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Feudi e feudatari in Trexenta (Sardegna meridionale) agli esordi della dominazione catalano-aragonese


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“RiMe. Rivista dell’Istituto di Storia dell’Europa Mediterranea”, n. 4, giugno 2010

Feudi e feudatari in Trexenta

(Sardegna meridionale) agli esordi della

dominazione catalano-aragonese

(1324-1326)
Antonio Forci

1. La Trexenta nel corso della spedizione dell’infante Alfonso
Quando l’infante Alfonso sbarcò nel golfo di Palmas, sulla costa sulcitana, per prendere possesso del nuovo «Regnum Sardiniae et Corsicae»1, la Trexenta, ex distretto amministrativo del giudicato di Cagliari, si trovava sotto il controllo diretto di Pisa. Ciò quale esito di una complessa serie di vicende che portò la repubblica dell’Arno ad estendere il suo dominio da un capo all’altro dell’isola. Basti ricordare che il giudicato filogenovese di Cagliari fu abbattuto nel 1257-58 da una coalizione militare formata dal Comune di Pisa e alcuni personaggi di spicco della nobiltà toscana legati al Comune da profondi interessi. Tra questi erano il giudice di Gallura Giovanni Visconti, figlio del podestà di Pisa Ubaldo, e il giudice d’Arborea Guglielmo di Capraia, le cui famiglie, con un’abile politica di alleanze matrimoniali, si erano inserite nelle dinastie dei regnanti sardi. Presero parte attiva alla spedizione anche Ugolino e Gherardo della Gherardesca, conti di Donoratico, i quali, col titolo di ‘Signori di una Terza Parte del Regno di Cagliari’, si insediarono nelle curatorie di Decimo, Nora, Campidano, Sulcis e nel ricco bacino minerario del Sigerro, dove diedero grande impulso all’attività di estrazione dell’argento2. Con l’eccezione del castello di Cagliari, assegnato a Pisa assieme alle sue appendici, al porto, alle saline e ad alcune fortezze dell’interno, gli altri due terzi del Cagliaritano furono spartiti tra i giudici di Gallura e Arborea, che occuparono rispettivamente la parte orientale e centrale dell’ex giudicato fregiandosi ciascuno del titolo di ‘Signore di una Terza Parte del Regno di Cagliari’3. I limiti di tale spartizione non sono di fatto ben noti, ma è certo che la Trexenta, assieme alle curatorie di Nuraminis, Dolia, Siurgus, Galilla o Gerrei e Barbagia di Seulo, dovette essere compresa nel terzo spettante a Guglielmo di Capraia4. Quale possedimento ultra iudicatum, la Trexenta continuò ad essere annessa all’Arborea anche sotto Mariano II di Bas-Serra, giudice di fatto dal 1264 come tutore del minorenne Nicolò di Capraia, e dal 1273 giudice effettivo per la morte di quest’ultimo5. Cittadino pisano dal 1266, il giudice arborense aveva sottoscritto con la città toscana precisi accordi politici ed economici, tanto che alla sua morte nel 1297 tutti i territori del terzo centrale, compresa la Trexenta, passarono a Pisa per lascito testamentario. Gli anni successivi videro la definitiva soluzione dello scontro armato tra il Comune e quei nobili toscani che, da fuoriusciti, non intendevano rinunciare alle posizioni egemoniche raggiunte nell’isola. Già confiscate le terre del Conte Ugolino e soffocati i tentativi di rivalsa dei figli Guelfo e Lotto, dopo la morte di Nino Visconti anche il giudicato di Gallura e le sue pertinenze cagliaritane caddero sotto la dominazione di Pisa6.

All’inizio del secolo XIV la repubblica dell’Arno si trovò così ad amministrare un territorio vastissimo sul quale però incombeva la minaccia della Corona d’Aragona. Tra il 1307 e il 1309 intercorsero fra le due parti intense trattative diplomatiche nel corso delle quali Pisa, per garantirsi quantomeno il governo del Castello di Cagliari, giunse a proporre la sua sottomissione politica all’Aragona unitamente alla cessione della maggior parte dei suoi possessi sardi. I ripetuti esiti negativi sortiti dalle ambascerie indussero il Comune a rafforzare le difese militari nell’isola, a demolire le fortificazioni che riteneva di non poter difendere, ad assoldare nuove truppe mercenarie, ad ammassare cereali e altre derrate alimentari.

Tuttavia, pur in questo clima di crescente preoccupazione per l’ineluttabile conflitto, Pisa continuò sino all’ultimo ad amministrare i suoi territori sardi con fiscale precisione. Ne sono prova tangibile le cosiddette ‘composizioni’, rilevamenti periodici ordinati con lo scopo di registrare gli introiti, i redditi, i proventi in denaro e in natura dovuti dagli abitanti dei luoghi soggetti al Comune7. La ‘Composizione Sesta’ del 1320-13228, confluita nel Componiment catalano-aragonese del 13589, fotografa la situazione della Trexenta alla vigilia della guerra con l’Aragona: la curatoria comprendeva un totale di 22 ville tra le quali, per quantità di imposte versate, primeggiava Guasila (233 lire e 10 soldi) su Segariu (179.10) e Bangiu de Arili (175.2). Seguono in ordine decrescente Selegas (172.5), Guamaggiore (142.17), Seuni (122.2), Ortacesus (89.2), Arili (88.16), Senorbì (84), Sèbera (56.17), S. Basilio (52.8), Dei (48.8), Bangiu Donico (40.9), Suelli (33.4), Arixi (31.7), Segolay (28), Simieri (27), Siocco (26.3), Donigala Alba (12.17), Arco (11.14), Aluda (7.10) e Turri (4.7)10.

La guerra, sin dalle fasi iniziali, prese subito una piega favorevole alle armi palate tanto che alla fine del 1323 le sorti della repubblica dell’Arno nell’isola apparivano ormai segnate. Con i pisani asserragliati nelle due principali roccaforti della Sardegna meridionale (Villa di Chiesa e Castel di Castro-Cagliari) il territorio dell’ex regno giudicale cagliaritano, in completa balìa degli invasori, fu suddiviso in due vicarìe (vegueries) che facevano capo ad altrettanti vicari generali (veguers generals), ufficiali regi dotati di amplissime ed eccezionali competenze in ambito fiscale, giudiziario e militare, ai quali si doveva obbedienza come alla persona dell’infante. Ad essi Alfonso affidò a suo beneplacito la riscossione dei tributi e ogni tipo di rendita nei territori di pertinenza regia – compresi i diritti a lui spettanti in ragione delle cavalcate compiute dai suoi uomini –, l’amministrazione della giustizia e l’organizzazione degli eserciti11.

La Trexenta, assieme alle curatorie di Campidano, Nuraminis, Bonavoglia o Dolia, Siurgus, Galilla o Gerrei, Sarrabus nonchè Barbagie di Seulo e Girasole, fu compresa nella vicarìa affidata al cavaliere catalano Pere de Llibià12, noto personaggio appartenente alla più stretta cerchia dell’infante, ricordato nelle fonti dell’epoca col titolo di «vicarius generalis in partibus Callari» o «vicari general en les parts de Caller»13.

Il distretto e le sue ville sono menzionati varie volte dalle fonti archivistiche nel corso del vicariato del Llibià a cominciare dalla precoce donazione in feudo, poi abortita14, della villa di Bangio Donico concessa dall’infante alla cognata Teresa Gombau de Entença nel dicembre 1323. Assieme alla villa trexentese vennero donate alla nobile i luoghi di Cerargio, Lene, Decimo Popussi, Villanova, Seruso, Palma, situati nel territorio della archidiocesi di Cagliari all’interno delle curatorie di Campidano e Gippi, per complessivi 30.000 soldi di rendita, con le riserve del mero e misto imperio, oste e cavalcata e il servizio di sette cavalli armati per tre mesi l’anno15.

All’inizio del nuovo anno gli uomini liberi della Trexenta e del resto della vicaria furono esentati in perpetuo dalla prestazione di alcuni tributi e servizi alla Corona, anche a cavallo. Con ciò l’infante intendeva evidentemente ingraziarsi tutte le comunità locali16.

Del marzo 1324 è la concessione in enfiteusi a Filippo Orlando di Guasila del salto di Fflios, sito nei confini della villa di Simieri, col censo di un fiorino d’oro l’anno17. L’istituto dell’enfiteusi, già regolamentato nei suoi elementi costitutivi essenziali nel diritto romano post-classico, prevedeva che l’enfiteuta godesse per un tempo determinato, anche perpetuo come nel caso dell’Orlando, del dominio utile di un bene immobile dietro il versamento di un censo annuo, con la possibilità di trasmetterlo agli eredi. Il concedente, in questo caso l’infante, si riservava dal canto suo prerogative tipicamente feudali quali il laudemio e la fatica di trenta giorni per ogni trasferimento della proprietà18. Questa particolare figura giuridica, comunemente utilizzata dai catalani per garantire la colonizzazione delle terre strappate agli arabi nei territori della ‘Catalunya Nova’, del regno di Valenza e delle Isole Baleari, non ebbe particolare diffusione in Sardegna nei primi anni della conquista, e questo è uno dei pochi esempi conosciuti.

Nel luglio successivo l’infante ricordava al Llibià di aver concesso ai sardi della vicarìa da lui amministrata, compresi gli abitanti della Trexenta, l’esenzione per un anno dal pagamento dei tributi in denaro, grano e orzo come premio della fedeltà e devozione mostrate verso la Corona19.

Di particolare interesse si configurano in questa fase storica le donazioni di grano concesse dall’infante Alfonso a monasteri sardi e catalani basate sulle rendite cerealicole della Trexenta. Tale è il caso delle clarisse del monastero di San Martino di Oristano che si videro assegnare in perpetuo cinquanta starelli all’anno prelevati dalle rendite che la regia curia percepiva «in locis curatorie de Tregenta»20. Altri cento starelli di grano furono donati al monastero femminile cistercense di Valdonzella di Barcellona, prelevati dalle rendite della villa di Guasila, nel documento erroneamente situata nella curatoria di Nuraminis21. È lecito tuttavia ipotizzare che questi aiuti promessi alle religiose dei due monasteri siano restati solo sulla carta, come in altri casi è stato rilevato22.

Il vicariato del Llibià ebbe termine il 13 luglio del 1324 con la sua nomina ad amministratore generale del regno23. Dall’ottobre successivo la Trexenta fu compresa, assieme alla villa e al castello di Bonaria e alle curatorie di Campidano, Bonavoglia, Nuraminis, Galilla, Siurgus, Sarrabus, Barbagia di Seulo e Barbagia di Ogliastra nella capitania affidata al cavaliere Guillem de Lauro, cui fu concessa la facoltà di esercitare in esse la giurisdizione completa civile e criminale con lo stipendio annuo di 4.000 soldi di genovini24.

2. Gli esordi del sistema feudale: le concessioni del 1324
Frattanto la sconfitta pisana di Lutocisterna e la pace del 19 giugno 1324 tra i due belligeranti avevano segnato l’estromissione del comune toscano dal controllo degli ex giudicati di Cagliari e Gallura e l’ingresso dell’isola in quella confederazione di regni nota come Corona d’Aragona. In base al trattato sottoscritto a Bonaria i pisani si impegnavano a cedere ai catalano-aragonesi tutti i loro possedimenti sardi, ricevendo in feudo il Castello di Cagliari con le sue appendici di Stampace e Villanova, gli orti, il porto e l’attuale stagno di Santa Gilla, oltre ad una rendita annuale sui proventi delle saline25.

Ancora prima di questo fatidico evento però la Corona aveva cominciato a suddividere il territorio della Trexenta in piccoli feudi concessi a titolo di ricompensa ad alcuni nobili, cavalieri e altri personaggi di vario rango provenienti da Catalogna, Aragona, Valenza e Maiorca che avevano seguito l’infante Alfonso nella vittoriosa spedizione: così la villa di Selegas fu assegnata nel maggio 1324, col servizio di due cavalli armati, a Pere de Llibià destinato a ricoprire, dopo quella di vicario «en les parts de Caller», le cariche di amministratore generale, capitano di Villa di Chiesa e castellano di Acquafredda26. Nel successivo mese di luglio le ville Senorbì, Simieri e Sèbera furono assegnate al consigliere e alguatzir Pere de Montpaó col servizio di due cavalli armati27; quelle di Sisini e Sarasi contemporaneamente – per errore – al nobile Eximén Perez Cornel, già castellano del castello Orguglioso28, e al consigliere e cambrer maior Guillem Serra cui furono donate in sostituzione Arixi e Arco29; la villa di Segariu, franca di ogni censo e servizio, fu donata alla nobile Sibilla de Vergua imparentata con la casa reale30; quelle di Bangio de Arili o de Liri, Seuni e Suelli, col servizio di tre cavalli armati31, al nobile Jofré Gilabert de Cruilles, marito della suddetta Sibilla, consigliere reale e futuro capitano di Villa di Chiesa32. Dopo un periodo di stasi, a distanza di qualche mese, il quasi sconosciuto Guillem Sa Joncosa ebbe le ville di San Basilio e Aluta col servizio di un cavallo armato33.

Le concessioni al Montpaó e al Cruïlles dimostrano come la Corona d’Aragona non tenne in alcuna considerazione i diritti che sulle ville di Simieri e Suelli vantava – o avrebbe dovuto vantare – il vescovo della diocesi barbariense in virtù della donazione fatta a San Giorgio dalla coppia giudicale cagliaritana Torchitorio e Nispella, donazione confermata dalla giudicessa Benedetta nel 121534. Del resto anche i funzionari del Comune di Pisa, nel redigere la composizione del 1320-22, non fecero alcun cenno a diritti del presule suellense sulle due ville mentre nel 1304, nell’ambito di una causa tra il Comune e lo stesso vescovo, furono annullati alcuni provvedimenti precedentemente emanati sulla villa di Suelli35. È lecito pertanto ipotizzare che all’epoca della supremazia pisana, negli anni immediatamente precedenti l’avvento degli aragonesi, debba essere intervenuto un qualche evento, non necessariamente traumatico, per cui il vescovo risultò escluso dal controllo diretto delle due ville trexentesi.

Le esigenze dettate dalla recente e instabile conquista, tra tutte la ricordata necessità regia di avere a disposizione un adeguato numero di uomini pronti alle armi, imposero che le suddette concessioni fossero fatte secondo le rigorose modalità del costume italico (iuxta morem Italiae, secundum morem Italiae, more Italiae o more Italico) in base al quale il feudatario era vincolato al sovrano da un giuramento di obbedienza e fedeltà (omaggio) e tenuto ad assolvere i gravosi obblighi del servizio militare e/o del censo annuo e delle contribuzioni straordinarie in caso di guerre, incoronazioni, matrimoni36. La norma voleva che il feudatario fornisse a sue spese (ad sumptus proprios) il servizio di uno o piu cavalli armati per tre mesi all’anno a seconda delle rendite complessive del feudo computate, in soldi di genovini, sulla base della VI composizione pisana del 1320-2237. Ad una rendita annua di 4.000 soldi – valore medio delle concessioni – corrispondeva normalmente da parte del feudatario il servizio di due cavalli armati. Del tutto marginale si configura il ricorso al censo in denaro, richiesto a Pere de Montpaó in sostituzione dell’originario servizio di due cavalli armati (40 fiorini d’oro) e a Pere de Llibià per la riduzione da due a uno del numero dei cavalli armati che era tenuto a fornire (10 fiorini d’oro).

Il feudo così concesso non poteva essere liberamente alienato ed era trasmissibile soltanto ai discendenti diretti per linea maschile. Ne erano esclusi collaterali e femmine, essendo il possesso fondiario strettamente connesso, almeno in origine, con la qualità di guerriero (miles)38. Vigeva inoltre l’obbligo della residenza continuativa in esso, obbligo dal quale si poteva essere esentati solo con speciale dispensa regia39.

Le facoltà giurisdizionali del feudatario appaiono, in questa fase di esordio del sistema, fortemente limitate dal momento che l’infante, in cinque casi su sette, riservò per sé il cosiddetto mero e misto imperio (cioè la prima piena giudicatura nel civile e nel criminale) nel limite dei territori infeudati. Solo in un secondo tempo, col progressivo stabilizzarsi della conquista, divenne usuale la concessione del misto imperio, il potere cioè di amministrare la giustizia con giurisdizione alta e bassa nelle cause civili e ristretta alla bassa in quelle criminali, senza la possibilità quindi di comminare pene corporali e capitali che rimanevano prerogativa del re.40

Tra i feudatari sunnominati non risiedevano sicuramente nell’isola il nobile Eximén Perez Cornel, titolare di feudi ben più remunerativi in patria, e il consigliere reale Guillem Serra i quali facevano amministrare i loro feudi sardi da procuratori.
3. Le infeudazioni del 1325
Dopo una pausa di alcuni mesi, con l’inizio del nuovo anno riprese a ritmi serrati l’infeudazione della Trexenta. Le ville di Guasila e Guamaggiore, assieme a quelle di Furtei e Villagreca nel Nuraminis, furono concesse al nobile Guillem de Entença con un servizio di tre cavalli armati41; quelle di Arco e Arixi, assieme alle ville di Goni e Orroli nel Siurgus al consigliere e cambrer maior Guillem Serra col servizio di due cavalli armati42; la villa di Bangio Donico, assieme a quella di Gergei nel Siurgus, al domestico reale Guillem Sapera col servizio di due cavalli armati43; quella di Ortacesus, con la villa di Quirra nel Sarrabus, al cavaliere Diego Zapata per un servizio di due cavalli armati44; quella di Turri, assieme a vari altri piccoli centri delle curatorie di Gippi e Nuraminis, al figlio di Pere de Llibià, Perico de Llibià, col servizio di due cavalli armati45; quella di Dei, assieme a Monastir e ad altre nel Dolia e nel Nuraminis, all’amministratore generale e futuro doganiere del Castello di Cagliari Arnau de Caçà, col servizio di due cavalli armati46; quelle di Arili, Siocco, Donigala Alba e Segolay, assieme alle ben più remunerative di Mandas, Escolca e Nurri nel Siurgus, al nobile Francesc II Carroz, col servizio di tre cavalli armati. Poco dopo la villa di Arili – per errore – fu concessa al notaio del giudice d’Arborea Pietro Penna, col censo di un bacile d’argento dorato47.

Rispetto alle infeudazioni dell’anno precedente quelle del 1325, anch’esse attuate secondo le modalità del costume italico, presentano alcuni elementi di novità. Innanzitutto l’infante Alfonso riconobbe fin da subito alla quasi totalità dei feudatari l’esercizio del misto imperio e, in due casi, addirittura della giurisdizione completa (mero e misto imperio). A godere di un così eccezionale privilegio, estremamente raro in questa primissima epoca feudale e limitato a personaggi di alto lignaggio aristocratico, furono i nobili Guillem de Entença, fratellastro dell’infanta Teresa, moglie dell’infante Alfonso, e Francesc II Carroz, figlio dell’ammiraglio Francesc Carroz.

Altra particolarità riscontrabile in questa seconda tranche di concessioni è che in quattro casi su otto l’infante infeudò semplicemente una rendita in denaro espressa in soldi di genovini col servizio di due o più cavalli armati, affidando agli amministratori generali di stanza nell’isola il compito di individuare le ville da concedere a Diego Zapata, Guillem Sapera, Perico de Llibià e Francesc II Carroz. Anche le ville di Arco e Arixi, concesse a Guillem Serra in sostituzione di quelle non disponibili di Sisini e Sarasi, furono individuate dai detti amministratori per speciale incarico commesso loro da Alfonso. Ciò evidentemente perché l’infante, ormai lontano dalla Sardegna, non poteva disporre di un quadro preciso delle ville ancora libere come evidenzia il caso di Pietro Penna.

Anche in queste concessioni il servizio in cavalli armati è di gran lunga preponderante sulle richieste di censo limitate ai 25 fiorini d’oro che, in sostituzione dell’originario servizio militare, doveva versare il Serra per le ville di Arco e Arixi e al bacile d’argento dorato dovuto da Pietro Penna per la villa di Arili, la quale tra l’altro si rivelò non disponibile.

Frequente, per motivi di rendita, appare nelle suddette concessioni l’accorpamento di territori compresi in curatorie distinte: eclatanti gli esempi di Arnau de Caçà e Perico de Llibià i beni dei quali erano suddivisi tra Trexenta, Nuraminis e Dolia in un caso e Trexenta, Gippi e Nuraminis nell’altro.

4. La seconda pace del 1326 tra Aragona e Pisa
Col secondo trattato di pace del 25 aprile 1326 i pisani subivano la definitiva perdita del Castello e del porto di Cagliari e dovevano accontentarsi della concessione feudale delle «villas et terras sitas in curatoriis de Tragenta et de Ghippi»48; ciò determinò la soppressione dei feudi già concessi i cui titolari vennero in vario modo indennizzati, privilegiando quanti potevano garantire un idoneo servizio di cavalli armati in altri luoghi dell’isola. Nelle istruzioni a Bernat de Boxadors e Filip de Boil, rispettivamente ammiraglio del re e reggente gli uffici di governatore dei catalani di Sardegna, veguer di Bonaria e capitano del Castello di Cagliari, l’infante Alfonso si raccomanda infatti di avere un occhio di riguardo nei confronti di quegli heretats delle curatorie di Gippi e Trexenta a cui erano state tolte le proprietà per essere donate ai pisani, e che i possessori di buoni cavalli spagnoli ed equipaggiamenti fossero avvantaggiati rispetto agli altri49.

Le pratiche per i rimborsi, trascinatisi per diversi anni, hanno comportato a livello cancelleresco la produzione di un cospicuo numero di interessantissimi documenti dai quali si evince che a Guillem Serra e Guillem de Entença fu riconosciuto il diritto a nuove rendite per un valore pari a quello delle ville perdute; Pere de Montpaó e Sibilla de Vergua furono ricompensati dapprima con una rendita in denaro, poi con alcune ville site nella curatoria di Romangia, nel distretto della città di Sassari; Jofré Gilabert de Cruïlles, fu indennizzato con 20.000 soldi di Barcellona e la concessione del mero e misto imperio nelle sue restanti ville di Donigala e Siurgus; Francesc II Carroz ebbe dapprima la riduzione del servizio in cavalli armati poi nuovi possessi a soddisfazione di quelli perduti; Arnau de Caçà, Perico de Llibià e Diego Zapata ebbero la riduzione del servizio in cavalli armati; Guillem Sa Joncosa fu ammesso tra gli stipendiati regi50.

Detto ciò non possiamo non far cenno a certa letteratura che fraintendendo il senso di questi documenti vi ha visto degli abusi compiuti a danno del Comune da parte del re d’Aragona il quale, facendosi beffa del trattato del 1326, avrebbe infeudato territori sardi sotto la giurisdizione pisana51.

In realtà dall’insieme della documentazione esaminata relativa alla luogotenenza e al regno di Alfonso IV, emerge in maniera incontrovertibile che la Corona rispettò pienamente le clausole di detto trattato. Infatti il diritto riconosciuto ai feudatari catalano-aragonesi sulle perdute ville delle curatorie di Trexenta e Gippi, del quale ancora si fa cenno in certe carte relative al regno di Pietro IV52, null’altro era se non un diritto a percepire rendite sostititive, o a godere di riduzioni di censi e servizi per altri feudi detenuti in Sardegna, o ancora a percepire uno stipendio che garantisse, a chi lo riceveva, una vita decorosa, senza intaccare minimamente la potestà acquisita dal Comune di Pisa sulle curatorie di Trexenta e Gippi dopo la pace del 1326. E siccome una clausola del trattato consentiva ai pisani di rinunciare in ogni momento al controllo diretto dei due territori in cambio di una rendita annua forfettaria di 4.000 fiorini d’oro – opzione che tuttavia non fu mai presa in considerazione dal comune toscano – a tutti i feudatari che avevano perduto le ville delle suddette curatorie fu riconosciuto il diritto a rientrarne in possesso qualora la Corona le avesse recuperate, come fu garantito ancora nel 1331 a Pere de Llibià:

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