascosto da lentischi, cerri e olivastri, emerge un muro largo circa 1,50 metri, costruito con pietra locale e cementato con calce magra e molto scadente, che attraversa la cima del colle (foto n.3) da Nord a Sud. Nei pressi del muro si possono notare alcuni blocchetti di tufo decisamente estranei alla natura del terreno. Sembrerebbe un muro perimetrale di qualche costruzione, ma in effetti i circa 2 metri di altezza sono alquanto anomali per un “Castrum” medievale. Se l’antica Rocca fosse da rinvenire in questi luoghi, sarebbe opportuno rivolgere l’indagine sull’altra cima del colle, quella più alta, presso cui però non emerge nessun elemento archeologico. In conclusione, allo stato dei fatti, l’ipotesi avanzata dell’identificazione con lo sperone di muro posto a “Pian Calcari”, sembra la più verosimile.

Da una ricognizione di superficie sono rinvenibili frammenti d’epoca romana e sono state trovate due scorie di fusione di ferro.

Tutto l’insieme avalla la vocazione estrattiva dell’intera zona, presso cui predomina la calcite, minerale utilizzato per le antiche “Carcare” (dove si cuoceva la pietra calcarea per produrre la calce idrata). Probabilmente è proprio dalle “calcare” che il “Castrum” prese il nome. Appartengono a questo territorio altri due toponimi significativi: “Le Cavarelle” e “Monte dei Pozzi” che convalidano questa vocazione.

Di certo tutta l’area esaminata è cosparsa di materiale calcareo che probabilmente ha dato il nome al “Castrum”. Come ricorso storico, a Est de “Il Castellaccio”, in prossimità di “Pian Sultano”, attualmente è in attività una cava di caolino di proprietà dell’Italcementi mentre a Sud di “Pian Calcari”, nei pressi di S. Severa Nord, è in funzione un impianto per la trasformazione del caolino.

Negli anni 50 era in attività una miniera di caolino della quale era concessionaria la Società Nazionale del Caolino.

Il caolino era utilizzato nell’industria della ceramica, per la fabbricazione di porcellane, e terraglie e in quella della carta.


PROFILO STORICO
La prima menzione di Carcari risale al 1066: il Conte Raniero, figlio del Conte Sassone, e sua moglie Stefania donarono all’Abbazia di Farfa la chiesa di S. Lorenzo con tutte le sue pertinenze3. Nel documento è detto che era: “positam in Comitatu Centumcellensi, iuxta mare magnum, in loco qui vocatur Heriflumen qui vulgo dicitur Gerflumen. Ipsam ecclesiam quae vocatur S. Laurentii in territorio quod vocatur Carcari, cum finibus suis et vines, terris, pascuis....”4. La menzione di Carcari in questo documento farebbe pensare non tanto ad un “Castrum” quanto a un toponimo indicante un territorio di tale denominazione, è infatti espressamente detto: “in territorio quod vocatur Carcari”.

Probabilmente la costruzione del “Castrum” è avvenuta più tardi ad opera di una di quelle famiglie che emersero, o tentarono di emergere, durante il disordine politico in cui versava lo stato della Chiesa. In effetti durante l’XI secolo, col cessare delle incursioni saracene, tutto il litorale situato a Nord di Roma andò ripopolandosi e fu oggetto di numerose contese.

E’ durante questa fase storica che l’Abbazia di Farfa5 giunse a controllare tutta la costa che va dalla foce del Mignone fino a S. Severa, mediante restituzioni e donazioni di beni. Pertanto è probabile che anche il territorio di Carcari fosse controllato dalla stessa Abbazia e appartenesse al “Comitatu Centumcellensis” cioè al territorio spettante alla diocesi di “Centumcellae”.



Comunque il primo documento che menziona espressamente il “Castrum” di Carcari risale al 11306 Innocenzo II, per un prestito di 200 denari papiensi concesso da Pietro Latro, gli cedette in pegno le Rocche di Carcari e del Sasso, metà di Civitavecchia e “Gobitam” ed il casale “quod dicitur vulgare”. (odierno casale “smerdarolo”).

Il pignoramento fu confermato da Alessandro III (1159-1181) e poi riscattato da Celestino III nel 1193 che pagò 200 once d’oro ai discendenti di Pietro Latro7.

La successiva notizia è del 1288: un certo Rinaldo da Carcari figura come testimone ad alcuni signori di Tolfa Nuova quando questi si aggiudicarono dal Comune di Corneto il diritto di pesca nel fiume Mignone, dal ponte di San Martino fino al mare8.

Con la fine della potenza farfense, Innocenzo III (1198-1216) concesse i beni dell’Abbazia al monastero di S. Paolo di Roma, tra questi anche la Rocca di S. Severa già in possesso del Monastero dal 1130, ad opera dell’antipapa Anacleto II. Infatti nella conferma di beni del 15 Maggio 1218 di Onorio III si legge: “Castrum Sancte Severe cum Ecclesia et pertinentis suis”9. Anche se non documentato, e probabile che Carcari facesse parte delle pertinenze di S. Severa e perciò concesso e appartenuto al Monastero di S. Paolo.

Nella divisione del patrimonio dei Venturini avvenuta il 1 Gennaio 1290 tra Giovanni di Bonaventura e suo nipote Alessio10, sono menzionati le Rocche di S. Severa e di “Carcaro”. E’ probabile che Carcari andasse a Giovanni11. Entrambe le Rocche appartenevano al viterbese Giovanni Tignoso12, già proprietario dal 1251, per averle acquistate dal Monastero di S. Paolo, autorizzato a vendere da Gregorio IX nel 1237 “Castri Carcharis”. E’ menzionato di nuovo nel 1334, in un documento conservato nella biblioteca Vaticana, assieme a Tolfa Nuova, al Sasso, a Monte Castagno e alla tenuta di S. Ansino13.

Dai Venturini, Carcari passò a Stefano dei Normanni, lo stesso (foto n. 5) che nel 1346 aveva accusato di furto Puccio di Nallo da Carcari che fu assolto dalla condanna di pagamento di 500 fiorini d’oro14 (foto n.6).

Il 7 Luglio 1348 Stefano dei Normanni vendette la Rocca di Carcari al Prefetto Giovanni di Vico per la somma di 6.000 fiorini15. L’11 Luglio dell’anno successivo il Prefetto a sua volta la rivendette a Nerio del fu Baldo dei signori di Tolfa Nuova. L’atto di vendita, che fu redatto dal notaio Bartolomeo del fu Nanni di Tolfa Nuova, fu stipulato con la formula “fictum et simulatum et fraudem factum”. Cioè il compromesso fu eseguito con il patto del riscatto mediante il rimborso del prezzo realmente pagato16 .

Carcari passò poi a Pietro di Vico, fratello di Giovanni. Fu contrastato da Francesco e Battista di Vico, da Giovanni detto “Topone”, Domicello” viterbese, di Tolfa Nuova e dal Comune di Roma.

Da quanto si apprende, è possibile dedurre che il territorio di Carcari appartenesse ad una giurisdizione pubblica in quanto vantavano diritti contemporaneamente il Campidoglio, la Prefettura romana e lo stesso Stato Ecclesiastico.

Il Tomassetti riporta che il Senato romano prese le Rocche di Carcari e di Trevignano con la forza delle armi “vi armorum”17.



Il Campidoglio, a garanzia dei suoi diritti ed in accordo col Vicario Papale Filippo, commise l’esame della questione a Giacomo, Vescovo di Spoleto, che però morì senza deciderla. Papa Urbano V (1362-1370), dietro istanza dei Di Vico, chiese al Vescovo di Arezzo di riassumerla in giudizio, ma anche il Vescovo di Arezzo non dovette pronunciarsi in merito se al 30 Ottobre 1377 Francesco di Vico risultava ancora in possesso della rocca. Gregorio XI (1370-1378), eletto arbitro a dirimere ogni controversia tra i Di Vico (Giovanni Sciarra, Lodovico e Francesco) ed il Comune di Roma, nel 1377 sentenziò definitivamente che le Rocche di Carcari, del Sasso e di Trevignano dovessero essere restituite al Comune di Roma18.

E’ singolare constatare come a Carcari non sia documentata alcuna chiesa di sua pertinenza, anche se da una foto pubblicata in “Civitavecchia e il suo entroterra” pag. 130 fg.2, figurerebbero tracce di un affresco attribuibile ad una chiesa. Ulteriore osservazione riguarda l’asserzione dell’Antonelli quando ci informa che sul finire del XV secolo Carcari apparteneva alla diocesi di Sutri.

Dai registri del sale e del focatico risalenti ai primi decenni del XV secolo19 risulta che Carcari veniva tassato per 5 rubbia semestrali per una popolazione calcolabile intorno ad un centinaio di abitanti.

Nel 1433 Eugenio IV, per necessità di denaro contante, ordinò al suo camerlengo di vendere S. Severa ad Everso dell’Anguillara per 1.750 fiorini d’oro20. Nel 1454 lo stesso Everso è espressamente indicato come signore di Monterano, Bieda, Carcari e S. Severa.

Nel 1457 Everso Orsini, Conte di Anguillara, vendette il casale del Sasso al Cardinale Prospero Colonna per 3.000 ducati. Come confini sono menzionati: “tenimenta Sancte Siverre, Carcarj, Montis Castagnj, Sammucj, Castri Cerveterj ed il mare”21.

Il 4 Settembre 1464 morì il Conte Everso dell’Anguillara ed il suo patrimonio fu diviso tra i figli Francesco e Deifobo. E’ probabile che Carcari andasse al più irrequieto Deifobo, assieme a S. Severa, e a metà di Cerveteri e forse ad una parte del Sasso.

Con l’assunzione al pontificato di Paolo II, in un primo momento, i due fratelli aderirono alla politica papale, ma in seguito si ribellarono occupando sia Caprarola e sia Tolfa Nuova. Nel 1465 Paolo II dapprima li scomunicò, poi nel volgere di alcuni mesi allestì un esercito chiedendo aiuto al Re di Napoli. In breve venne abbattuta la potenza dei Conti dell’Anguillara, così il Papa riuscì ad impossessarsi di tutto il loro patrimonio: Cerveteri, Veiano, Carbognano, Ronciglione, Bieda, Vetralla, Caprarola, Monterano, Rota, Tolfa Nuova, Capranica, S. Severa e Carcari. Tutti questi beni passarono pertanto alla Camera Apostolica ed è documentato che nel 1465 la Rocca di Carcari apparteneva per l’appunto alla Camera Apostolica che la gestiva tramite Stefano “De Porris mediolano”22.



Intanto sui Monti della Tolfa era stata avviata dal 1460 l’industria dell’allume che nel giro di pochi anni divenne la più grande industria estrattiva di tutto il Rinascimento.

L’evento, con tutti i suoi risvolti di carattere economico e politico, decretò da una parte la fine di molti insediamenti medievali, dall’altra la fortuna di Tolfa Vecchia (Tolfa attuale).

Per Carcari segnò la fine, infatti nel 1470 Paolo II ordinò la sua demolizione (la stessa sorte avverrà per Tolfa Nuova l’anno seguente ad opera di Sisto IV).

Agli inizi del suo pontificato, Sisto IV concesse l’ormai “diruta” Rocca di Carcari e quella di S. Severa all’Ospedale di S. Spirito in Sassia23.

A garanzia di un mutuo contratto con il Cardinale Guglielmo d’Estouteville, il 14 Ottobre 1478 Sisto IV gli diede in pegno le tenute di Carcari e di S. Severa assieme a Vico, Casamala e S. Ansino ed altre. Nella bolla il Papa dichiarò che le due tenute spettavano all’Ospedale di S. Spirito per sua speciale concessione24.

L’operazione finanziaria si concluse nel 1482 quando il Precettore del S. Spirito riscattò le tenute dal Cardinale25. Così anche la tenuta di Carcari era andata a far parte dell’immenso patrimonio dell’Ospedale. Non solo, nel 1540 il S. Spirito l’ingrandì ricevendo in permuta dalla Camera Apostolica le attuali “Piane S. Lorenzo” assieme a S. Marinella, in cambio donò il Castello di S. Elia26.

La tenuta di Carcari è elencata nella costituzione di Gregorio XIII del 1 Febbraio 1580 dove sono indicati i luoghi che componevano la Dogana dei Pascoli del Patrimonio.

Nel documento risulta che il territorio spettante all’Ospedale di S. Spirito in Sassia era così composto: “Banditella delle larghe”, “S. Pupa” (odierna Manziana), “Le Pietricelle”, “Laiola”, “Campo Maggiore”, “La Selvotta”, “Monte Sassone”, “S. Marinella”, “Il Pian di S. Lorenzo”, “S. Ansino” “e Carcari27.



Nel 1660 un apposito Amministratore risiedeva nel Castello di S. Severa e gestiva le tenute di Carcari, Pian S. Lorenzo e S. Severa28.

Come ricorso della vocazione estrattiva della zona, va registrato che nel 1936 furono scoperte nei dintorni di S. Severa giacimenti di caolino. Nella Piana di Monte Ansino in località “Forconcino” furono individuati giacimenti di argille caoliniche per una superficie di circa 800 ettari. Inoltre in località “Scaglia”, nel Comune di Tolfa, venne scoperta della trachite caolinica nonché marmo bianco di ottima qualità. Lo sfruttamento di questi due giacimenti iniziò nell’Ottobre 193629.

Il Pio Istituto del S. Spirito ha gestito le sue tenute fino agli anni 1977-78. A seguito di una serie di provvedimenti legislativi, il S. Spirito è stato sciolto e i suoi beni sono passati alle Provincie e ai Comuni.

Attualmente i territori corrispondenti ai toponimi “Pian Carcari”, “Il Castellaccio”, “Le Cavavelle”, “Pian Sultano” ed altri sono di proprietà del Comune di Tolfa (foto n.4) fino a pochi anni fa li gestiva tramite l’Azienda Agricola Speciale Zootecnica. A tutt’oggi l’Azienda è stata sciolta e i suddetti territori sono gestiti direttamente dall’Assessorato competente.


CONCLUSIONI

Con l’aiuto della toponomastica e della documentazione pervenutaci, abbiamo avanzato l’ipotesi, senza avere la pretesa di essere stati esaustivi, che il medievale “Castrum” di Carcari si possa identificare con lo sperone di muro antico che giace sopra un banco di caolino e trachite. La continuata estrazione ha probabilmente cancellato le restanti strutture della Rocca. Questo antico rudere si trova a Settentrione della frazione di Tolfa che a S. Severa Nord.

Ancora a Nord, avanzando nell’entroterra, si può notare il toponimo “Castellaccio” che corrisponde forse non tanto ad un castello distrutto o abbandonato, come vorrebbe la tradizione, quanto ad una struttura muraria utilizzata come recinzione di un deposito o accumulo di materiale (non casualmente e proprio ai margini di questa struttura che abbiamo raccolto il bel minerale di calcite della foto).

Dall’esame della documentazione raccolta per questa monografia, ci sembra che si possa dedurre quanto segue: in primo luogo è verosimile accostare il territorio circostante alla Rocca con la romana “Massa Liciniana” che comprendeva la documentata fabbrica di laterizi (sarebbe un bel passo in avanti per la conoscenza complessiva della “Massa”); è rilevabile un vero e proprio ricorso storico in epoca moderna della destinazione del territorio, infatti l’attività estrattiva, iniziata quanto meno nel periodo romano, non si è ancora esaurita e ancora oggi è operante una cava di caolino ed un impianto per la sua trasformazione; Carcari non comprendeva soltanto la Rocca, ma disponeva anche di casali tuttora riconoscibili in parte; infine, attraverso il consumo del sale, si può calcolare intorno ad un centinaio il numero dei suoi abitanti.

Carcari ha seguito, per gran parte, le vicende della vicina S. Severa, e la sua storia può essere così sintetizzata.

Costruita probabilmente intorno all’XI secolo, la Rocca è espressamente menzionata per la prima volta nel 1130. Forse appartenne al Monastero di S. Paolo che la vendette al viterbese Giovanni Tignoso e da questi al romano Giovanni di Bonaventura. Nel secolo XIV figura appartenuta a Stefano dei Normanni a cui subentrò la potente famiglia dei Di Vico, prima con Giovanni e poi con Francesco.

Nel 1377 fu risolta a favore del Comune di Roma la vertenza giuridica sull’appartenenza della Rocca di Carcari, segno di un rilevante motivo economico.

Dovette poi pervenire alla Camera Apostolica e successivamente alla potente famiglia degli Anguillara.

Con Paolo II ritornò alla Camera Apostolica per essere fatta demolire dallo stesso Papa nel 1470.

Così la Rocca divenne una tenuta con il conseguente cambio di destinazione e come tale fu concessa all’Ospedale di S. Spirito in Sassia.

Data in pegno da Sisto IV al Cardinale d’Estouteville, fu riscattata dal S. Spirito tramite il suo Precettore.

Sciolto il S. Spirito in questi ultimi decenni, la tenuta di Carcari è passata al Comune di Tolfa, attualmente proprietario.

Insomma le vicende storiche della Rocca di Carcari sono analoghe a quelle di tanti altri insediamenti medievali, si distingue soltanto per la sua singolare denominazione che fa pensare indubbiamente allo sfruttamento del materiale calcareo. Va anche osservato che forse sin dall’epoca romana il suo territorio dovette far parte di un “Ager” pubblico e come tale conteso, nel medioevo dai rappresentanti dell’apparato istituzionale come la Prefettura romana, il Comune di Roma e lo stesso Stato Ecclesiastico.

Fra una coltivazione estrattiva ed un’altra, soprattutto dell’argilla e del caolino, il territorio è stato sfruttato anche come tenuta agricola-zootecnica, ma chiaramente i popoli antichi (anche prima dei romani) sono stati attratti da questo luogo per la sua principale vocazione, che per l’appunto è quella estrattiva.


Antonio Berardozzi

Giuseppe Cola
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1 C. Calisse: I Prefetti di Vico, in A.S.R. S.P. X, n. 38, pag. 486, CI e CIB, anche pag. 80 nota 3.

2 I Licini, probabilmente discendono da un Licino che fu liberto di Augusto. Furono rinomati per le loro enormi ricchezze come testimonia Giovenale nella satira XIV, 305: <... Dispotis praedives amis vigilare cohortem servorum noctu Licinus iubet, ottonitus pro electro signisquae suis Phrjgiaque colomna, atque ebore et lata testudine (il ricchissimo Licino, di notte, tiene sempre una coorte di servi coi secchi in mano, ansioso per la sua ambra, le statue, le colonne di frigia, i suoi avori, e le sue due grandi tartarughe). I Licini vantano personaggi illustri che hanno preso parte attiva nella storia di Roma. Annoverano anche due Imperatori: Licino Valeriano e suo figlio Pubblio Licino Gallieno. Valeriano regnò per brevissimo tempo mentre Gallieno, divenuto Imperatore nel 253, regnò per 15 anni. Gallieno combatte vittoriosamente contro i Sarmati e gli Sciti, popolazioni provenienti dal Nord. Vietò ai senatori il servizio militare, fu ucciso dai suoi legionari. Presso “Castro Novo” (odierna Torre Chiaruccia) sono state recuperate due epigrafi dedicati una all’imperatore Licino Gallieno, l’altra a Pubblio Cornelio Licino Valeriano.

La Massa Liciniana - La “Massa”, che trae la sua origine in epoca romana, consiste in un insieme di fondi tra loro confinanti, ed è accompagnata dal nome della famiglia proprietaria dell’intero fondo o del più importante. Nel caso in esame la “Massa Liciniana” prende il nome della famiglia dei Licini che l’ha gestita forse più a lungo. Anche altre famiglie patrizie, che spesso erano imparentate con quelle imperiali, hanno gestito la “Massa Liciniana”, oltre ad essere costituita da vari latifondi chiamati “Praedia Liciniana”, doveva comprendere anche una fabbrica di laterizi, con il “tegolarium” cioè il luogo in cui venivano depositati i manufatti della fabbrica stessa. Le documentazioni non consentono ancora di identificare completamente la “Massa Liciniana” nè di determinare con precisione la sua estensione, tuttavia la probabilità più concreta e che fosse localizzata nell’entroterra pirgense nei pressi dell’attuale Pian Calcari fino a comprendere il fosso “Rio Fiume”, in un territorio allora pertinente alla romana “Centumcellae” (odierna Civitavecchia). Il periodo di maggiore produttività della fabbrica va dal II al III secolo d.c. quando cioè è maggiore l’incremento urbanistico e demografico di “Centumcellae” e più agevoli sono le condizioni all’interno dell’Impero. L’importanza della “Massa” dovette diminuire, se non addirittura scomparire, a seguito delle incursioni barbariche e al conseguente crollo dell’Impero Romano d’Occidente (476 d.C.). Dopo l’incoronazione di Teodorico a Re d’Italia (491 d.C.) e alla nascita della dominazione Ostrogota l’intera penisola ebbe una rinascita economica che fece seguito a decenni di invasioni, guerre, saccheggi e pestilenze. E’ in tali disordini che, su ordine del Re Teodorico, l’allora Primo Ministro Cassiodoro, rivendicò l’intera “Massa Liciniana” che evidentemente era considerata di dominio statale. Emise un editto col quale l’espropriava a privati occupanti e la riattivava per la produzione di 25.000 tegole e mattoni all’anno occorrenti per le riparazioni delle mura di Roma. Dopo che la chiesa, da semplice gestore di latifondi si era trasformata in una vera entità politica e amministrativa (VII-VIII), i Papi avocarono tutti i beni di dominio statale situati nel “Patrimonio Sancti Beati Petri”. Così anche i latifondi della “Messa Liciniana” divennero una proprietà pontificia e come tali furono infeudati a privati. Noto è il documento dell’854, in cui Leone IV concesse al Monastero di S. Martino, presso cui aveva studiato, i beni che possedeva il Monastero di S. Sebastiano nel territorio di “Centumcellae”, tra essi la chiesa con l’annesso Oratorio di S. Lorenzo: Massa quae appellatur Liciniana, qui et Genufluvio (odierno Rio Fiume) nuncupatur, in quo est Oratorium S. Laurentii, cum fum qui dicitur Casaria, cum omnibus ad eundem generaliter pertinentibus, positam in territorio Centumcellensi.... Con questo documento termina la menzione della “Massa Liciniana”, il nome probabilmente scompare a seguito delle incursioni saracene e l’inevitabile spopolamento di tutta la costa laziale a Nord di Roma.

3 I resti della chiesa di S. Lorenzo sono identificabili sopra a una modesta altura che sovrasta le “Piane di S. Lorenzo” a nord di S. Severa (IGM S. Marinella 142 II S.E.). La collinetta e denominata localmente “La Chiesaccia”. Sono ignote le origini della chiesa di S. Lorenzo, probabilmente venne edificata su di una precedente struttura romana andata distrutta o abbandonata, vista la grande quantità di materiale che è rinvenibile. Ai fini del suo nome e delle sue origini sarebbe interessante ricostruire il viaggio fatto da S. Lorenzo Siro, Vescovo della Sabina, che fuggito in Italia perché perseguitato dall’imperatore Ariano, Anastasio I (491-518), avrebbe poi fondato l’Abbazia di Farfa. (Cfr. G. Cola: La Chiesaccia, in la “Goccia” n. 18, 1987; A. Berardozzi & G. Cola: S. Maria sul Mignone in Bollettino S.T.A.S. 1996, pag. 161).

4 I. Giorgi-U. Balzani (a cura di) Il regesto di Farfa di Gregorio di Catino, Biblioteca della S.R.S.P. Roma 1879-1892 Vol. IV, doc. 990; U. Balzani (a cura di) Il Chronicon Farfense di Gregorio di Catino, in fonti per la storia d’Italia, 1903, C. Calisse Storia di Civitavecchia, Arnaldo Forni Editore, pp. 741-742.

5 L’Abbazia di Farfa fu fondata, secondo la leggenda, da S. Lorenzo Siro intorno al 550. Fu distrutta dai Longobardi seguendo la stessa sorte dell’Abbazia di Monte Cassino. Verso la fine del VII secolo venne ricostruita per merito del Duca Longobardo Faroaldo da Spoleto che vi mandò dei monaci Franchi guidati da Tommaso da Morienna. La rinata Abbazia si pose sotto la tutela prima dei Re Longobardi poi, a seguito della loro fine, sotto gli Imperatori Franchi e Tedeschi, riuscendo a farsi donare vastissime proprietà fondiarie sia nella Tuscia, sia nella Campagna e sia nelle Marche. Il convento imperiale di Farfa era allora uno dei più belli d’Italia. Cinque basiliche minori circondavano la chiesa principale consacrata alla Vergine. All’interno e all’esterno si innalzavano numerosi porticati (arcus deambulatori) destinati al passeggio dei monaci e una cinta di mura turrite circondavano l’intera Abbazia rendendola simile a una città. Nell’890 fu conquistata dai Saraceni che vi posero il loro quartiere generale. Una banda di briganti cristiani la incendiò, così per circa trent’anni si ridusse ad un cumulo di rovine. Venne poi ricostruita nel 930 dall’Abate Ratfredo, che dopo qualche tempo fu assassinato da due suoi monaci: Campone ed Ildebrando. Quest’ultimi, figli del loro tempo, si dettero a una vita dissoluta e divennero nemici; Campone divenne Abate di Farfa ed Ildebrando fu scacciato. L’Abbazia riacquistò nel giro di pochi anni la massima importanza, per circa due secoli ingrandì i suoi possedimenti, ma durante il XIII secolo, con il mutare dei tempi, perse gran parte dei suoi beni e d’importanza politica-economica. (F. Gregorovius Storia di Roma nel medioevo edizioni Colosseum 1988).

6 C. Calisse: Storia..... op. cit. pag. 107 e seg.

7 G. Tomassetti: La campagna Romana, Banco di Roma 1976, Vol. II, pag. 659.

8 P. Supino: (a cura di) La Margarita Cornetana Regesto dei Documenti. Miscellanea S.R.S.P. Roma 1969, pag. 75.

9 cfr. P. Trifone (a cura di) Le carte del Monastero di S. Paolo dal sec. XI al XV sec. in A.S.R.S.P. Vol. XXXI pag. 297; G. Tomassetti op. cit. Vol. II, pag. 657; G. Silvestrelli: Lo statuto feudale dell’Abbazia di S. Paolo in “Roma”, I, 1923, pag. 423.

10 G. Tomassetti: op. cit. Vol. II, pag. 657.

11 Secondo il Tomassetti i Venturini deriverebbero dalla famiglia romana dei Bonaventura. Al contrario per lo studioso senese Mario Borracelli, i Venturini apparterrebbero ad una famiglia di commerrcianti senesi.

12 I Tignosi appartenevano alla famiglia omonima viterbese, forse provenienti da Magonza. La prima loro menzione risale al 1091 e riguarda un certo Giovanni Tignoso o Tignuso. I Tignosi erano alleati alla famiglia dei Cocco ed il loro partito era denominato dei “Magonzesi” che si contrapponeva al partito dei Brettoni capeggiato dalle famiglie Gatti e Alessandro. Durante la prima metà del XIII secolo i Tignosi avevano avuto aiuti, protezioni e beni dal Comune di Roma.

13 Il Casale di S. Ansino si trova a Nord delle ritrovate “Acquae Ceretane”,sopra ad una modesta collina che farebbe presumere ad un utilizzo precedente, e oggi giace sotto la giurisdizione dell’Università Agraria di Tolfa. Da una ricognizione di superficie si può constatare che nell’area dell’intera tenuta sono individuabili delle delimitazioni perimetrali di numerose ville d’epoca imperiale cui fa probabilmente riferimento Rutilio Namaziano (De Reditu suo Lib. I, 22). Sono estremamente interessanti e dotate di magnifici marmi quelle situate a “La Legarella” (un piccolo sbarramento nel fosso, per utilizzare le acque come forza motrice). Queste ville sono in balia dei clandestini e andrebbero studiate, catalogate e quindi valorizzate insieme ai resti di fornaci presenti nei dintorni. Oltre a queste strutture si possono riconoscere numerose tombe, sempre violate da clandestini. La storia della tenuta è finora completamente sconosciuta, con questa nota abbiamo raccolto le prime notizie onde poter tracciare un preliminare profilo storico. Nel 1312 fu soppresso l’Ordine dei Templari e la maggior parte dei suoi beni passò all’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme che era stato fondato intorno al 1048 da mercanti d’Amalfi che edificarono un Ospedale su di un pezzo di terra concesso dal Califfo d’Egitto. L’Ospedale che serviva da ricovero ai pellegrini fu dedicato a S. Giovanni Battista. Il Priorato venne posto presso la chiesa ed il Palazzo di S. Basilio al Foro di Nerva. Nel 1334 fu compilato presso il Priorato l’inventario dei beni dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme e tra i suoi fondi e detto: “item fines tenimenti Castri Saxi quod pertinent ad dicitum hospitale, a duabus lateribus tenet Alexius Bonaventure, a tertio tenimenti Castri Carcharsi, a quarto tenimentum Castri Montis Castanee, a tenimentum Tulfe Nove, quod est in semente inter terras et silvas VI rubla et in...”, che il Silvestrelli così completa e traduce i “tenimento del Sasso, confinante coi territori di Castel del Sasso, Carcari, Monte Castagna (o) e Tolfa Nuova. Nell’inventario è lasciata in bianco la superficie, ma dai confini sopraddetti si vede che il fondo corrisponde esattamente alla tenuta di S. Ansino, di 408 rubbia, che l’Ordine possedette sino a pochi anni or sono”. (G. Silvestrelli in Rendiconti della Reale Accademia dei Lincei, Serie quinta, Vol. XXVI, Roma 1937). La tenuta di S. Ansino dovette pervenire poi alla Camera Apostolica se da questa fu acquistata, assieme alla tenuta del Castello del Sasso del quale seguirà le vicende da Stefano di Francesco Crescenti per la somma di 1.025 ducati d’oro. Il 4 Settembre 1474 fu data disposizione che il debito contratto da Stefano con la camera apostolica fosse ridotto di un quarto in quanto aveva obbedito all’intimazione di restituire un quarto delle due tenute. Il debito dovette essere estinto nel giro di pochi anni se il 14 Settembre 1478 le tenute furono date in pegno al Cardinale Estouteville. (G. Tomassetti: op. cit. Vol. II, pag. 660).

14 Non è noto chi le riscattò, probabilmente la stessa Camera Apostolica, è invece documentato che a Ceccolella, vedova di Renzo Stefaneschi, il 6 Giugno 1483 le furono concessi, a carico della “Dohana pecudum”, 100 scudi l’anno per i frutti delle due tenute in “Ratione octave partis dicte tenute” (il 2 Ottobre 1483 fu venduta la metà del Sasso all’Ospedale di S. Sisto presso Ripa Grande, l’altra metà alla Camera Apostolica). Resta un certo vuoto documentario interrotto nel 1580, quando la tenuta di S. Ansino è elencata tra i beni appartenenti all’Ospedale di S. Spirito in Sassia. Ma probabilmente la tenuta di S. Ansino dovette ritornare nelle mani dell’Ordine di S. Giovanni di Gerusalemme. In epoca moderna, il 17 Luglio 1834 il direttore del censo del Governo Pontificio certificò che le seguenti tenute, pur essendo annotate sotto la Delegazione di Civitavecchia e Viterbo, non sono mai state distaccate dall’Agro Romano: Zambra, Palo, Montetosto, S. Ansino, S. Severa, S. Marinella, Ceri (per la tenuta detta “li Monteroni di sotto” e Carlotta con il quarto di Manziana, Valle Connetta, Sasso, Castel Giuliano, Cerveteri (per la tenuta di Campo di Mare e Vallerana). Sempre in epoca moderna troviamo la tenuta di S. Ansino in possesso dei Marchesi Patrizi, per una estensione di 737.62 ettari, che l’avevano avuta in enfiteusi dall’Ospedale di S. Giovanni di Gerusalemme e che poi ne affrancarono il canone. Dovrebbe appartenere ai Marchesi Patrizi la lettera “P” che si trova scolpita su di una serie di cippi di confini posti lungo un muro a secco situato a Sud de “La Casermetta Forestale”. Da un lato è scolpito il numero progressivo, dall’altro lato, oltre la “P”, e scolpito l’anno 1840 e sopra la linea direzionale del confine, sono stati rilevati inoltre i numeri 19-25-27-28 e 29 posti ad una distanza di circa 50 mt. Sicuramente questi numeri scolpiti sono la ripetizione moderna di quelli situati presso il “Sasso della Strega”: XXIV-XXV seguite nel tempo da quelli situati a “Grasceta Tonda” e “Tittarella”.

15 “Instrumentum venditionis Castri Carchari cum Rocca domibus et casalibus eiusdem, facte per dum Stephanum Normandum de Normandis de Urbe Procuratorem magnifici d.ni Lucei Francisci Ravennatensis de Urbe, magnifico viro d.no Johanni De Vico Alme urbis praefecto pro pretio 6.000 flor. “ C. Calisse: I Prefetti.... op. cit. pag. 486.

16 Poco tempo dopo il Prefetto rivedette la Rocca a Nerio del fu Baldo dei signori di Tolfa Nuova per il prezzo di 3.000 fiorini, sebbene nello istromento “fictum et simulatum et fraudem factum”, si dicesse venduto per 6.000 fiorini “ne timore maiores pretii et valoris dicte rei vendute irritaretur ipsa venditio”. La vendita si fece con il patto del riscatto. Alla Rocca si danno questi confini: “ab alio latere positum est tenimentum Tulfa Nove....”. C. Calisse: op. cit. pag. 487 doc. C1 Bis.

17 G. Tomassetti: op. cit. Vol. II, pag. 212.

18 M. Antonelli: Vicende della dominazione Pontificia nel Patrimonio di S. Pietro in Tuscia dalla traslazione della sede alla restaurazione dell’Albornoz in A.S.R.S.P. 1902-1903-1904, pag. 328, nota 3.

19 Sul consumo del sale cfr. G. Tomassetti: Del sale e del focatico del Comune di Roma nel medioevo in A.S..R.S.P. XXI, 1897; G. Pardi: La popolazione nel distretto di Roma sui primordi del Quattrocento in A.S.R.S.P. 1926; G. Cola:I monti della Tolfa nella storia - La Tolfaccia e Forum Clodi, Tolfa 1984.

20 G. Tomassetti: op. cit. Vol. II, pag. 659 e seg.

21 G. Tomassetti: op. cit. Vol. II, pag. 560.

22 R.I.S., Vol. II, 16, pag. 133, nota 2.

23 G. Silvestrelli: Città, castelli e terre della regione romana, Roma 1940, pag. 24.

24 Ibidem.

25 G. Silvestrelli: op. cit. pag. 23.

26 G. Tomassetti: op. cit., vol. III pag. 209 nota D.

27 C. De Cupis: Le vicende dell’agricoltura e della pastorizia nell’Agro romano, Roma 1911, pag. 183 e seg.

28 G. Tosi: Cenni di storia di S. Severa, Roma 1880.

29 G. Tomassetti: op. cit. Vol. II. pag. 658.


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