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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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LA MEDICINA CLINICA

 

Clinica e patologia

La conferma della cellula come laboratorio chimico della vita rappresenta un primario fattore di continuità nello sviluppo della biomedicina. Nell’ultimo dopoguerra si è reso disponibile il microscopio elettronico, che ha permesso di osservare e descrivere strutture nano-dimensionali, là dove si ammetteva l’esistenza di materiali omogenei, denotati da termini generici, come quello di «protoplasma». Ha trovato dettagliate conferme il ruolo della forma come momento necessario delle funzioni cellulari. Si è precisato come avvenga la comunicazione intercellulare per mezzo di neurotrasmettitori e ormoni. Un programma di morte cellulare, l’«apoptosi», riscuote crescente attenzione per spiegare, attraverso i suoi insuccessi, la sopravvivenza e il percorso degenerativo delle cellule tumorali. Virus, retrovirus, prioni dipendono dalla cellula come compiuta espressione della vitalità. Fisiopatologia e cellularismo erano intrinsecamente legati: la teoria scientifica della vita aveva trovato nella cellula il fondamento della propria concretezza, del proprio realismo. La fisiopatologia aveva anche offerto un saldo ancoraggio alla clinica: essendo la clinica quel momento della medicina che parte non dalla classificazione delle malattie, ma dalla presa d’atto, dall’analisi e dalla descrizione di un singolo fatto morboso, in vista della sua riconduzione alle categorie fisiopatologiche attraverso la diagnosi. In attesa del conclusivo atto diagnostico, la fisiopatologia s’innesta sulla clinica attraverso ciò che potrebbe chiamarsi il ragionamento fisiopatologico: un percorso inferenziale che parte dall’individuazione della funzionalità alterata, si sofferma in un secondo momento a cercare la causa dell’alterazione, imposta quindi il giudizio diagnostico, e verifica infine la correttezza dell’interpretazione con gli effetti del rimedio che si è deciso di somministrare. Sullo sfondo resta qualcosa che rimane un possesso prezioso e geloso della clinica, e non della patologia: la singola persona, con il suo stile di vita e la sua individualità psicofisica, irriducibili entrambi a singole categorie di qualsiasi schema classificatorio.

 

Le malattie rare

Ma la cellula, ripristinata nel suo valore di fondamento concreto della fisiopatologia, e dunque della biologia intesa al modo del Virchow, è diventata un laboratorio chimico ipercomplesso, dove l’alterazione o l’assenza di un singolo fattore della funzionalità può provocare un evento morboso o una situazione patologica. E’ il caso delle «malattie rare», «orphan deseases» nella terminologia inglese, per la cui conoscenza disponiamo del rapporto redatto nell’89 dalla National Commission on Orphan deseases, istituita dal Governo degli Stati Uniti: ne è emersa la difficoltà di formulare tempestivamente una diagnosi, che talvolta si ottiene soltanto dopo mesi o anni di attesa. Delle circa cinquemila malattie rare, quattromila sono genetiche. In sede economica le malattie rare hanno posto, per il limitato smercio, il problema della produzione dei farmaci atti a curarle, alcuni dei quali hanno peraltro trovato applicazione anche nella cura di malattie diffuse, con ricavi che arrivano a coprire i costi industriali. I contatti con la fisiopatologia cellulare, o almeno con la fisiopatologia d’organo, sono mantenuti dalla clinica attraverso branche specifiche di ciò che si è ormai soliti chiamare il Sistema sanitario, presente e operante nelle odierne società avanzate: il laboratorio di analisi e la tecnologia applicata alla medicina. E tuttavia la medicina clinica, pur nelle circostanze indicate, che ne configurano un arricchimento, ma anche una limitazione dell’autonomia intuitiva, conserva un duplice privilegio: il rapporto con la totalità dell’individuo e la partecipazione all’esercizio non meramente applicativo della razionalità scientifica. In natura non esistono repliche: anche i gemelli omozigoti hanno impronte digitali diverse. La conquista ippocratica dello «hekaston» - di ciò che è lontano, «hekas», da altro, e dunque del ciascuno, del questo e del quello- conserva tutta la propria validità diagnostica, accanto alla doverosa ricerca di ciò che riconduce il caso singolo a un’entità definita, e dunque virtualmente universale, malgrado la bassa frequenza statistica.

 

Le sindromi

Accanto alla malattia e alla situazione morbosa, è venuta acquistando crescente importanza, nella patologia e nella clinica, la sindrome: che può considerarsi appartenente a entrambe, alla patologia per il riconoscimento della sua configurazione anatomo-fisiologica, e alla clinica per la variabilità individuale delle sue manifestazioni. Negli anni Trenta, l’austriaco emigrato in Canada Hans H.B. Selye (1907 – 1982) individuava una «sindrome generale di adattamento», che avrebbe poi ricondotto alla nozione di «stress» con Lo stress della vita[37], distinguendovi una reazione di allarme, una fase di resistenza e uno stadio di esaurimento: l’organismo è coinvolto nella sindrome con il sistema nervoso, l’apparato endocrino e le strutture immunitarie. Secondo lo schema delineato dal Selye, l’ipotalamo libera il fattore di rilascio della corticotropina CRF, che a sua volta provoca la liberazione di ormone adrenocorticotropo da parte dell’ipofisi anteriore: questo raggiunge le ghiandole surrenali, che riversano nel sangue ormoni steroidi, attivi su numerosi organi-bersaglio. I due volumi su Ormoni e resistenza[38] hanno concluso una ricerca di alta originalità, che ha riplasmato il concetto generico di sindrome in quello di sinergia reattiva, mettendo in luce una delle molteplici dimensioni unitarie dell’organismo. La recente «sindrome da immunodeficienza acquisita», nota con l’acronimo AIDS, è dovuta ai retrovirus HIV, portatori dell’enzima transcriptasi inversa, che permette di trasferire l’informazione genetica con un percorso inverso dallo RNA al DNA. Alla trisomia del cromosoma 21 è stata ricondotta la «sindrome di Down», o mongolismo, di Jérôme Lejeune, già ricordata. Con Georges Devereux, l’etnopsichiatria ha ritenuto negli anni Settanta di aver individuato alcune specifiche «sindromi etniche», su base culturale. La sindrome è, in tutti i casi segnalati, l’unità di una molteplicità morfofunzionale, e rappresenta il sigillo della complessità, che si manifesta, come molteplicità unificata, anche nella patologia della vita.

 

 

LE MEDICINE ALTERNATIVE



 

Provenienti, con l’eccezione dell’omeopatia, da aree culturali periferiche, rispetto all’Europa e agli Stati Uniti, le cosiddette medicine alternative rivelano caratteristiche comuni. Il momento clinico prevale su quello patologico, e finisce con il simulare un latente ippocratismo, a condizione di sostituirne la formula «observatio et ratio» con un’altra, nettamente diversa, che potrebbe suonare «observatio et sanatio». Ippocrate di Cos – il fondatore della medicina scientifica al quale vengono fondatamente attribuiti taluni scritti, di alta originalità e di scoperto impegno teorico, compresi nel Corpus hippocraticum – aveva combattuto la «medicina dei postulati» e le sue arbitrarie teorizzazioni, opponendole una feconda sintesi di empirismo e razionalismo. Ciò che il medico trova davanti a sé, consiste sempre in un «questo», in un «ciascuno». Ma Ippocrate, secondo la testimonianza che ce ne ha lasciato Platone nel Fedro, sosteneva che né l’anima né il corpo si possono conoscere «a prescindere dalla natura del tutto»: con un deciso passaggio dal pragmatismo terapeutico a quella cultura biomedica della totalità, che si costituisce storicamente attraverso processi complementari di accumulazione e d’innovazione, e si traduce in sintesi conoscitive sempre più vaste e coerenti. Uno dei più importanti lavori di Ippocrate è Antica medicina [Archaie ietrikè]: e il titolo echeggia il lungo processo di crescita e di sedimentazione, che permetteva allora l’esistenza di categorie del pensiero medico, capaci d’inquadrare e valutare l’esperienza. Clinica senza patologia non c’è, se non nella forma delle baconiane «tavole di assenza e di presenza». Non sono possibili la ponderazione e la valutazione critica di quanto osservato: il dato osservativo e la premessa teorica non entrano in un rapporto dialettico. Valutare l’esperienza diventa un compito azzardato.

Consideriamo l’«agopuntura». Tra il 1948 e il ’49 entra nell’ordinamento sanitario della Repubblica popolare cinese come rimedio per il trattamento del dolore, nelle affezioni funzionali e in numerose circostanze morbose attinenti all’ostetricia e alla ginecologia. Si riferisce a una teoria generale dell’universo, che ammette l’esistenza di due principi opposti, lo Yin e lo Yang, e di cinque elementi, rappresentanti l’energia vitale che scorre in tutto il corpo attraverso un sistema di «canali» o «meridiani», dove aghisottili si prefiggono di raggiungerla, in punti determinati, per ristabilire l’equilibrio turbato dalla malattia. Una pratica collaterale, la moxibustione, invece di aghi usa esche di Artemisia (moxa) a diretto contatto con la pelle. Scrivono Lu Gwei-Djen e Joseph Needham – il fondatore della biochimica inglese, passato alla sinologia - in Aghi celesti. Storia e fondamenti razionali dell’agopuntura e della moxibustione[39]: «E’ indubbio che l’agopuntura abbia rappresentato un sistema di cardinale importanza nella storia della medicina cinese, ma la valutazione obiettiva della sua reale portata è stata fino a tempi recenti, ed è in una certa misura ancor oggi, al centro di grandi dispute. In Asia orientale si possono incontrare medici di formazione moderna, sia cinesi sia occidentali, assolutamente scettici circa la sua validità…Presumibilmente nessuno sarà in grado di valutare appieno l’efficacia reale dell’agopuntura…fino a quando non verranno applicati i metodi d’indagine della statistica medica moderna, con l’analisi di un’adeguata casistica; purtroppo la realizzazione di un programma simile può richiedere un tempo anche superiore al mezzo secolo…» (pp.7 s.). La secrezione di endorfine è l’ipotesi spesso invocata per spiegare l’effetto antidolorifico della terapia.

Senza una trama ordinata di definizioni e osservazioni trascritte in linguaggio appropriato, il materiale osservativo perde la possibilità di costituirsi in terreno di conferma, di smentita o d’inferenza verso presupposti altrimenti determinati – è la terza, feconda via del ragionamento scientifico, l’abduzione, accanto alla deduzione e all’induzione. Se l’agopuntura riconduce alla Cina, la «pranoterapia» porta all’India: ma nell’induismo, com’è stato detto, tutto tende a divinizzarsi, e ogni manifestazione divina risulta priva di ciò che il pensiero occidentale chiama, da Aristotele in poi, il «per sé», l’«assolutezza». Il termine sanscrito «prāna» rimanda alle cinque forme dell’energia che pervade tessuti e organi, ed è presente nel corpo fino a che risulta animato dalla vita. Assorbitacon il respiro, l’energia vitale sarebbe convertita in sette appositi centri, e distribuita attraverso specifici canali a tutte le parti del corpo. La mano destra è usata dal pranoterapeuta come mano radiante, la sinistra come mano assorbente. La «medicina manuale» si pone come l’equivalente, parziale, di pranoterapia e chiroterapia nelle categorie e nella prassi della tradizione scientifica occidentale, in particolare americana. All’India appartiene anche la medicina che si richiama all’Ayurveda o «conoscenza della longevità», con un esteso sistema ospedaliero. Almeno un cenno va fatto alla medicina tibetana o lamaica, dove gli studi del benedettino Cyrill von Korvin-Krasinski, in particolare La filosofia medica tibetana. L’uomo come microcosmo[40] rappresentano uno dei pochi, riusciti tentativi di ricostruire un organico sistema di conoscenze mediche, alternative a quelle occidentali, con le loro profonde radici filosofiche e cosmologiche. Verso il Giappone conduce la macrobiotica, un conio maldestro dal greco del giapponese Nyoiti Sakurazawa (1893 – 1966) per indicare la disciplina che dovrebbe condurre a una lunga vita, attraverso un’alimentazione che bandisca l’uso di additivi sintetici nell’agricoltura e nell’industria.

All’interno della tradizione occidentale, l’«omeopatia» iniziata da Samuel F.C. Hahnemann (1755 – 1843), radicata peraltro nella tradizione ippocratica e orientata verso un’«arte razionale della guarigione», è la dottrina alternativa più diffusa e autorevole, ma nei limiti della terapia farmacologica. Il suo principio terapeutico, assai noto, è il «similia similibus curantur»: ciò che provoca malattia, in dosi ridotte, infinitesime, induce la guarigione. Ma le diluizioni omeopatiche del farmaco arrivano all’inesistenza, matematicamente dimostrata, della sostanza: a meno di ricorrere a ipotesi estreme come la «memoria dell’acqua» del fisico francese Jacques Benveniste, o la «super-radianza» degli italiani Giuliano Preparata e Emilio Del Giudice: ipotesi fortemente avversate, ma sostenute, soprattutto la seconda, da studiosi degni di credito. Il dialogo tra metodologia omeopatica e allopatica rimane aperto con le due correnti dell’odierna omeopatia: quella umanistica – sudamericana e italiana, e quella biologico-fisica. Da segnalare sull’autorevole Lancet, nel ’97, una revisione critica, o «meta-analisi», poi contestata, di prove e sondaggi sulle verifiche di validità, effettuati negli anni precedenti: i risultati ottenuti non sarebbero completamente spiegabili con l’effetto placebo, attraverso autosuggestione, e dovrebbero ipotizzarsi altre scorciatoie, non ancora individuate, per giustificare l’effetto curativo (pp. 834-843). L’americano Office ofalternative medicine, creato nel ’92 all’interno dei National Health Institutes con la direzione dell’omeopata Wayne Jonas, rappresenta un presidio di oculata vigilanza, ma anche di giustificata flessibilità, in un ambito forse ricco di promesse nonché, almeno per il momento, di aleatorietà conoscitiva.

 

 



NEUROSCIENZE, CIBERNETICA

 

Le neuroscienze appartengono al ventesimo secolo: la cellula nervosa s’impone peraltro all’attenzione di anatomici e fisiologi con Camillo Golgi (1844 – 1926) e Santiago Ramón y Cajal (1852 – 1934), e il termine «neurone» è proposto nel 1891 da Heinrich G. Waldeyer (1836 – 1921). Ma l’Ottocento aveva fatto ben altro, creando la fisiologia degli organi di senso o «estesiologia»: un termine uscito dall’uso dopo che si era offuscata l’importanza fondamentale del suo contenuto. Prima che lo Helmholtz vi apportasse i contributi, già citati, delle due opere sull’acustica e sull’ottica fisiologiche, c’era stato un momento di alta rilevanza teoretica, rappresentato dalla cosiddetta «età goethiana». J. Wolfgang Goethe (1749 – 1832) con la Teoria dei colori[41] aveva vittoriosamente rivendicato la natura soggettiva della qualità cromatica, e la sua irriducibilità all’analisi prismatica della luce bianca, come sostenuto da Isaac Newton (1642 – 1727) nella memoria del 1672 Nuova teoria della luce e i colori[42]. Il Müller, già citato, aveva trasferito la soggettività goethiana in oggettività soggettiva, aggiungendovi la sperimentazione del soggetto su sé stesso, con la Fisiologia comparata del senso della vista nell’uomo e negli animali[43]. Nel proclamare l’«Ignorabimus» della concezione meccanica del mondo, il du Bois-Reymond si sarebbe per l’appunto richiamato alla svolta dal quantitativo al qualitativo, e dall’omogeneo al diverso, avvenuta con la legge sulle «energie specifiche degli organi di senso», formulata dal Müller, suo maestro:le diverse aree sensoriali provocano sensazioni distinte – ciascuna, quella che le è propria -, a prescindere dalla natura dello stimolo. Gli sarebbe invece sfuggita l’altra innovazione mülleriana, di carattere epistemologico: il passaggio da un’oggettività esterna al soggetto in oggettività intrinseca alla soggettività, ma capace di tradursi in affermazione scientifica attraverso l’attività razionale. Con la scoperta dell’organo spirale dell’orecchio interno, dovuta a Alfonso Corti (1822-1876) e resa nota nel 1851 con le Ricerche sull’organo dell’udito nei mammiferi[44], il sistema nervoso centrale, prima che sopravvenisse la scoperta del neurone, aveva mostrato una delle sue mirabili conformazioni strutturali: anche queste sfuggite all’elettrofisiologo du Bois, eppure degne di rappresentare un ottavo «enigma», nell’elenco delle manifestazioni incomprensibili della natura, irricavabili da uno scenario di parti materiali in reciproco movimento.



Da quanto prima riferito appare chiaro come la neurofisiologia – parlare di neurofisiopatologia andrebbe oltre l’oggettività storica – abbia rappresentato un’area della biomedicina con accentuata specificità, come terreno d’incisiva elaborazione teorica, al confine con la gnoseologia. Per correlare la continuità e la connessione delle attività razionali alla struttura anatomo-fisiologica del sistema nervoso, Golgi ad esempio sostenne la tesi delle rete interneuronale, contro l’opposta tesi, poi prevalsa, del Cajal sull’autonomia e polarità dinamica del singolo neurone. L’esigenza unitaria si sarebbe ridestata con Charles Sherrington (1857 – 1952), autore di un’opera classica: L’azioneintegrativa del sistema nervoso[45], uscita nei primi anni del nuovo secolo. «Integrativo», «integrazione»: a tutti i livelli della sua struttura e del suo funzionamento, il sistema nervoso unisce entità, strumenti e momenti diversi, assumendo il ruolo di paradigma strutturale dell’intero organismo, che ha come esigenza primaria l’unificazione della sua necessaria diversificazione. Si integrano le unità neuronali attraverso le «sinapsi», la trasmissione elettrica e la mediazione chimica, la contrazione dei muscoli agonisti e il rilasciamento dei muscoli antagonisti, entrambi indotti per via nervosa: ancora, si integrano innervazione periferica e organi effettori. L’integrazione concepita come unificazione conferisce alla neurofisiologia dello Sherrington quella prerogativa di vetrina dell’organismo vivente, che per lungo tempo era spettata all’embriologia. Sherrington è un dualista, crede che mente e cervello siano entità distinte, ma il suo dualismo, a differenza di quello cartesiano, contiene un’analogia tra i due termini. La funzione integrativa, unificante, del cervello è correlata all’unità dell’universo mentale e a ciò che la produce: l’essenza sintetica del pensiero. La prima può fungere da strumento della seconda nella compagine psicofisica del soggetto umano. Uno degli allievi dello Sherrington, John Eccles (1903-1997), ne riprenderà l’accennato dualismo e l’esigenza, problematica ma feconda, di unificazione. Con Il Sé e il suo cervello[46], scritto dallo Eccles in collaborazione con il filosofo Karl Popper (1902-1994), il dualismo dello Sherrington diventa peraltro «interazionismo»: fisico, psichico e logico. Gli eventi cerebrali diventano soggettività pensante perché giungono a diramarsi in un’oggettività pura, rivendicata anche dallamatematica. Ma alla porta delle neuroscienze preme un altro paradigma, il cognitivismo, che M.S. Gazzaniga compendia in un volume sulle Scienze cognitive[47]: per studiare scientificamente gli eventi mentali si assume il modello semplificato del «robot», aggiungendovi la plasticità sinaptica sherringtoniana. Il cognitivismo diventa un torrente in piena, ma la matematica continua a fare argine, postulando un’oggettività di tipo arcaico, originario, a presidio della mente che aspiri alla verità formale delle proprie asserzioni. Il solco tra logica e matematica da una parte, neurologia e psicologia cognitiviste dall’altra, appare incolmabile, e connota la dimensione problematica della scienza contemporanea.

I grandi numeri sono ormai entrati nell’orizzonte della biomedicina e della stessa neurologia: il bisogno di correlazione unitaria è primario, ma l’interruzione dei rapporti con la metafisica ne rende difficile il soddisfacimento. L’austriaco Ludwig von Bertalanffy (1901 – 1972), poi emigrato in Canada, apre alla «teoria dei sistemi»: ritiene saggiamente che l’unità del vivente debba essere analizzata e discussa prima della finalità, ma la prospettiva tecnologica appare insufficiente, limitativa. Ne nascerà tuttavia la «bionica» per lo studio delle funzioni motorie e sensorie degli organismi viventi, nonché per la loro imitazione con dispositivi elettronici o di altro tipo. Sagoma dei sottomarini, ecometro, radar, sonar, trasduttori analoghi agli organi di senso, neuroni artificiali si susseguono, mentre alla teoria dei sistemi succede negli anni Quaranta la «teoria degli automi» con la sua più generale e organica formulazione, la «cibernetica». Il ricorso al solito simulatore di evidenza concettuale, l’evoluzione, non impedisce che Norbert Wiener (1894 – 1964) asserisca e riconosca nettamente l’immaterialità di una grandezza destinata a diventare ubiquitaria nella scienza, l’«informazione». Scrive in Cibernetica[48]: «L’informazione è informazione, non materia o energia. Al giorno d’oggi, nessun materialismo che non ammetta questo può sopravvivere.» (p. 177). Dopo il «codice» di Schrödinger, l’ «informazione», elaborata matematicamente ma non definita da Claude Elwood Shannon in una classica memoria: Teoria matematica della comunicazione[49], anch’essa uscita nel cruciale ’48 -, segnalava la ricchezza che la biomedicina avrebbe potuto apportare a un’indagine senza riserve sui fondamenti teoretici della scienza. Attraverso Shannon e Wiener s’incontrano, e sommano la propria efficacia, due diverse organizzazioni della ricerca: la «big science» dei Bell Telephone Laboratories e il gruppo interdisciplinare. La biomedicina è presente con neurofisiologi e cardiologi nella ristretta, amichevole comunità, dov’è inserito Wiener al Massachusetts Institute of Technology. L’informazione ha le caratteristiche della scoperta nuova, ancora intuitiva: e il suo assurgere a nozione primaria in tutte, praticamente, le assiomatiche scientifiche, alcune delle quali impostate con il formalismo matematico, ne indica la determinante importanza. Ma il passaggio nel novero delle entità che in più riprese abbiamo chiamato «simulatori di evidenza» si manifesta come un grave rischio, e resta tale cinquant’anni dopo. Evoluzione, informazione, complessità: il loro mancato approfondimento filosofico toglie alla biomedicina l’occasione d’insediarsi, con una propria ontologia, metameccanica, in ciò che potremmo chiamare la coscienza dellaconoscenza scientifica del mondo.

 

 

L’ESIGENZA FILOSOFICA



 

Il pensiero nella medicina [50] è il titolo di un discorso che Hermann Helmholtz tenne a Berlino nel 1877, e rappresenta oggi una ricca fonte di conoscenze sugli anni che videro affermarsi il paradigma fisiopatologico della biomedicina e costituirsi, per merito dello stesso Helmholtz, la fisiologia d’organo. Osservava Helmholtz: «La scoperta di un’idea non si limita a mettere insieme superficiali somiglianze, ma nasce da uno sguardo che abbia colto la profonda connessione del tutto (…) » La scienza non può sottrarsi al compito di enucleare quei capisaldi concettuali delle teorie e quei nuclei centrali delle assiomatiche, la cui funzione è di collegare momenti, aspetti e parti in una sintesi che a tutto conferisca significato e tutto renda comprensibile. La rinunzia ai simulatori di evidenza, da qualsiasi fonte siano stati attinti, va di pari passo con l’enucleazione dei fondamenti, nel senso di caratteristiche determinanti delle evidenze osservate, delle analisi compiute, degli esperimenti effettuati. E’ sembrato di poter indicare nel nuovo cellularismo, costituitosi entro l’ambito della biologia molecolare, il fondamento dell’odierna biomedicina e il vantaggio conoscitivo della tradizione, culminata nella fisiopatologia, sulle medicine alternative. Nella cellula si è ritenuto d’individuare una caratteristica saliente, la sinergia, intesa come unità funzionale di una molteplicità tanto numerosa e diversificata di parti attive, da rientrare nello schema della complessità, rappresentandone l’esempio più probativo. Peraltro sinergia e complessità della vita non si esauriscono a livello cellulare, ma preludono alle analoghe manifestazioni nella fisiopatologia di organi e apparati, nonché dell’intero organismo. Unità sinergica di una complessa molteplicità, morfologica e funzionale: ecco «che cos’è la vita», la natura che consideriamo vivente perché capace di assimilare sostanze eterogenee, di accrescersi, di riprodursi e di rispondere agli stimoli in maniera specifica.



Sembra, la vita nella natura, il corollario di un’essenza incondizionata e più alta, e tuttavia essa introduce nello spazio e nel tempo l’individualità capace di correlarsi ad altro, di ricostituirsi da altro, di esplicare funzioni e manifestare intenzioni. Il vivente apre uno spiraglio su un essere precedente il suo darsi e sostanziato di autonomia assoluta. Pensare la biomedicina, per l’esigenza rispecchiata nella lapidaria formulazione dello Helmohltz, è riflettere anzitutto sulla possibilità, sulle implicazioni e sul modo d’insorgenza, sul tempo e sullo spazio di una molteplicità complessa, sinergica, unitaria, e come tale da considerarsi vivente. E’ necessario tornare al concetto di natura, non si può non farlo. Ma il cammino regressivo dovrà spingersi fino al concetto della realtà originaria, precedente ogni altra determinazione. Prescindere, presupporre è un’opzione grave per un’intera cultura, che nelle proprie scelte rischia di distogliersi dall’archetipo della ragione, intesa come esigenza di un incondizionato comprendere, per orientarsi verso la formula attenuata, utilitaria o tutt’al più compromissoria, della prassi. Un duplice «taglio epistemologico» - icastica espressione: «coupure épistémologique», del razionalista Gaston Bachelard (1884-1962) – ha attraversato il corso della scienza: fra meccanica moderna e fisica aristotelica, e fra concezione informazionale della natura e meccanicismo. Per il neurofisiologo du Bois-Reymond, la vita non figurava nell’elenco degli «enigmi»: si trattava pur sempre di parti materiali con una determinata posizione nello spazio e connotazioni di movimento anch’esse determinate. L’informazione si aggiunge peraltro a due corpi uguali, nel senso ristretto del du Bois, e li rende diversi in termini di struttura e di proprietà. La domanda, a cui s’intitola il saggio citato dello Schrödinger, non è retorica: la vita è un problema che l’intuizione affida all’analisi, e che l’analisi meccanica le restituisce insoluto. Ed è problema che nel pensiero si acuisce, si esaspera, perché il momento della razionalità – che il du Bois onestamentericonosceva enigmatico – si presenta all’uomo congiunto con la sua vitalità corporea, inevidente.

Ritorno, dunque, alla filosofia, dopo il lungo e costruttivo percorso della biomedicina nel ventesimo secolo. L’etica, affiorata come prepotente esigenza in un sapere mostratosi disposto adaffrontare con opposte scelte i momenti estremi, nascita e morte dell’esistenza individuale, è un segnale d’allarme, ma certo non la soluzione del problema metafisico, rappresentato dalla natura vivente. C’è un retroterra ontologico, che giustifica o squalifica le scelte che il medico e la società si propongono di compiere. Nella sede civile – giuridica o politica –, la bioetica è portata a circoscrivere un proprio ambito, autosufficiente: ma i confini di tale autonomia si cancellano, appena la ragione sopravviene e riapre, con la domanda sull’essenza della vita, un immenso scenario, cosmologico e ecologico, oltre che antropologico. Il bando ai simulatori di evidenza deve accompagnarsi a un atteggiamento di sottile e vigile analisi verso teorie in corso di formazione, perché nuove, elusive proposte non si sostituiscano alle precedenti. Ciò vale, in particolare, per le vedute sull’«autoorganizzazione» dei sistemi fisici e biologici. In quali limiti e da che cosa si autoorganizza un sistema? La sinergetica, che dovrebb’essere la teoria scientifica più vicina alla sinergia, è una termodinamica dei processi irreversibili, che considera – secondo Hermann Haken – sistemi fisici, chimici e biologici lontani dall’equilibrio termico, dove si verificano processi qualitativamente nuovi, che non possono aver luogo entro sistemi in equilibrio o prossimi all’equilibrio. Da dove la novità tragga origine, la sinergetica non dice e neppure ritiene di doverlo ipotizzare. E invece è proprio questo il problema da affrontare, fino a prospettarne scelte dilemmatiche e soluzioni alternative. Ricorriamo a un esempio. Il biofisico Pierre Lecomte de Noüy (1883 – 1947), attivo nella cerchia di Alexis Carrel (1873 – 1944) – iniziatore dei trapianti d’organo e della cultura in vitro dei tessuti –, affermò che dedurre la vita dal caso è come far nascere la Divina Commedia da una scimmia, messa alla tastiera di una macchina per scrivere. E tuttavia la probabilità che ciò accada è infinitesima, ma non nulla, come invece deve accadere per l’assurdità razionale. Anche l’ipotesi del de Noüy, se altrimenti formulata, poteva ridursi ad assurdità. Bastava far consistere il poema di Dante non in una sequenza di parole, dunque di segni alfabetici, ma in una costruzione di significati: il primate dattilografo, come alternativa al poeta, era escluso in radice. La risposta sulla vita, una risposta coerente a quel che la vita è venuta dicendoci di sé, spetta a una filosofia disposta a scelte coraggiose – in logica si direbbe controintuitive -, e alimentata da istituzioni – università, accademie, congressi – che aggreghino tutta la ricerca e permettano al dialogo di superare, ogni qualvolta necessario, competenze e confini tradizionali. Perquantoriguarda la bioetica, essa vedrà rafforzata la reverenza che ispirano comunque e a tutti la nascita, la sofferenza e la morte: e potrà,corroborata filosoficamente, formulare e giustificare norme di condotta e imperativi inderogabili.
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