Ana səhifə

Testimonianze sullo stalinismo Premessa: cosa non si può non sapere sulla repressione staliniana


Yüklə 317 Kb.
səhifə2/6
tarix25.06.2016
ölçüsü317 Kb.
1   2   3   4   5   6
Figli del 1917 (1917-1928)”

 

Il solo pregio di questa prima parte è quella di ricostruire il clima eroico e informale del primo decennio del potere sovietico, anche se ci sono ancora abbondanti tracce dei pregiudizi e delle faziosità che avevano caratterizzato il primo libro di Figes (La tragedia di un popolo, cit.).



Mi è sembrato assai efficace un aneddoto raccontato da Elizaveta Drabkina, che di Lenin fu amica e collaboratrice (e ci ha lasciato un bel libro, tradotto anche in italiano, su Gli ultimi giorni di Lenin, Tindalo, Roma, 1970). Elizaveta nel 1917 aveva dimenticato com’era fatto suo padre, scomparso nella clandestinità dodici anni prima, quando lei aveva solo cinque anni. Ora si erano incontrati perché la Drabkina era diventata segretaria allo Smol’nyj, e aveva saputo qual’era lo pseudonimo del padre, Sergej Gusev, divenuto presidente del Comitato militare rivoluzionario del Soviet di Pietrogrado, ma non lo aveva cercato per farsi riconoscere, dato che in quegli ambienti “si presumeva che ogni bolscevico sacrificasse i propri interessi personali alla causa comune”, ed era considerato “filisteo” occuparsi della vita privata mentre il partito era “impegnato in una lotta decisiva per la liberazione dell’umanità”. Ma un giorno Elizaveta lo aveva incontrato nella mensa dello Smol’nyj. Dopo aver mangiato la razione di zuppa di cavolo e avena, lei, appena diciassettenne, aveva ancora molta fame, e aveva notato un uomo prestante in divisa mentre mangiava la stessa misera zuppa di tutti “tenendo il cucchiaio in una mano, mentre nell’altra stringeva una matita con cui firmava i documenti che i suoi collaboratori gli mettevano davanti.

D’un tratto sentii chiamarlo: “Compagno Gusev!”.

“Ah! – pensai - allora quello è mio padre!” All’improvviso, senza pensare a quello che facevo, mi alzai , uscii da dietro il tavolo, mi feci strada fino a Gusev, e dissi: “Compagno Gusev, ho bisogno di lei”.

Voltò verso di me il viso stanco, con gli occhi arrossati per la mancanza di sonno. “La ascolto, compagna!”

“Compagno Gusev, sono sua figlia – dissi – mi dia tre rubli per mangiare”.

Evidentemente era stanco al punto che di quanto gli avevo detto sentì solo la richiesta dei tre rubli.

“Prego, compagna”, disse, e infilata la mano nella tasca interna della giacca estrasse il portafoglio, ne tirò fuori una banconota verde, nuova e frusciante, da tre rubli. La presi, lo ringraziai e ordinai un altro pasto. (p. 14)

L’aneddoto piacque tanto a Lenin, che se lo fece raccontare più volte. Elizaveta oltre a essere la segretaria di Jakov Sverdlov, lo straordinario compagno che resse la segreteria del partito bolscevico con poche decine di collaboratori (mentre dopo la sua morte, nel marzo1919, l’apparato con Stalin si gonfierà a dismisura), era diventata una mitragliera della Guardia rossa, e aveva combattuto nell’Armata rossa. Col padre riuscirà poi a ristabilire un minimo di rapporto, e per un certo periodo vissero in uno stesso appartamento. L’episodio effettivamente rende l’idea del clima di quegli anni: non tanto per il sovraccarico straordinario di fatica e preoccupazioni del padre, ma per un dato da non sottovalutare: il presidente Gusev-Drabkin mangiava la stessa sbobba alla stessa mensa di tutti gli altri. E la giovane funzionaria Elizabeta aveva fame come tutti, non c’erano razioni speciali, e non aveva neppure tre rubli per un’altra zuppa…

Nel dicembre 1936 Elizaveta Drabkina venne arrestata come trotskista, e condannata a cinque anni di reclusione nel carcere di Jaroslavl’. Ma già nel 1939 la sua condanna era stata portata a quindici anni, da scontare nel campo di lavoro di Noril’sk, nelle miniere di carbone, dove rimase menomata nell’udito per un’esplosione e fu trasferita nel settore tecnico, incaricata di tradurre libri e manuali stranieri. Invano tra il 1941 e il 1945 fece per quattro volte domanda di essere inviata al fronte…

Scheda. Il rigonfiamento dell’apparato

L’inizio del rigonfiamento precede la nomina di Stalin a “segretario generale”, fatta proprio per “coordinare” un apparato che cresceva vertiginosamente.


In una lettera del 25 settembre 1922 Lenin aveva detto brutalmente: “il nostro apparato è una tale porcheria che bisogna ripararlo radicalmente”. In un'altra lettera del maggio 1921 aveva parlato di “m... schifezza del nostro apparato di direzione”. In un’altra lettera del febbraio 1922 diceva che “in queste “sezioni” (se così si chiamano tali istituzioni presso il CC) vi sono in posti importanti degli stupidi e dei pedanti. […] Noi stessi, (“lottando contro il burocratismo”…) ce ne creiamo uno sotto il naso dei più vergognosi e dei più stupidi. Il potere del Comitato centrale è grandissimo. Le sue possibilità sono immense. Distribuiamo il lavoro a 200-400 mila funzionari di partito e, per mezzo loro, a migliaia e migliaia di senza partito. E questa gigantesca opera viene completamente rovinata dal burocratismo ottuso!”. (I passi citati sono tratti da: Lenin, Opere, vol. 45, Editori Riuniti, Roma, 1970, p. 587, 116 e 472. In quel volume, pubblicato dopo la morte di Stalin, ci sono decine di altri passi che vanno nella stessa direzione).
La lettera era indirizzata a Vjaceslav Molotov, che fu per tutta la vita il principale collaboratore di Stalin. Si noti che le dimensioni dell’apparato sfuggivano a Lenin, tanto è vero che la cifra presumibile oscillava tra 200 e 400 mila. Nei primi anni dopo la rivoluzione, la segreteria del partito affidata a Sverdlov contava invece poche decine di militanti efficienti e soprattutto coscienti.
Invece sotto la guida di Stalin, oltre a ingigantirsi, l’apparato aveva cambiato natura: “Abbiamo nelle sfere più alte del potere non si sa esattamente quanti, ma almeno qualche migliaio, al massimo qualche decina di migliaia dei nostri. Tuttavia alla base della gerarchia centinaia di migliaia di ex funzionari che abbiamo ereditato dallo zar e dalla società borghese, lavorano, in parte coscientemente in parte incoscientemente, contro di noi”. Il passo, tratto dal volume XLV dell’edizione russa, è citato in Moshe Lewin, L’ultima battaglia di Lenin, Laterza, Bari, 1969, p. 19. Vale la pena di confrontarlo con i versi di Majakovskij che ho citato nell’articolo Con Dario Fo alla riscoperta di Majakovskij ...e dell'URSS degli anni Venti, oggi nel sito all’interno del testo “Il vicolo cieco”. Trionfo, involuzione e tragedia del movimento comunista.
Sui cambiamenti non solo quantitativi del partito rimane insuperabile il libro di Giuliano Procacci, Il partito nell’Unione Sovietica. 1917-1945, Laterza, Roma-Bari, 1974, purtroppo introvabile se non in qualche rivendita dell’usato.

 

La ricostruzione delle vicende di quel primo decennio in questo capitolo presenta una sfasatura tra le testimonianze riportate, da cui emerge in genere il quadro di una terribile povertà condivisa, e le ricostruzioni storiche di Figes, ricalcate sul suo libro precedente e intessute da frequenti luoghi comuni non documentati: ad esempio sul ruolo personale di Trotskij a Kronštadt. Ricalcando quanto aveva scritto nel suo libro precedente, Figes confonde i marinai insorti nel 1921 con quelli del 1917, che in gran parte avevano lasciato la base, diventando preziosi quadri dell’Armata Rossa. Figes ignora quanto era stato spiegato dettagliatamente più volte dal capo dell’Armata Rossa, che appunto, proprio perché si era scontrato pochi mesi prima con i marinai della fortezza nel dibattito sul sindacato, ritenne inopportuno partecipare all’assalto (di cui peraltro si dichiara corresponsabile politicamente per averlo votato nel X Congresso del partito). Né Figes riporta la proposta di realizzare qualcosa di simile a quella che si chiamerà NEP fatta da Trotskij già nel febbraio 1920 e respinta dal Polibjuro; su questa invece è molto corretta la ricostruzione di Andrea Graziosi nel primo volume della sua Storia dell’Unione Sovietica: Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. 1914-1945, il Mulino, Bologna, 2007, pp. 134-135.



Non convince che nelle ricostruzioni di quel decennio Figes parli spesso genericamente di mutamenti avvenuti gradualmente “nel corso degli anni Venti”. Quando? Nel 1921 o nel 1929? C’è una bella differenza. Ad esempio, lo stesso Figes accenna di sfuggita che in quel periodo “a ex SR e menscevichi era ancora consentito di lavorare nel governo sovietico”.

Contrariamente a quanto riportato in molti dei libri d’insieme sulla repressione, dal libro emerge inoltre chiaramente che per tutti gli anni Venti, a parte le vicende drammatiche della guerra civile e l’episodio di Kronštadt (su cui, per chiarire che non lo sottovaluto né lo approvo, rinvio a quanto ho scritto ed è reperibile oggi sul sito sotto il titolo “Trotskij e Kronštadt”), si riportano molti episodi di intolleranza religiosa e politica, di fanatismo e di conformismo, ma non di repressione violenta ed esecuzioni. Nulla di comparabile a quello che accadrà dopo l’invio dei principali oppositori in esilio, e poi nel corso degli anni Trenta.

Anche i dati quantitativi dovrebbero pesare: nel primo pur tanto drammatico decennio in cui l’esistenza del potere sovietico era stato spesso in bilico e doveva difendersi da molteplici attacchi esterni, i prigionieri si contano in decine di migliaia, a partire dalla fine degli anni Venti in centinaia di migliaia, e tra il 1937 e il 1953 in milioni (non mi interessa entrare nella logica del calcolo esatto di quanti milioni: quando si raggiungono queste dimensioni, cambia poco per il giudizio morale).

Orlando Figes d’altra parte sottolinea soprattutto i mutamenti graduali di mentalità, come quello che risulta dalla testimonianza di quello che definisce “un idealista del Komsomol”, Mihail Bajtalskij. Egli aveva “corteggiato a lungo una ragazza ebrea di nome Eva, segretaria della locale sezione del Komsomol” e aveva finito per convincerla al matrimonio, nonostante le scarse occasioni di intimità tra i due, dovute soprattutto allo zelo fanatico con cui Eva si dedicava al suo lavoro, considerando una distrazione inammissibile avere rapporti intimi (al massimo Mihail poteva sperare di tenerle una mano riaccompagnandola a casa rubandole un bacio). Dopo il matrimonio ebbero un figlio che chiamarono Vi (dalle iniziali di Lenin!), ma il matrimonio si ruppe quando nel 1927 Bajtalskij fu espulso per “trotskismo” e costretto da Eva ad andarsene di casa. Nel 1929 fu arrestato. L’intolleranza, dunque, aveva preceduto di due anni la repressione.

Ripensando a quelle vicende negli anni Settanta, Bajtalskij ha detto di ritenere che Eva fosse una brava persona, che aveva però messo da parte la propria bontà per “senso del dovere verso il partito”. Tra i bolscevichi ce n’erano tanti come Eva, e la loro totale accettazione delle valutazioni espresse dai dirigenti del partito non venne meno quando la rivoluzione lasciò il passo a una repressione spietata e alla distruzione di una parte notevole dei quadri più maturi e critici. Egli osservava:

Queste persone non degenerarono, anzi, al contrario, cambiarono troppo poco. Il loro mondo interiore rimase quello di prima, impedendo loro di vedere quanto era cominciato a cambiare nel mondo esterno. La loro sfortuna era il conservatorismo (lo definirei “conservatorismo rivoluzionario”), espresso nella loro immutata devozione …alle norme e alle definizioni acquisite durante i primi anni della rivoluzione. Persone simili si lasciavano addirittura persuadere a confessare di essere spie per il bene della rivoluzione. E molte si convinsero, e morirono credendo che comportarsi così fosse necessario alla causa rivoluzionaria. (p. 38)

Bajtalskij forse era troppo indulgente non solo nei confronti dell’ex moglie. Negli anni Settanta aveva incontrato un vecchio stalinista, suo compagno nel Komsomol degli anni Venti, diventato ingegnere in una fabbrica ai tempi di Stalin, di cui era un fanatico sostenitore.

Non difendeva il dittatore (conosceva i fatti), anche se credeva ancora in molte delle sue affermazioni, per esempio riguardo alla colpevolezza di Tuha evskij e di altri “nemici del popolo”, e rifiutava di metterle in discussione. Bajtalskij giunse alla conclusione che il vecchio amico non si aggrappasse a un’ideologia stalinista, quanto piuttosto all’orgoglio per le qualità che lui stesso aveva in quegli ardenti anni giovanili. Non voleva rinunciare alle sue convinzioni degli anni Venti e Trenta, ormai diventate parte integrante della sua personalità, e rifiutava di ammettere che proprio quelle qualità avessero favorito la sua “disponibilità interiore ad accettare tutto, proprio tutto, persino l’esecuzione dei suoi compagni più cari. (p. 551)

Figes fornisce parecchi altri esempi, ma io stesso ho conosciuto bene uno degli scampati alla repressione, Paolo Robotti, il cognato di Togliatti, che continuava nella seconda metà degli anni Sessanta a sostenere che se tutti avessero resistito come lui alle torture, l’ondata repressiva si sarebbe sgonfiata e a giustificare l’ingiustificabile in URSS (su Robotti rinvio a quanto scrivevo nell’articolo “Il 1956 visto da una sezione del PCI a Roma,” ora nel sito). Va aggiunto solo che, quando ne ho scritto, non aveva ancora visto i documenti (riportati in particolare nei Dialoghi del terrore, cit.) che provano che Robotti non fu solo vittima, ma anche zelante delatore prima e dopo quei sedici mesi di detenzione…

In ogni caso emergerà chiaramente, dalla stessa costruzione del libro, che Figes, pur riportando sintomi inquietanti risalenti agli anni Venti, non ha dubbi: la “grande svolta” è successiva. Quando afferma che “le epurazioni iniziarono ben prima dell’ascesa al potere di Stalin”, si capisce che fa una grande confusione, ignorando una delle caratteristiche essenziali dello stalinismo, il mutamento semantico, che attribuisce valori diversi alla stessa parola. Il “centralismo democratico” ad esempio, era stato concepito da Lenin al momento della riunificazione con i menscevichi dopo la rivoluzione del 1905 come garanzia per i bolscevichi, che nel partito riunificato erano in minoranza, e non ha niente a che vedere con le misure vessatorie introdotte da Stalin contro il diritto delle minoranze di esporre le proprie tesi in periodo congressuale. L’egualitarismo era diventato “egualitarismo piccolo borghese” e quindi combattuto; il diritto di frazione che aveva caratterizzato il partito operaio socialdemocratico russo e che era stato “temporaneamente sospeso” nel 1921 viene negato, il “frazionismo” diventa il crimine supremo, da espiare anche con la morte.

Così Figes, esploratore di tutti gli archivi possibili, ma che evidentemente non si è confrontato pazientemente con la ricchissima raccolta degli scritti di Lenin, non capisce che il termine “epurazione”, proposto effettivamente da Lenin, si riferiva all’allontanamento di quegli arrivisti e carrieristi che erano entrati nel partito verso la fine della guerra civile, una volta consolidatosi il potere sovietico. Lenin aveva richiesto più volte di ridurre le dimensioni del partito, ma dopo la sua morte Stalin al contrario organizza una “Leva Lenin” che raddoppia gli iscritti al partito facendovi entrare in massa operai senza alcuna esperienza, che verranno poi adeguatamente “indottrinati” con i “Principi del leninismo”. Viceversa comincerà l’allontanamento dei militanti più formati. (Si veda sopra la scheda sul “rigonfiamento dell’apparato”). Allontanamento, comunque, non uccisione o incarcerazione. D’altra parte da molti punti di vista, dalla seconda metà degli anni Venti lo stalinismo si consolida e si rafforza, ma incontrando forti resistenze che dureranno fino al 1934, quando l’assassinio di Kirov attribuito all’opposizione spezzerà ogni resistenza a Stalin. L’ho ricostruito attentamente nel IV capitolo di Intellettuali e potere in URSS, ora nel sito, dedicato appunto a quel drammatico anno di svolta, in cui ci fu nel XVII congresso l’ultimo tentativo di sostituire Stalin, che aveva accumulato catastrofi provocando una carestia spaventosa con la collettivizzazione forzata e aprendo la strada a Hitler con la tattica imposta al partito comunista tedesco e all’intera internazionale.

La grande svolta (1928-1932)”

Il capitolo sulla grande svolta invece coglie bene l’origine dell’accelerazione autoritaria, e anche la data è ben scelta. Non solo e non tanto per il salto qualitativo rappresentato dall’esilio di Trotskij nella lontana Alma Ata (dopo la morte di Lenin gli oppositori erano stati allontanati da Mosca, ma col pretesto di incarichi di partito in regioni più o meno remote), quanto per l’inizio della collettivizzazione forzata e dell’offensiva contro i kulak. I danni furono enormi, non solo per gli effetti tremendi sull’economia agricola, da cui l’URSS non si riprenderà mai del tutto e a cui abbiamo accennato, ma soprattutto per gli effetti sulle centinaia di migliaia di quadri inviati nelle campagne per imporre con la violenza la collettivizzazione, sia che come Pasternak ne rimanessero sconvolti, sia che si adattassero in pieno a quella barbarie. Anche su questo non mi dilungo, ne ho parlato spesso altrove; gli esempi portati da Figes sulle ripercussioni a distanza di anni e di decenni sui figli di quei kulak veri o presunti, sono comunque impressionanti. Ci sono anche testimonianze su come, decenni dopo, chi provava a ritornare nel villaggio natale almeno per rivederlo, veniva accolto con ostilità da chi aveva preso la sua casa e i suoi beni (alcuni episodi richiamano alla memoria l’accoglienza riservata nel 1945-1946 da molti polacchi agli ebrei scampati al genocidio).

Questa parte, che è sostanzialmente corretta e come al solito ricca di testimonianze dirette, andrebbe letta da chi di quel periodo non ha capito niente, ma continua a elogiare i meriti di Stalin. C’è chi continua a ripetere che egli non avrebbe voluto quel che è successo… Costoro si appigliano magari all’ipocrita articolo sulla Vertigine dei successi, con cui il Vozd scaricava un po’ di responsabilità sugli esecutori degli ordini, e incoraggiava i contadini a tentare di uscire dai Kolchoz, per riprendere subito dopo la repressione più feroce identificando chi aveva tentato di farlo. Questi giustificazionisti sono i neanderthaliani della sinistra, in via di estinzione, e potremmo ignorarli.

Più diffusi i pontefici di centrosinistra, che si affrettano a ripetere che Trotskij avrebbe fatto come e peggio di Stalin, e che comunque con la collettivizzazione non ha fatto che applicare la linea proposta dall’Opposizione di sinistra. Ignoranza o stupidità o malafede? L’Opposizione di sinistra proponeva fin dai suoi primi documenti del 1923-1924 di incoraggiare i contadini poveri a entrare in cooperative attraverso incentivi materiali, soprattutto orientando l’industrializzazione verso prodotti necessari ai contadini. E lo proponeva in quegli anni, in cui le distorsioni provocate dalla NEP e dalla parola d’ordine “Arricchitevi!” avevano cominciato a divenire palesi ma non si erano consolidate.

Stalin, allora strettamente legato a Bucharin, rifiuta nettamente e ignora il problema fino a quando, cinque anni dopo, è diventato esplosivo. Allora non rimane che la violenza. Ma confondere la proposta politica dell’Opposizione con la violenza della collettivizzazione forzata di Stalin è un po’ come considerare equivalenti un rapporto intimo consensuale e uno stupro a mano armata.

Figes evita questa confusione e afferma che durante la NEP “quasi tutti concordavano sul fatto che la collettivizzazione doveva essere un processo graduale e volontario. (…) L’improvviso cambiamento di linea politica fu imposto da Stalin nel corso del 1929” e fu un colpo sferrato contro il suo ex alleato Bucharin.

In realtà la svolta era cominciata nel maggio 1928, ma diventa visibile solo un anno dopo, quando il conflitto con Bucharin, Rykov (capo del governo) e Tomskij (presidente dei sindacati) non è più nascosto dietro bizantini attacchi a un misterioso e non identificato “pericolo di destra” evocato da un anno. Figes osserva che l’accelerazione della collettivizzazione è la conseguenza della decisione di imporre tassi di crescita sempre più alti.

Gli investimenti dovevano triplicare, la produzione di carbone raddoppiare e quella della ghisa (che nella versione originale del piano, doveva aumentare del 250 %) quadruplicare entro il 1932. In un accesso di frenetico ottimismo, in larga misura condiviso dalla base del partito, la stampa sovietica propose lo slogan “il piano quinquennale in quattro anni”. Proprio questi tassi di crescita utopistici costrinsero il partito ad accettare la politica staliniana della collettivizzazione di massa come l’unico sistema per assicurarsi l’approvvigionamento di generi alimentari a basso costo, condizione indispensabile per sfamare la manodopera industriale in rapida espansione (oltre che per procurarsi capitale vendendoli all’estero).(p. 81)

Come è noto, la produzione agricola crollò invece a livelli bassissimi. I contadini, prima di essere forzati a entrare nel kolchoz macellavano le loro bestie mangiando per l’ultima volta abbondantemente, e nascondendo le carcasse sotto il frigorifero naturale della neve. A volte venivano deportati senza che si trovasse il nascondiglio, che veniva scoperto – ormai in putrefazione – quando nei villaggi semideserti era scoppiata la primavera. Così furono distrutti 14 milioni di bovini, un terzo dei suini e degli ovini. Circa due milioni e mezzo di kulak e “assimilati” (per essere considerati tali bastava, anche se poverissimi, aver manifestato dissenso o dispiacere per la sorte di un parente o amico) furono deportati in quella prima fase.

La collettivizzazione aiutò l’industrializzazione solo in altro modo: con la generalizzazione del lavoro schiavistico, che compare in quegli anni su larga scala e viene usato soprattutto per infrastrutture come i canali tra il mar Bianco e il mar Baltico, o tra il Volga e il Caspio, e per le miniere nell’estremo nord inospitale.

Secondo Stalin, la guerra contro i kulak era inscindibile dalla campagna per la collettivizzazione; egli respingeva l’idea di utilizzare i kulak come braccianti, come proponevano alcuni dirigenti: “Quando si taglia la testa – sosteneva – non si piange per i capelli”. D’altra parte nel complesso le iniziative di resistenza non furono moltissime. Anche se vi furono villaggi in cui gli abitanti si opposero alle quote, insistendo che lì non c’erano kulak ed erano tutti ugualmente poveri, e altri in cui si rifiutarono di consegnarli, o cercarono perfino di difenderli quando arrivavano attivisti per arrestarli, in altri ci fu una “passiva rassegnazione dettata dalla paura”.

In alcuni luoghi furono gli stessi contadini a scegliere i kulak. Tenevano un’assemblea di villaggio e si limitavano a stabilire chi dovesse andarsene (particolarmente vulnerabili erano gli agricoltori soli, i vedovi, gli anziani). Altrove vennero estratti a sorte. (p.85).

Figes riporta la testimonianza di Dmitrij Streleckij, un giovane nato in una grande famiglia contadina della regione di Kurgan, in Siberia, che rimase un fervente stalinista, e manifestò sempre un ingenuo attaccamento al partito, in cui cercherà di entrare più volte dopo la fine della deportazione. Dmitrij ricorda il modo in cui gli abitanti del villaggio scelsero i suoi genitori perché fossero deportati come kulak.

Non vi furono ispezioni o calcoli. Si limitarono a venire da noi e a dirci: “voi ve ne dovete andare”. Serkov, il presidente del soviet di villaggio incaricato dell’espulsione, spiegò: “Ho ricevuto l’ordine [dal comitato di partito del distretto] di trovare 17 famiglie di kulak da deportare. Allora ho costituito un comitato di contadini poveri e abbiamo trascorso la notte a scegliere le famiglie. Nessuno nel villaggio è abbastanza ricco da avere i requisiti, e non ci sono molti anziani, quindi abbiamo scelto semplicemente 17 famiglie. E voi siete tra quelli”, ci disse. “Per favore, non prendetela come un fatto personale. Che altro potevo fare?” (Ibidem)

Figes ricostruisce in altre pagine il fenomeno complessivo, riportando valutazioni diverse sulla dimensione delle deportazioni: tra il 1929 e il 1932 in un modo o nell’altro avrebbero lasciato le loro case circa dieci milioni di contadini, la maggior parte stipati in carri bestiame, altri incolonnati a piedi, alcuni vivendo da fuggiaschi. Bambini e anziani morivano come mosche. Ma forse il racconto dell’ingenuo Streleckij è più efficace nel rendere le infinite tragedie umane nascoste dietro quelle cifre.

La sua famiglia venne espulsa dalla fattoria in cui viveva da cinquant’anni, la casa distrutta, gli attrezzi agricoli, carri, cavalli e mucche trasferiti al kolchoz, mentre gli oggetti più piccoli, la biancheria, le stoviglie, furono prese dai vicini. Le icone di famiglia spezzate e bruciate. Tutti erano stati ammucchiati in una stalla, in attesa del trasferimento verso un campo forestale degli Urali: partirono in 14, i nonni con tre dei figli e vari nipoti. Uno degli zii di Dmitrij era stato escluso dalla deportazione, perché era un veterano dell’Armata Rossa che aveva combattuto nella guerra civile, ma un anno dopo era stato “scelto” anche lui come kulak, per una seconda quota di deportati, e aveva avuto solo un’ora per prepararsi e scegliere qualcosa da portarsi. I nonni intanto erano morti nel corso del primo anno. Dmitrij Streleckij ricorda con amarezza che al momento della partenza non avevano potuto portare niente.

Perdemmo tutto. Che cosa potevamo sperare di riporre in un’ora? Papà voleva prendere i suoi bastoni da passeggio (uno aveva il pomo d’argento), ma le guardie non glielo consentirono. Inoltre tolsero l’anello e la catena d’oro a mia madre. Fu un furto bello e buono. Ci lasciammo alle spalle tutto: casa, fienili, bestiame, biancheria, abiti e porcellane. Avevamo soltanto qualche straccio, e ovviamente, noi stessi, i nostri genitori, figli, fratelli e sorelle, la vera ricchezza vivente della famiglia. (p.87)

Ricordo al lettore distratto che Dmitrij è rimasto stalinista fino al 1956, fino a quando, cioè, uno dei collaboratori e complici di Stalin spiegò cos’era stato il dittatore…

Figes riporta anche testimonianze (tante) di chi stava dall’altra parte. Lev Kopelev, un giovane comunista che aveva partecipato ad alcune delle atrocità perpetrate contro i contadini ucraini, aveva ammesso di essere entrato con iniziale entusiasmo come volontario in una brigata del Komsomol che nel 1932 requisiva il grano ai kulak, prendendo tutto quello che avevano, sino all’ultima pagnotta. Ripensando a quell’esperienza negli anni Settanta, dopo aver conosciuto da vittima l’esperienza del Gulag, Kopelev ricordava le urla dei bambini e l’aspetto dei contadini “terrorizzati, imploranti, pieni d’odio, di una passività apatica, consumati dalla disperazione o infiammati di una ferocia temeraria al limite della pazzia”.

Era un tormento vedere e udire tutte quelle cose. Ancora peggio parteciparvi… E io mi persuadevo, mi davo delle spiegazioni. Non devo cedere a una pietà debilitante. Stavamo provvedendo a una necessità storica. Stavamo compiendo il nostro dovere di rivoluzionari. Stavamo procurando il grano alla patria socialista. Per il piano quinquennale.

Kopelev nel suo bilancio ricorda gli sforzi che faceva per subordinare il proprio giudizio morale (che definiva “verità soggettiva”) ai fini morali superiori (la “verità oggettiva”) del partito. Anche quando cominciava a provare orrore per quello che stava facendo, si “inchinava alla volontà del partito: la prospettiva di rinunciare a questa posizione in nome di valori “borghesi” come “la coscienza, l’onore e lo spirito umanitario” lo atterriva. “La cosa di cui avevamo più paura era (…) di cadere nel dubbio o nell’eresia perdendo la nostra fede illimitata”. (p. 173).

Non era il solo. Perfino Boris Pasternak, che era rimasto sconvolto da quel che aveva visto durante la collettivizzazione, nell’aprile 1935 aveva scritto a Ol’ga Frejdenberg:

Eppure ti confesserò che più passa il tempo, più, nonostante tutto, sono pieno di fiducia in tutto quello che si sta facendo qui da noi. Molte cose colpiscono per la loro barbarie e ad ogni piè sospinto ti attende una sorpresa. Ma nonostante tutto, se si tiene conto delle risorse russe, rimaste sostanzialmente intatte, mai si è guardato così lontano e in modo così degno, basandosi su idee vive e non stagnanti. (p. 172)

Anche Nade~da Mandel’štam ricorda che lei e il marito, il grande poeta Osip, che nel 1934 sarebbe stato arrestato e ucciso per una poesia su Stalin letta in una cerchia di dieci amici stretti (di cui uno, evidentemente, era un delatore), a volte avevano pensato più meno la stessa cosa, e avevano espresso il timore “che la rivoluzione li avrebbe lasciati indietro se non si fossero accorti di tutte le cose meravigliose che stavano accadendo”…

Figes riporta molti casi di questa identificazione con l’ideologia del regime anche da parte di chi stava per essere colpito dalla repressione, e perfino, abbiamo visto, da parte di alcune delle vittime.

Ma già in quella prima fase del terrore, non mancarono episodi di resistenza più o meno efficacemente organizzata. Pochi rispetto all’immensità del territorio e della popolazione coinvolti, ma non insignificanti: nel solo biennio 1929-1930 la polizia registrò 44.799 “disordini gravi”. Centinaia di comunisti e attivisti spediti nelle campagne per imporre la collettivizzazione e deportare i kulak, furono uccisi e molte migliaia aggrediti e bastonati.

C’erano manifestazioni contadine e tumulti, assalti alle istituzioni sovietiche, tentativi di incendio e attacchi alle proprietà dei kolchoz, proteste contro la chiusura delle chiese. Era quasi una replica della situazione creatasi alla fine della guerra civile, quando in tutto il paese le insurrezioni contadine avevano costretto i bolscevichi a rinunciare alle requisizioni e a introdurre la NEP, ma questa volta il regime sovietico era abbastanza forte da soffocare la resistenza (anzi, molte rivolte contadine del 1929-1930 furono provocate dalla polizia per far uscire allo scoperto e sopprimere i “kulak ribelli”. (p. 89)



È un passo esemplare: da un lato, al di là dell’opinione di Figes e della maggior parte degli storici occidentali anticomunisti o comunque mai stati comunisti, emerge chiaramente la differenza tra il periodo della guerra civile e la collettivizzazione. Le requisizioni del 1918 erano imposte dalla necessità di sopravvivere, quelle del 1929 avevano lo scopo di “sopprimere i kulak o presunti tali. La differenza nella repressione non dipende dal fatto che “il regime sovietico era abbastanza forte” (una repressione di quelle dimensioni, con la crescita esponenziale delle polizie, è in genere sintomo di debolezza, non di forza), ma semplicemente che era un’altra cosa di quello del 1918. La scheda sui contadini, estratta dalla mia dispensa “Il vicolo cieco”, fornisce alcuni elementi di riflessione.

Scheda: Il rapporto città-campagna nel 1918
Il conflitto tra i contadini e i soviet non era ideologico, ma concretissimo (ed era anzi un conflitto di interessi tra città e campagna). I contadini avevano coltivato la terra conquistata nel corso della rivoluzione prima di tutto per soddisfare i propri bisogni. Gli appezzamenti ottenuti erano quasi sempre troppo piccoli per assicurare un surplus sufficiente a rendere conveniente un viaggio per collocare le eccedenze in zone lontane dove rendevano di più (ad esempio in una zona cerealicola ovviamente il grano vale poco, perché tutti ne hanno), e in ogni caso il caos dei trasporti, dovuto agli effetti prolungati della guerra, e a quelli incipienti della guerra civile, rendeva meno interessante uno sforzo per aumentare la produzione oltre il fabbisogno familiare.
La conseguenza fu che le città furono affamate come mai durante la guerra. I soviet di fabbrica organizzarono spedizioni nelle campagne per procurarsi cibo, con le buone o le cattive maniere. I contadini venivano pagati con i nuovi rubli stampati dal potere sovietico, di cui tuttavia diffidavano a causa dell’inflazione galoppante (non era una situazione solo russa ma di tutta l’Europa del primo dopoguerra, con il famoso caso limite della Germania). Per i contadini non erano che pezzi di carta, sicché preferivano i vecchi rubli zaristi (e lo Stato sovietico fu costretto per questo a stamparne un certo quantitativo, che naturalmente si svalutavano non meno degli altri). Il problema vero è che vecchi o nuovi rubli non avevano un quantitativo equivalente di prodotti industriali da acquistare, per il crollo della produzione dovuta al blocco dei porti da parte delle potenze antisovietiche, alla mancanza di carburante, di pezzi di ricambio, alla difficoltà di far giungere sul luogo di produzione le materie prime per il caos dei trasporti. La produzione scese al 13% di quella del 1913, e quelle poche fabbriche che funzionavano erano per giunta destinate a sostenere lo sforzo militare imposto dall’aggressione e dalla guerra civile che divampava.
Non era facile distinguere le responsabilità esterne e le cause profonde di questa situazione: per molti contadini è più semplice dire “i comunisti sono cattivi, i bolscevichi erano buoni”. Se non si univano stabilmente ai “bianchi” è solo perché il programma di questi puntava apertamente a cancellare la riforma agraria; ma molti contadini tenteranno di combattere gli uni e gli altri formando le famose bande “verdi” poi mitizzate dagli anarchici.

Lenin e i contadini

Tra le varie calunnie che sono state rimesse in circolazione nella grande operazione anticomunista del cosiddetto Libro nero del comunismo, curato da Stéphane Courtois e rilanciato in Italia da Mondadori (con la grande sponsorizzazione di Berlusconi) c’è il mito di un Lenin spietato e pronto a sterminare i contadini perché refrattari al comunismo. In realtà nelle Opere di Lenin, che raccolgono anche i più piccoli appunti presi durante il convulso periodo della guerra civile, si trovano molti scritti che provano il contrario (e non si dimentichi che non erano destinate alla pubblicazione). La stessa frase sui bolscevichi buoni e i comunisti cattivi era stata detta per stimolare alla riflessione sulle cause di una crisi di relazioni che poteva essere tragica per la rivoluzione. Sono interessanti ad esempio le lettere con cui Lenin sottopone all’attenzione dei collaboratori la figura di un contadino che ha avuto modo di incontrare, Ivan Afanasievic Cekunov, che “simpatizza con i comunisti, ma non entra nel partito perché va in chiesa, è cristiano”. Quello che conta è che “migliora l’azienda” e nel suo distretto “con l’aiuto degli operai, è riuscito a ottenere la sostituzione di un cattivo potere sovietico con uno buono”. Soprattutto dice la verità: “i contadini hanno perso la fiducia nel potere sovietico”. Lenin ne propone la fucilazione? Niente affatto, ed anzi conclude che “è a gente simile che dobbiamo aggrapparci con tutte le forze per ristabilire la fiducia delle masse contadine”. Lenin fa molte proposte di inserimento di Cekunov in apposite strutture del potere sovietico, e raccomanda che in ciascuna zona sarebbe meglio trovarne tre, con le stesse caratteristiche: “vecchi”, e soprattutto “senza partito e cristiani”. ( Lenin, Opere, v. 45, Editori riuniti, Roma, 1970, pp.59-60).


Al tempo stesso, Lenin si occupava di molte piccole cose concrete, come il ridimensionamento del costosissimo Bolscioi per finanziare le campagne di alfabetizzazione e le sale di lettura (ma le sue proposte vennero respinte!); gli aumenti incontrollati di personale senza copertura; gli sbarramenti eccessivi per i visitatori del Cremlino; la scelta degli accessori per la fabbricazione degli stivali; ecc.. Insomma era un uomo assai lontano dal fanatico settario descritto da chi vuole impedirci di riflettere su quella straordinaria esperienza…

 

 



Mi fermo qui nell’esame del libro per una semplice ragione: credo che si contino sulle dita di una mano quelli che hanno avuto la pazienza di leggerlo con attenzione fino all’ultima riga, ma mi rendo conto che se continuo ad allungare la recensione, dedicando lo stesso spazio ad altri capitoli molto interessanti (dal IV sulla “Grande paura”, al VI, “Aspettami”, sul tempo della guerra, ecc.), quelli che la leggeranno saranno ancora di meno, e lo scopo divulgativo che mi prefiggevo andrà a farsi friggere. Ma ancora due cose le debbo inserire: Orlando Figes rivisita, grazie a diverse testimonianze, il caso famosissimo di Pavlik Morozov, il pioniere quindicenne ucciso dai parenti perché aveva denunciato e fatto fucilare il padre, ed era stato per questo trasformato in una specie di Santa Maria Goretti o San Luigi Gonzaga del regime, anche grazie a Gor’kij (ma non solo: anche Sergej Ejzenštein si era prestato a fare un film su di lui, Il prato di Be~in, che fu tuttavia vietato da Stalin e di cui rimangono solo poche inquadrature).

La realtà era diversa: il padre di Pavlik, Trofim Morozov, era un contadino medio “sobrio e laborioso” che era stato ferito due volte mentre combatteva nell’Armata Rossa durante la guerra civile. Era stato rieletto tre volte presidente del soviet locale; l’accusa del figlio era di aver fornito documenti falsi ai kulak deportati negli insediamenti speciali. Pavlik non era neppure un pioniere in senso stretto (nel villaggio non ce n’erano, e d’altra parte una scuola rudimentale con maestro unico per tutte le classi era stata aperta solo nel 1931). Pavlik era considerato nel villaggio un “bambino spregevole”, che nutriva rancore verso il padre perché aveva abbandonato la famiglia per un’altra donna. Al processo contro il padre, che gli aveva detto: “Sono io, sono tuo padre”, aveva recitato al giudice la frase d’occasione: “Sì, un tempo era mio padre, ma non lo considero più tale. Non agisco in quanto figlio ma in quanto pioniere”.

Se lo avessero ucciso i familiari del padre, sarebbe stato anche comprensibile, ma in realtà pare che fosse stato ucciso da altri adolescenti, tra cui la cugina Danila (che sarà la principale accusatrice dei nonni nel “processo spettacolo” che venne allestito). In pratica, la montatura venne costruita ricalcando quella zarista del processo del 1913 all’ebreo Mendel Bejlis, accusato di omicidio rituale di un fanciullo cristiano, (ultima manifestazione della barbarie dei Romanov, oggi santificati dalla chiesa russa…).

Il culto ebbe un impatto enorme sulle norme morali e la sensibilità di un’intera generazione di bambini, i quali appresero da Pavlik che la fedeltà allo Stato era una virtù superiore all’amore per la famiglia e ad altri legami personali. Tramite questo culto, in milioni di menti fu instillata l’idea che fare la spia ad amici e parenti non fosse un’infamia, ma una dimostrazione del senso civico che ci si aspettava da un cittadino sovietico. (pp 114-117).

Molte testimonianze riportate da Figes illustrano gli effetti di questo culto negli anni, in particolare sui bambini ospiti degli orfanotrofi (veri orfani o figli piccolissimi di genitori condannati e ricoverati con un nuovo nome, per non essere più rintracciabili da qualche parente).

La storia di Pavlik esercitava una forte attrazione soprattutto sugli orfani, i quali, non avendo esperienza della vita familiare, non riuscivano a capire che cosa avesse fatto di male il ragazzo denunciando il padre. Allevati dallo Stato, erano indottrinati a essergli grati e fedeli per averli salvati dalla miseria, che a quanto veniva loro detto era il destino degli orfani a cui non era toccata la fortuna di nascere in Unione Sovietica, il miglior paese del mondo.

Andando avanti nella lettura ci sono resoconti terribili di orrori (compreso il ricatto della tortura o dello stupro inflitto a familiari per piegare la resistenza di dirigenti come Kos’ior, destinati a fare le comparse con le loro confessioni nei processi spettacolo) ma sono anni in cui non solo viene sterminata la maggioranza assoluta dei dirigenti del 1917, ma in cui si moltiplicano i suicidi di militanti comunisti, da Majakovskij alla moglie di Stalin e a suo tempo segretaria di Lenin, Nade~da Allilueva, da Sergo Ord~onikidze a Mihail Tomskij, il presidente dei sindacati… Non basta per capire che alla soglia degli anni Trenta, l’URSS non era più la stessa di quella dei primi anni dopo la rivoluzione?

L’ultima considerazione riguarda la logica della repressione. Figes aiuta indirettamente, ma dato che non sa bene cosa è stata la rivoluzione e cosa l’ha fatta deviare (a partire dalla guerra civile, di cui non capisce neppure che non fu certo una scelta dei bolscevichi!), non riesce a interpretare bene le trasformazioni della società e la loro periodizzazione. Io invece sono sempre stato colpito da un dato: da tutte le testimonianze e le ricostruzioni coeve dei primi anni rivoluzionari (indipendentemente dalla loro maggiore o minore simpatia per i bolscevichi, da Carr a Chamberlin, da Rosmer a Victor Serge) emerge una società molto diversa rispetto a quella fotografata nel 1936 da Trotskij nella “Rivoluzione tradita”, che invece appare già molto simile a quella degli anni Settanta o Ottanta. I mutamenti sono iniziati nel primo decennio e si sono consolidati nel secondo.

Per il periodo che si conclude con il grande terrore di massa, Figes riesce a ricostruire il quadro delle trasformazioni nella società russa, anche grazie a testimonianze di alto valore, ma non riesce a spiegarne completamente la logica e le forze motrici. Ricorro quindi a un libro che, anche grazie a una diretta esperienza personale, tenta una comparazione tra i diversi sistemi concentrazionari: Andrzej J. KamiDski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.

Chiarito che non esamina i campi di sterminio nazisti, che avevano una funzione diversa, ed erano solo campi di transito rapido verso la morte, KamiDski esamina molti casi di conflitti tra la NKVD e alcuni amministratori dei campi che volevano aumentare la produzione, offrendo condizioni migliori di alloggio e di alimentazione ai lavoratori più efficienti e soprattutto a ingegneri e tecnici. “Secondo gli orientamenti della NKVD i deportati politici dovevano di regola essere adibiti ai lavori pesanti, mentre le mansioni più leggere erano riservate ai criminali comuni”. Ingegneri e tecnici, ovviamente, erano tutti “politici”. La NKVD reagiva minacciando di destituire gli ingegneri capi del campo di Noril’sk, che pure erano riusciti ad aumentare la produzione. KamiDski sostiene che la logica dei campi era di tipo schiavistico (in Germania come in URSS), ma che era insensata dal punto di vista economico.

Per catturare gli schiavi, per mantenerli in soggezione, per sorvegliarli e per obbligarli al lavoro entrambi i sistemi totalitari abbisognavano di un apparato poliziesco estremamente complesso e oltremodo costoso; a questo scopo essi dovettero destinare non poche unità della grandezza di una divisione, in particolare i sovietici, che temevano (…) i loro deportati molto più dei nazisti, nonostante essi dispongano di due guardiani straordinari come la geografia e il clima. (Ivi, p. 186)

KamiDski riporta valutazioni che parlano di “un milione di soldati ben addestrati” che non poterono essere utilizzati nei combattimenti perché impegnati a catturare e controllare schiavi. Forse erano meno, afferma, ma comunque…

Se prendiamo in esame l’aspetto economico, però, pesò molto di più per l’Unione Sovietica il fatto che nei lunghi decenni di pace centinaia di migliaia di giovani maschi nel fiore degli anni e nel periodo potenzialmente più proficuo della loro vita siano stati distolti dal processo produttivo allo scopo di sorvegliare milioni di lavoratori schiavi e di costringerli a eseguire mansioni la cui produttività era prevedibilmente bassa e i cui risultati insoddisfacenti. Non c’è bisogno di aver fatto esperienza diretta come lavoratore forzato e di aver assistito a lavori del genere per rendersi conto di come un simile modo di estorcere lavoro sia, e non possa non essere, irrimediabilmente antieconomico. (Ivi, p. 187)

Da un lato KamiDski ricorda i giganteschi costi dei trasporti, della sorveglianza, dell’abbigliamento, dell’alimentazione e dell’alloggiamento (“per quanto misere siano le ultime voci dell’elenco”), dall’altro osserva che “il lavoratore coatto, che proprio a causa delle miserabili condizioni in cui vive può impegnare nel lavoro solo una piccola parte delle forze di cui normalmente disporrebbe”, per mero istinto di conservazione “finisce per lavorare impiegando solo una frazione di quella piccola parte”. E a volte lo schiavo, “quasi sempre nemico mortale del regime che lo ha ridotto in schiavitù”, si sforza di sabotare e di danneggiare la produzione appena ne ha la possibilità, a volte usando male i materiali o gli attrezzi, o – nella produzione di munizioni – sputando nei bossoli…

Ma altre pagine dedicate da KamiDski all’antieconomicità del sistema schiavistico sono molto interessanti per capire le ragioni generali della bancarotta dell’economia sovietica e di quelle dei paesi collegati. I criteri puramente quantitativi delle “norme fissate”, dalla cucitura di camicie e mutande di cui parlano Susanne Leonhard ed Elinor Lipper, al raccolto delle patate indipendentemente dai criteri usati, dai tuberi rovinati o lasciati nel campo, sono stati la causa di un’ulteriore irrazionalità del sistema. Di cui, molto probabilmente, il primo ad avere consapevolezza fu Lavrentij Berija, colpito dall’ondata di rivolte nei campi subito dopo la guerra e soprattutto dopo la morte di Stalin.

Ma su questo rinvio all’utilissimo libro di Marta Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003. E, anche se può dar fastidio l’autocitazione, al mio Intellettuali e potere in URSS, di cui è inserita nel sito la parte essenziale della prima edizione, compresa l’ampia cronologia ragionata, che già nel 1986 prevedeva la crisi, e ne abbozzava un’interpretazione.



Scheda bibliografica
Questa scheda è assolutamente parziale, e segnala solo alcune testimonianze essenziali e ineludibili sul terrore staliniano.
Di Aleksandr Solzhenitsyn, Arcipelago GULag è stato pubblicato da Mondadori, Reparto C da Einaudi e da vari altri editori (Garzanti, Utet, Newton Compton, ecc.); Il primo cerchio da Mondadori.
Evgenija Ginzburg, Viaggio nella vertigine, Mondadori, Milano, 1967 e 1979.
Elinor Lipper, Undici anni nelle prigioni e nei campi di concentramento sovietici (Orpheus, Ginevra, s. d.)
Nade~da Mandel’stam, L’epoca e i lupi, Serra e Riva, Milano, 1990.
Anatolij Rybakov , Gli anni del grande terrore, Rizzoli, Milano, 1989.
Degli straordinari Racconti della Kolima di Varlam Šalamov, sono uscite tre edizioni (Savelli, Roma, 1978; Adelphi, Milano, 1999; Einaudi, Torino, 1999).
Margarete Buber-Neumann, Prigioniera di Stalin e di Hitler, il Mulino, Bologna, 1995 (il racconto di una dei comunisti tedeschi consegnati a Hitler nel 1940).
Per una valutazione comparata non solo tra i lager nazisti e quelli russi, segnalo Andrzej J. KamiDski, I campi di concentramento dal 1896 a oggi. Storia, funzioni, tipologia, Bollati Boringhieri, Torino, 1997.
Rinvio poi per una più ampia rassegna bibliografica a: GULag. Il sistema dei lager in URSS, a cura di Marcello Flores e Francesca Gori, Mazzotta, Milano, 1999.
Faccio un’eccezione segnalando ancora due libri di autori italiani: il primo, che affronta un problema particolare, ma di una certa importanza, è: Marta Craveri, Resistenza nel Gulag. Un capitolo inedito della destalinizzazione in Unione Sovietica, Rubbettino, Soveria Mannelli, 2003. L’altro è il primo volume di una notevole Storia dell’Unione Sovietica di Andrea Graziosi, L’Urss di Lenin e Stalin. 1914-1945, il Mulino, Bologna, 2007. L’uno e l’altro libro (che hanno rapporti tra loro, la Craveri è stata allieva di Graziosi, che a sua volta la ringrazia per aver “contribuito ad aprire il [suo] orizzonte”), hanno il pregio di comprendere le differenze tra il clima della guerra civile e la grande repressione avviata nel 1929.

Sulla repressione nei confronti dei rifugiati italiani in URSS:

Dante Corneli, Il redivivo tiburtino. 24 anni di deportazione in URSS, La Pietra, Milano, 1977.


Romolo Caccavale, La speranza Stalin. Tragedia dell’antifascismo italiano in URSS, Valerio Levi ed., Roma, 1989. Ripubblicato ampliato da Mursia nel 1995 col titolo Comunisti italiani in Unione Sovietica. Proscritti da Mussolini, soppressi da Stalin.
Dialoghi del terrore. I processi ai comunisti italiani in Unione Sovietica, a cura di Francesco Bigazzi e Giancarlo Lehner, Ponte alle Grazie, Firenze, 1991 (contiene verbali di interrogatorio e deposizioni di delatori).
Nazario Sauro Onori, Un paradiso infernale. Gli antifascisti bolognesi assassinati e incarcerati nell’URSS di Stalin, Sapere 2000, Roma, 1997
Giancarlo Lehner con Francesco Bigazzi, La tragedia dei comunisti italiani. Le vittime del PCI in Unione Sovietica, Mondadori, Milano, 2000.
E. Dundovich F. Gori, Italiani nei lager di Stalin, Laterza, Roma-Bari, 2006.
Emilio Guarnaschelli, Una piccola pietra. L’esilio, la deportazione e la morte di un operaio comunista italiano in URSS 1933-1939, Garzanti, Milano, 1982.
Didi Gnocchi, Odissea rossa. La storia dimenticata di uno dei fondatori del PCI, Einaudi, 2001, e tanti altri…

 

Appendici

A proposito degli archivi sovietici, su cui è diffuso il rifiuto preconcetto, inserisco una recensione fatta qualche anno fa su un libro molto interessante sull’ultimo decennio di Stalin, basato su una esplorazione degli archivi, e in particolare delle lettere inviate dai cittadini sovietici e intercettate dai servizi.

Inoltre riporto uno stralcio da un mio testo sull’Uso politico della storia, già inserito nel sito ma poco visitato, tanto più cominciava affrontando il dibattito su un libro di Angelo d’Orsi, e presumibilmente un lettore poteva non immaginare che l’ultima parte riguardasse la scottante questione degli archivi sovietici. Chi lo ha già letto, mi scusi, ma non volevo che finisse nel dimenticatoio…

Inoltre, dato che prima di inserire nel sito questo testo ho cominciato a farlo girare tra persone che stimo, ho avuto già parecchie segnalazioni di lacune nelle segnalazioni bibliografiche. Ne sono convinto, ma non posso riempire centinaia di pagine come richiederebbe una bibliografia veramente esauriente. Ma una delle dimenticanze è effettivamente grave: riguarda la prima testimonianza sulla collettivizzazione forzata fatta da un sovietico: pubblicato in Italia da Longanesi nel 1948, Ho scelto la libertà di Victor Kravchenko, fu rigettato da tutta la sinistra come un volgare manuale di anticomunismo. In realtà questo libro di quasi 900 pagine è la testimonianza di una graduale presa di coscienza dell’autore, avviata proprio quando era stato mandato a cacciare i kulak (su questo ci sono un’ottantina di pagine drammatiche). Krav enko era poi stato inviato nel 1943 negli Stati Uniti come membro della Commissione commerciale sovietica a Washington, e aveva cominciato a preparare la sua fuga, che riuscì a realizzare dopo un anno. Nel 1947 il suo libro era uscito anche in Francia, e si era scatenata una spaventosa campagna di diffamazione da parte di intellettuali filocomunisti, che erano stati denunciati da Krav enko. Le accuse erano grottesche: ad esempio si asseriva che il libro sarebbe stato citato favorevolmente nel 1944 da Goebbels, il che avrebbe provato che Krav enko era un collaborazionista: peccato che il libro fosse uscito negli USA solo due anni dopo!

Il resoconto del processo, steso da Nina Berberova, è stato pubblicato anche in Italia (Nina Berberova, Il caso Krav enko, Guanda, Parma, 1991) ed è molto interessante perché registra la vergognosa partecipazione di illustri intellettuali come Frédéric Joliot-Curie, Vercors, Pierre Courtade, Roger Garaudy, ecc. alle calunnie contro l’autore e contro i testimoni (ad esempio Margarete Buber-Neumann veniva presentata come collaboratrice del nazismo e millantatrice, dato che parlava di una sua detenzione in campi di concentramento sovietici, che notoriamente non esistono…).


1   2   3   4   5   6


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət