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Bollettino mensile d’informazione dei notai del Collegio di Campobasso, Isernia e Larino a cura del notaio Riccardo Ricciardi – Anno IX – N. 97 – 14 maggio 2003


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ollettino mensile d’informazione dei notai del Collegio di Campobasso, Isernia e Larino a cura del notaio Riccardo Ricciardi – Anno IX – N. 97 – 14 maggio 2003







SOCIETÀ


La responsabilità per una violazione del Presidente è anche dei Consiglieri?

Il quesito è nato dalla seguente richiesta di chiarimenti che ho avuto: “Sono il Presidente del Consiglio d'Amministrazione della società da Lei costituita in data 31 luglio 2000 e nel cui Statuto è previsto come organo sociale il Consiglio d'Amministrazione, composto dal Presidente, dal vice Presidente e da un Consigliere.

Poiché ho comunicato in ritardo alla Camera di Commercio la sostituzione di un Sindaco, è stata comminata una multa di E 400,00 per ciascun componente il Consiglio d' Amministrazione, in quanto la Camera di Commercio applica l’art. 5 della Legge 689/81 sul concorso di persone, a meno che non sia espressamente previsto nello Statuto che la responsabilità per omissione di atti è del solo Presidente, la qual cosa mi sembrava detta chiaramente nell'art. 31 del nostro Statuto, in cui si dice che il Presidente rappresenta la società ed è delegato da essa a compiere tutti gli affari, pratiche e vertenze di qualunque genere presso qualsiasi Autorità, Ente o persona, e di provvedere a quant’altro
occorra per l'esecuzione delle deliberazioni del Consiglio d'Amministrazione.

Avrei bisogno che Lei espressamente spiegasse che si intendeva con tale articolo dare la responsabilità al solo Presidente per quanto affidatogli con esso, al fine di evitare che ogni volta che eventualmente si verifichi una dimenticanza l'eventuale sanzione arrivi triplicata, cosa davvero insostenibile per una società cooperativa.”

L’art. 31 della legge 24 novembre 1981, n. 689 dispone che “Quando più persone concorrono in una violazione amministrativa, ciascuna di esse soggiace alla sanzione per questa disposta, salvo che sia diversamente stabilito dalla legge.”

Si tratta quindi di accertare se nella violazione amministrativa del Presidente abbiano concorso gli altri consiglieri.

Secondo l’art. 31 dello Statuto della Cooperativa “Il Presidente del Consiglio di Amministrazione rappresenta legalmente la Società Cooperativa, ha la firma sociale e potrà compiere qualsiasi operazione commerciale, bancaria, cambiaria e finanziaria riguardante l'oggetto sociale.

Egli rappresenta, inoltre, la Società Cooperativa in tutti gli affari, pratiche e vertenze di qualunque genere presso qualsiasi Autorità, Ente o persone, con facoltà di transigere e conciliare, anche in materia di imposte e tasse, rilasciare quietanze liberatorie anche ad Enti pubblici, di rilasciare procure anche ad estranei per singoli atti o per determinate categorie di atti e di provvedere a quant'altro occorra per la esecuzione delle deliberazioni del Consiglio di Amministrazione.”

Certamente con detta norma statutaria sono state attribuite al Presidente del Consiglio di Amministrazione poteri che non competono di per sé al Presidente, che ha come funzione tipica quella solo di dirigere le riunioni del consiglio, convocare il consiglio, controllare che il segretario rediga i verbali.

Vi è, infatti, un cumulo, non solo tra la posizione del presidente e quella di rappresentante legale perché, come normalmente avviene, al Presidente è stato conferito il potere di rappresentanza della società, tra la posizione di Presidente e quella di amministratore delegato, perché al Presidente sono state attribuite competenze gestorie.

Quanto poi alla presunta responsabilità solidale, giurisprudenza e dottrina hanno costantemente ribadito che alla responsabilità degli amministratori devono applicarsi i principi generali che regolano gli inadempimenti contrattuali, e quindi quella degli amministratori è una normale responsabilità per colpa.

REGIME PATRIMONIALE DELLA FAMIGLIA


Come e quando devono essere annotate le vicende relative alla separazione personale dei coniugi?

Nel bollettino n. 2 prendevo atto che, essendo orientamento costante della giurisprudenza della Corte di Cassazione ritenere che lo scioglimento della comunione legale decorre dal passaggio in giudicato della sentenza di separazione personale, ogni diversa soluzione avrebbe aggravato il vuoto legislativo in tema di pubblicità del regime patrimoniale della famiglia, determinato dalla mancanza di una norma che preveda l'annotazione, a margine dell'atto di matrimonio, dei provvedimenti che dispongono la separazione personale dei coniugi.

Quel vuoto legislativo è stato eliminato con l’entrata in vigore in data 30 marzo 2001 del regolamento per la revisione e la semplificazione dell’ordinamento dello stato civile di cui al D.P. R. 3 novembre 2000, n. 396.

Infatti, come chiarito dallo Studio n. 3850 Approvato dalla Commissione Studi l’11 giugno 2002 appare superato qualunque dubbio circa la possibilità di annotare direttamente le sentenze che pronunciano la separazione personale dei coniugi o l'omologazione di quella consensuale ed è da ritenere anche che sia possibile annotare, pur nel silenzio delle nuove disposizioni anche il ricorso proposto dai coniugi per ottenere la separazione.



Lo studio si occupa anche della riconciliazione dei coniugi che possono di comune accordo far cessare gli effetti della sentenza di separazione, senza l’intervento del giudice, con una dichiarazione espressa o un comportamento non equivoco che sia incompatibile con lo stato di separazione.

L’art. 63 o.s.c. lettera g) prevede l’iscrizione delle “dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione, ai sensi dell'articolo 157 del codice civile” e l’art. 69 o.s.c. lettera f) prevede l’annotazione negli atti di matrimonio “delle dichiarazioni con le quali i coniugi separati manifestano la loro riconciliazione”. Una siffatta previsione, del tutto speculare a quella concernente le sentenze che pronunciano la separazione personale dei coniugi o l’omologazione di quella consensuale, consente per così dire di chiudere il sistema pubblicitario. Infatti, attraverso l’iscrizione o l’annotazione di una siffatta dichiarazione si dà emersione alla volontà delle parti di ricostituire la comunione legale o il diverso regime che vigesse tra i coniugi prima della separazione.

La dottrina ha affrontato il problema dell’individuazione del pubblico ufficiale competente a ricevere la dichiarazione di riconciliazione dei coniugi già separati. La previsione dell’art. 63 o.s.c., lettera g) si riferisce indubbiamente all’ufficiale dello stato civile, competente per esser quello del Comune ove fu celebrato il matrimonio o quello del Comune di residenza. Nessun dubbio, atteso il tenore dell’art. 69 o.s.c. lettera f) poi della possibilità per il Notaio di ricevere una siffatta dichiarazione. Nessun dato è poi possibile rinvenire dall’esame della disciplina per poter stabilire in concreto la forma che deve essere adottata per una tale dichiarazione ricevuta dal pubblico ufficiale. Dalla sufficienza del comportamento concludente per dare rilievo giuridico all’intento coniugale di ricostituire la comunione e dalla tendenza del nuovo Regolamento a delineare un sistema ispirato alla libertà delle forme, può desumersi l’assenza di qualsiasi vincolo in tal senso. Del resto, già prima della novella dello stato civile, la dottrina che si era occupata della materia, aveva affermato l’idoneità agli effetti di cui all’art. 157 c.c. della dichiarazione coniugale, sia orale sia nella forma della scrittura privata, autenticata o meno nelle sottoscrizioni, sia dell’atto pubblico. Un diverso inquadramento della dichiarazione dei coniugi nell’alveo delle convenzioni matrimoniali obbliga, invece, il pubblico ufficiale al rispetto della forma prevista per queste ultime. Sebbene la prima impostazione appaia più conforme al sistema e condivisibile, in attesa di un chiarimento normativo del problema è opportuno per la delicatezza degli interessi in gioco aderire alla tesi più rigorosa e prudente.

TARIFFA NOTARILE


Quali onorari spettano nel caso di atto contenente più modifiche societarie, conversione del capitale in euro e aumento di capitale?

La risposta al quesito è data in maniera esaustiva e, credo, senza che si possa eccepire alcunché, dalla seguente decisione del



Ministero della Giustizia Ufficio Centrale degli Archivi Notarili

IL DIRETTORE

Visti gli articoli 4, comma 2, e 16 del decreto legislativo 30 marzo 2001, n. 165;

Vista la legge 16 febbraio 1913, n. 89;

Visto l'art. 39 della legge 22 novembre 1954, n. 1158;

Vista la legge 27 giugno 1991, n. 220;

Vista la Tariffa degli onorari, dei diritti, delle indennità e dei compensi spettanti ai notai, approvata con decreto ministeriale 30 dicembre 1980 (in Supplemento a Gazzetta Ufficiale n. 9 del 10 gennaio 1981) e modificata con decreto ministeriale 5 giugno 1987 (in Gazzetta Ufficiale n. 136 del 13 giugno 1987), applicabile nei casi di specie che si riferiscono ad atti ricevuti dal notaio ricorrente negli anni 1999-2000;

Visto il decreto legislativo 18 dicembre 1997, n. 472;

Visto l' avviso di liquidazione e contestazione di addebiti n. 61/2002 emesso il 12 aprile 2002 notificato nella stessa data - dall'Archivio notarile di Milano nei confronti del dott. ---------, notaio in Milano, per aver versato tassa d'archivio e contributi alla Cassa nazionale del notariato per un importo inferiore al dovuto, come dettagliatamente indicato nell'avviso;

Visto il successivo atto n. 12/2003, di conferma dell'avviso di liquidazione e di irrogazione delle sanzioni (art. 16, ult. co., D.Lgs. n. 472 del 1997), emesso il 23 gennaio 2003 dall' Archivio notarile di Milano, notificato al predetto notaio nella stessa data;

Visto il ricorso 4 febbraio 2003 con il quale il predetto notaio ---- ha impugnato il citato atto 23 gennaio 2003, esclusi i primi tre rilievi che non vengono contestati, e ne ha chiesto l'annullamento, con conseguente dichiarazione di non debenza delle somme richieste dall'Archivio Notarile di Milano, asserendo che per gli atti societari oggetto dei rilievi era applicabile l'onorario graduale, seppure di importo inferiore all'onorario fisso di cui

all'art. 7 lett. a) della Tariffa notarile;

Esaminata la documentazione esibita dal notaio e quella trasmessa dall'Archivio Notarile di Milano;

Rilevato che:

- con i verbali di assemblea straordinaria di società a responsabilità limitata e con gli atti di modifica di società in accomandita semplice ricevuti dal notaio ricorrente, si provvedeva, oltre ad apportare modifiche statutarie assoggettabili ad onorario fisso (trasferimenti di sede, proroghe della durata della società, deliberazioni di conversione del capitale in euro, ...), ad aumentare il capitale sociale per importi di modesta entità (per tali aumenti sarebbero dovuti onorari graduali di importo minore rispetto all'onorario fisso di cui all'art. 7 della Tariffa);

- l'Archivio Notarile di Milano ha ritenuto tali aumenti di capitale strumentali alla conversione in euro del capitale e delle quote sociali, con conseguente applicazione dell'onorario fisso previsto dall'art. 7 della tariffa, per come richiamato dall'art. 17 comma 5° della legge 24 giugno 1998 n. 218 per le società di capitale e in virtù della regola dell'onorario più favorevole prevista dal quarto comma dell'art. 2 della tariffa per gli atti riguardanti le società di persone;

- il notaio ha contestato l'atto dell'Archivio notarile di Milano sostenendo che nei casi in questione, non ricorrendo un caso di necessaria connessione ai sensi del quarto comma dell'art. 2, sarebbe applicabile solo l'onorario graduale calcolato sull'aumento di capitale, escludendosi l'applicazione dell'onorario di cui all'art. 7 lett. a) della tariffa professionale, secondo cui "l'onorario /fisso/ è dovuto solo quando non e applicabile l'onorario graduale a norma dell'art. 2' ;

Considerato che:

- l'art. 7 lett. a) della tariffa professionale all'epoca vigente prevede, tra l'altro, che è dovuto l'onorario fisso di lire 80.000 per i verbali di assemblea e per la modifica di patti di società, che "è dovuto un solo onorario fisso anche se le modifiche convenute o deliberate sono più d'una", e che " l'onorario fisso e dovuto solo quando non è applicabile l'onorario graduale a norma dell'art. 2" ;

- l'art. 7 rimanda, per l'individuazione dei casi in cui è applicabile l'onorario graduale, alla disciplina generale contenuta nell'art. 2 della Tariffa che al quarto comma, nel ribadire il disposto del secondo comma dell'art. 75 della legge 16 febbraio 1913 n. 89, prescrive qualora l'atto comprenda "più disposizioni necessariamente connesse e derivanti per l'intrinseca natura le une dalle altre", che sia "considerato come se comprendesse la sola disposizione che da luogo all'onorario più favorevole al notaio", senza tener conto se l'onorario più favorevole sia fisso o graduale;

- il notaio si è limitato ad escludere, senza alcuna argomentazione, che nelle fattispecie esaminate vi sia una ipotesi di connessione tra l'aumento di capitale e la conversione del capitale in euro;

- nei casi di specie, invece, gli aumenti di capitale deliberati, considerata la modesta entità degli aumenti e la mancanza di indicazioni negli atti stessi di scopi diversi da quello della successiva conversione in euro, non risultano giustificati dal bisogno obiettivo di dotare le società di un ulteriore capitale di rischio per far fronte a successive esigenze operative, bensì da meri fini contabili, di procedere alla successiva conversione del capitale in euro senza la creazione di valori decimali per ogni singola quota e senza alterare la proporzionalità delle precedenti partecipazioni sociali;

- non risulta applicabile, alla luce delle considerazioni che precedono, l'onorario graduale, bensì un solo onorario fisso ai sensi dell'art. 7 lett. a) della Tariffa;

Ritenuto che per tali fattispecie il notaio doveva versare, come esattamente richiesto dall'Archivio Notarile di Milano, tasse e contributi rapportati all'onorario fisso di lire 80.000 e non ai minori onorari indicati nel repertorio e che, pertanto, le relative differenze richieste dall'Archivio risultano dovute.

Rilevato che:

- il notaio ritiene comunque di essere incolpevole per le violazioni contestate in quanto avrebbe applicato la tariffa agli atti in questione nella "certezza di operare nel giusto", sulla scorta di un "principio di affidamento" formatosi sulla base della sua passata esperienza in cui - a dire del notaio - avrebbe interpretato e applicato la tariffa con le stesse modalità oggetto della contestazione dell'Archivio, senza che gli fosse stato mosso alcun rilievo in merito;

Considerato che, anche ove si fosse accertato che il notaio in passato abbia commesso altre violazioni analoghe non rilevate in sede di controllo, tale circostanza non costituirebbe, secondo la normativa di settore (art. 6 del D.Lgs. 18 dicembre 1997 n. 472; art. 10 della legge 27 luglio 2000 n. 212), un "elemento positivo" (un comportamento dell'Archivio notarile) idoneo ad indurre il notaio ad assumere come lecito un comportamento dal medesimo Archivio ritenuto successivamente, in modo contraddittorio, illecito;

- in altri termini, come più volte affermato dalla giurisprudenza di legittimità (si veda da ult., Cass. sez. I, 2 ottobre 2002 n. 14168; Cass. sez. I, 5 giugno 2001 n. 7603), la mera tolleranza dell'ufficio non può essere invocata come esimente, in quanto l'errore sulla liceità del fatto assume rilievo solo in presenza di "elementi positivi", idonei ad ingenerare, nell'autore della violazione, il convincimento della liceità del proprio comportamento;

- peraltro, il notaio non ha indicato, a supporto delle sue affermazioni, alcun elemento per verificare la veridicità di quanto da lui dichiarato né ha prodotto alcun documento in merito;

Ritenuto che, per tali motivi, le deduzioni esposte dal notaio ... nel ricorso non possono essere condivise e che il ricorso non può essere accolto;

Che pertanto l'impugnato atto 23 gennaio 2003 del Sovrintendente dell'Archivio notarile

distrettuale di Milano è legittimo;

DECRETA

Il ricorso 4 febbraio 2003 del dott. ----, notaio in Milano, avverso l'atto di conferma dell'avviso di liquidazione e di irrogazione delle sanzioni emesso dal Sovrintendente dell'Archivio notarile di Milano in data 23 gennaio 2003, n. 12/2003, è respinto, per i motivi di cui in premessa.

Roma, 28 aprile 2003

Il Direttore dell' Ufficio Centrale
Per la cessione di quota sociale a più acquirenti quali onorari sono dovuti.

Sul quesito si è pronunciato - con argomentazioni forse opinabili, data la natura particolare del bene “quota”, termine peraltro abbandonato nella riforma delle società per uno ancora più oscuro “partecipazione” - il



Ministero della Giustizia Ufficio Centrale degli Archivi Notarili Pos. n. 249 Prot. n. 4407

Al Capo dell'archivio notarile distrettuale

Rif. n. 523

Con la nota in riferimento, la S.V. ha chiesto a quest'Ufficio un parere circa l'onorario notarile spettante per la cessione di una quota sociale a due o più acquirenti.

L'art. 74 della Legge notarile, in materia di onorario dovuto al notaio per la redazione di atti, stabilisce che "il notaro ha diritto per ogni atto... ad essere retribuito dalle parti mediante onorario" ed il successivo art. 75 precisa che "se l'atto contiene più convenzioni distinte, sono dovuti tanti onorari quante sono le convenzioni". Tuttavia, "quando l'atto comprenda più disposizioni necessariamente connesse e derivanti per intrinseca loro natura le une dalle altre, sarà considerato come se comprendesse la sola disposizione che dà luogo all'onorario più favorevole al notaro, se pure essa possa considerarsi accessoria alle altre". In quest'ultimo caso, considerato che i negozi risultano inscindibilmente connessi per volontà di legge o per loro intrinseca natura, talché l'uno trovi il suo necessario presupposto nell'altro e non possa esistere senza di quest'ultimo, si procede all'applicazione di un unico onorario a fronte delle diverse convenzioni, attesa la loro unitarietà sostanziale (cfr. Cass. Civ., sez. I, 17 ottobre 1973, n. 2618, per analoga questione in materia di imposta di registro).

Tali disposizioni sono riprodotte sostanzialmente nell'art. 2 della Tariffa notarile, approvata con D.M. 27 novembre 2001.

Ne consegue che per accertare se nel caso di specie deve essere applicato uno o più onorari, è necessario verificare in primo luogo se l'atto contiene un'unica o, invece, più convenzioni e, una volta ammessa la presenza di più convenzioni, se le stesse possano essere qualificate come necessariamente connesse, ai sensi del secondo comma dell'art. 75 della Legge notarile.

Rimane fermo l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità secondo cui la presenza in un atto di un unico negozio ovvero di una pluralità di negozi deve essere accertata in concreto, valutando ogni singola situazione e considerando, in particolare, come indizi di indubbia rilevanza la esistenza o meno di un rapporto di connessione fra le varie cose oggetto del negozio e l'indicazione o meno di un prezzo unitario (Cass. 8 maggio 1963, n. 1135).

Per quanto riguarda il quesito specifico occorre preliminarmente rilevare che per le quote sociali è prevista, salvo diversa disposizione dell'atto costitutivo, la divisibilità (cfr. art. 2482 c.c.), diversamente che per le azioni le quali sono indivisibili (art. 2347 c.c.). Inoltre, a differenza delle azioni, che devono essere di uguale valore (art. 2348 c.c.), le quote possono essere di diverso ammontare (art. 2474, secondo comma, c.c.).

Pertanto, il proprietario è libero di trasferire la propria quota sociale a uno o più cessionari, potendo dividere la quota originaria in più quote.

Risulta anche regolato, come per le azioni, il caso della quota sociale di proprietà comune di più persone (art. 2482, secondo comma, c.c.), che potrebbero aver acquistato in misura (percentuale) diversa, pur rimanendo unica la quota sociale.

In questo caso, ove si ritenga che ricorrono elementi (ad esempio, la nomina di un rappresentante comune per l'esercizio dei diritti dei comproprietari) che escludano la suddivisione della quota nonostante l'avvenuto trasferimento della titolarietà della stessa a più soggetti, spetterebbe al notaio un unico onorario.

Se invece mancano tali elementi, pur risultando le cessioni da un unico documento, non ricorre di regola un'unica fattispecie negoziale, bensì una pluralità di disposizioni caratterizzate dalla diversità dei destinatari e dell'oggetto compravenduto. Ciascun cessionario acquista autonomamente una parte della quota del cedente, diventando titolare di una posizione di autonomia privata del tutto distinta da quella degli altri acquirenti.

Inoltre, dato per ammesso che nei casi di specie si è in presenza di più negozi, le singole cessioni non appaiono "necessariamente connesse" tra loro e "derivanti per intrinseca loro natura le une dalle altre" (art. 75, secondo comma, della Legge notarile), stante la mancanza del perseguimento di una funzione unitaria e di una reciproca interdipedenza tra le stesse.

Peraltro, la giurisprudenza di legittimità, in linea di principio, esclude tale vincolo di connessione allorché le disposizioni "collegate" potrebbero essere contenute anche in atti distinti (Cass. 17 giugno 1947, n. 948; Cass. 13 febbraio 1951, n. 347), come nell'ipotesi che si esamina, in cui le singole cessioni potrebbero essere realizzate dal notaio con atti distinti.

In tal caso dovrebbe applicarsi il primo comma dell'art. 75 della Legge notarile, e pertanto per ciascuna cessione il notaio dovrà percepire un corrispondente onorario graduale, determinato sul valore di ciascuna frazione di quota ceduta.
Per l’associazione di Imprese con mandato sono dovuti due onorari?

La mia convinzione sulla natura di tale atto è sempre stata quella di ritenere che si trattasse di un solo negozio e di conseguenza fossero dovuti un solo onorario fisso e una sola imposta fissa di registrazione.

La rappresentanza, come chiarì magistralmente Santoro Passarelli, è un attività gestoria qualificata, fondata su uno specifico potere d’agire.

Il conferimento di tale potere ha un rilievo negoziale autonomo rispetto al negozio di gestione e in particolare rispetto al mandato, che, quale negozio di gestione storico ed ancora oggi tipico, ha attratto ed in parte ancora mantiene la disciplina della gestione, la quale può costituire lo scopo di negozi e rapporti diversi dal mandato, e della stessa rappresentanza.

La gestione, se è la funzione tipica del mandato, non è funzione esclusiva del medesimo

Infatti, gestione e rappresentanza si rendono necessarie dove più soggetti, riunendosi per un godimento o un’attività comune, danno luogo ad un’organizzazione come nella comunione e nella società senza personalità giuridica e, avrebbe aggiunto Santoro Passarelli, nelle associazioni temporanee di imprese.

Nonostante queste mie asserzioni, in sede di controllo del repertorio da un Conservatore Reggente mi furono effettuati dei recuperi, sostenendo che fossero dovuti due onorai fissi: uno per l’associazione ed uno per il mandato.

Ora, sia pure invertendo i fattori, il Ministero con la stessa suddetta circolare chiarisce che si tratta di un solo negozio: un mandato collettivo con rappresentanza.



Il Legislatore, in attuazione dell'art. 21 della direttiva CEE del 26 luglio 1971 n. 305, è più volte intervenuto a disciplinare la materia della riunione temporanea di imprese (originariamente prevista, per l'assunzione dei lavori pubblici, dagli articoli dal 20 al 23 delle legge 8 agosto 1977, n. 584, da ult. dall'art. 93 del D.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554; in materia di forniture, cfr. art. 10 del dLgs. 24 luglio 1992, n. 358; in materia di servizi, cfr. art. 11 del d.lgs. 17 marzo 1995, n. 157, come sostituito dall'art. 9, dlgs. 25 febbraio 2000, n. 65). Peraltro, la disciplina normativa nel suo complesso è sempre rimasta incentrata sul versante della Pubblica Amministrazione, nel senso di garantire la realizzazione dell'interesse pubblico della scelta del miglior contraente, nel rispetto della par condicio delle imprese, ed assicurare la regolare esecuzione delle opere pubbliche, delle forniture e dei servizi pubblici.

L'elemento essenziale per l'instaurazione del rapporto esterno delle imprese con l'Amministrazione è costituito dalla forma della riunione che è rappresentata, necessariamente, da un mandato con rappresentanza, gratuito, irrevocabile, conferito da una o più imprese, collettivamente, ad altra impresa "capogruppo" mediante scrittura privata autenticata (art. 95, quinto comma, d.P.R. 21 dicembre 1999, n. 554; cfr. Cass. sez. 1, 11 maggio 1998, n. 4728). Lo stesso regolamento (art. 95, settimo comma del cit. d.P.R. n. 554 del 1999), analogamente a quanto già previsto dalla legge n. 584 del 1977, prescrive espressamente che il detto rapporto di mandato "non determina di per sé organizzazione o associazione delle imprese riunite, ognuna delle quali conserva la propria autonomia ai fini della gestione, degli adempimenti fiscali e degli oneri sociali" (le stesse disposizioni valgono per le forniture e i servizi pubblici).

Per altro verso, occorre osservare che tanto la legge n. 584/1977 quanto le successive non risolvono il problema della qualificazione del rapporto interno tra le imprese riunite. Dall'uso della locuzione "di per sé" contenuta nell'ult. co. dell'ari. 95 del d.P.R. n. 544/1999, si deduce chiaramente che il Legislatore ha voluto solo stabilire una presunzione iuris tantum sull'autonomia ed individualità delle imprese riunite e sull'assenza di particolari forme organizzative (consorzi, società di fatto, ... ).

Lo stesso Legislatore consente, da ultimo con l'art. 96 del d.P.R. n. 544/1999, che le imprese riunite possano costituire tra loro una società, anche consortile, per l'esecuzione unitaria dei lavori; ma la predetta disposizione prevede solo una semplice facoltà - non certo un obbligo - di ricorrere ad uno schema societario tipico tutte le volte che le imprese in riunione temporanea vogliano dare vita ad una struttura comune, con rilevanza esterna, per l'esecuzione dei lavori.

In conclusione, al fine dell'applicazione della tariffa notarile, si può affermare che l'istituto dell'associazione temporanea di imprese - così come regolata originariamente dalla legge n. 587/1977 e, da ultimo, dal d.P.R. n. 554/1999 - si realizza per il tramite di un mandato collettivo con rappresentanza, che non comporta per le imprese associate la perdita della propria individualità né dà luogo all'emersione di un organismo associativo: ne discende che dovrà essere applicato l'onorario notarile corrispondente a quello dovuto per un mandato necessariamente collettivo e gratuito, senza tener conto, ai sensi del quarto comma dell'ari. 2 della Tariffa notarile, delle connesse procure rilasciate all'impresa capogruppo, posto che è esclusa a priori, ope legis, la possibilità di un mandato "senza rappresentanza".

Per altro verso, nel caso in cui con unico atto si dia vita ad una associazione temporanea di imprese e si costituisca tra le imprese riunite una società, anche consortile, oltre al predetto onorario, si dovrà applicare altro onorario, relativamente alla costituzione del nuovo organismo, non ricorrendo in quest'ultima ipotesi una necessaria connessione tra i diversi atti negoziali contenuti nell'atto.

Il Direttore dell'Ufficio Centrale

CESSIONE DI AZIENDA


Si può cedere un’azienda costituita dalla sola licenza commerciale?

Il quesito nasce dal seguente dibattito svoltosi sulla lista sigillo:

Mi chiedono di fare un atto di cessione di licenza commerciale, senza cessione dell'azienda. Si può fare?

Direi di no.

Anch'io ho detto di no, ma dopo che il cliente ha insistito sulla possibilità di tale atto, ha detto che un altro notaio era disposto a farlo, ha detto che in Comune richiedono la cessione della licenza autenticata, mi è venuto il dubbio che qualcosa fosse cambiato.

Normalmente è l'attività che viene ceduta o un ramo di essa la quale esiste sempre non fosse altro per un minimo di attrezzature (fondi morti) o merce (fondi vivi) o anche solo l'avviamento. Forse è questo che devi indicare nella cessione anche se le parti ti dicono che vogliono cedere solo la licenza che di per se è incedibile in quanto avente natura pubblica.

Cito Ferri: L'avviamento non è un nuovo bene, rispetto ai beni aziendali, ma il valore economico del collegamento dei beni aziendali in funzione di uno scopo produttivo. Di conseguenza se non vi sono beni (materiali e/o immateriali) organizzati in funzione produttiva, non vi è azienda e neppure avviamento.

Ritengo pertanto nulli quegli atti in cui si cede un ramo di azienda, dichiarandosi che non vi sono beni, ma solo l'avviamento, tenuto conto che una concessione od autorizzazione amministrativa non può formare oggetto di negozi di diritto privato. 

Anch'io direi di no. Anche se, nella prassi comune, si parla di mercato delle licenze.



In realtà la licenza é una concessione amministrativa e, come tale, non può formare oggetto di negoziazione. Spesso tuttavia la cessione di azienda é puramente fittizia e consente di ottenere l'emisiione di una nuova concessione a nome del cessionario, soprattutto ove vi é il c.d. contingentamento.

Nei termini da te esposti, sicuramente no: la "licenza" (provvedimento amministrativo che autorizza l'esercizio del commercio), in quanto tale non può essere ceduta. E' invece vera un'altra cosa: il contratto di cessione di azienda funge da presupposto o condizione per poter chiedere la voltura della licenza a nome dell'acquirente. In pratica, anche quando non vi sia un vero e proprio compendio aziendale, si imposta l'atto come una cessione di azienda, dicendo che sono compresi nella cessione tutti i beni mobili che compongono l'azienda, anche se di modesto o inesistente valore, quali ad es.: il registratore di cassa, il bancone, i tavoli e le sedie, l'ombrellone (per le attività ambulanti), ecc., e chiedendo, in forza di tale cessione, la voltura della licenza commerciale. Ho messa in pratica tale soluzione numerose volte senza avere problemi, ed in effetti mi sembra ineccepibile.



O no? 

In origine le licenze di commercio non potevano essere trasferite in base a contratti fra privati che le avessero ad oggetto. Ciò, con riferimento alla natura di atto amministrativo del rilascio della licenza. Conseguentemente, in caso di cessione di azienda e di correlativa successione nella titolarità dell'impresa, era necessario che l'autorità amministrativa rilasciasse all'acquirente dell'azienda ex novo una propria e distinta licenza di commercio.

Senonché, in linea pratica, il passaggio - la cosiddetta voltura della licenza - in caso di cessione di azienda, si attuava, ugualmente, dall'alienante all'acquirente.

La legislazione vigente dispone che in caso di trasferimento di azienda, sia della sua titolarità sia del suo esercizio, per atto tra vivi o a causa di morte, comporta l'automatico trasferimento della odierna autorizzazione amministrativa che, come è noto, corrisponde all'antica licenza di commercio, sempreché sia accertato l'effettivo trapasso dell'esercizio e l'acquirente subentrante risulti iscritto nel registro, di nuova istituzione, degli esercenti il commercio, iscrizione che comprova la presenza dei requisiti personali legalmente prescritti.

Il codice civile definisce, nell'art. 2555, l'azienda come "il complesso dei beni organizzati dall'imprenditore per l'esercizio dell'impresa".

Più precisamente, l'azienda è l'organizzazione, nella quale l'attività imprenditrice si concreta: l'organismo tecnico-economico, mediante il quale si realizza la coordinazione dei fattori della produzione cui l'impresa presiede; mercé la quale, l'impresa si attua e si svolge.

Elementi costitutivi dell'azienda, sono non solo le cose materiali o beni in stretto senso, ma anche i servizi che nell'azienda si coordinano e si organizzano e i beni immateriali, compresi i segni distintivi, quali la ditta, l'emblema, l'insegna, i marchi di impresa; brevetti, diritti di autore, concessioni in esclusiva, facoltà di utilizzazione e secondo alcuni autori anche altri elementi o valori economici; come aspettative, situazioni o relazioni abituali e di fatto.

Inoltre è da precisare che i beni che costituiscono l'azienda non devono appartenere necessariamente, in proprietà, alla stessa persona, ossia a chi è proprietario dell'azienda nel suo complesso; per giunta altri elementi dell'azienda, come i servizi, sono insuscettibili di essere oggetto di diritti assoluti: possono essere soltanto oggetto di diritti relativi.

Qualora la volontà contrattuale non si appunti, sia pure implicitamente, sull'avviamento, oggetto del trasferimento non sarà più l'azienda, come universalità, bensì un coacervo di beni disgregati e sconnessi. Non si avrà cessione, ma cessazione di azienda.

L'avviamento non si esaurisce nella clientela, come talvolta a torto si è ritenuto.

L'avviamento non è uno degli elementi costitutivi dell'azienda, bensì un modo di essere, una qualità dell'azienda, presa nel suo complesso.

Non è dunque un bene per sé stante, ma un attributo di un bene, ossia del complesso aziendale.



In conclusione, ritengo che un atto di cessione di azienda perché sia valido possa far riferimento anche soltanto ad elementi costitutivi diversi dai beni materiali, purché, però, sia sempre indicato l’avviamento.




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