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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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[1] Colloque international “Science et Societé”, Paris, 30 novembre 2000, in http://www.recherche.gouv.fr/discours/2000/dsciences.htm.

[2] Si vedano i lavori di tali organismi in http://europa.eu.int/comm/governance.

[3] Così Tallacchini M.C., Politica della scienza e diritto: epistemologia della identità europea, Politeia, 2001, 62: 6-21.

[4] Cfr. la risoluzione sui problemi etici e giuridici della manipolazione genetica, adottata il 16 marzo 1989, in Guce n. C96 del 17 aprile 1989, p. 165.

[5] Così Rifkin J., Il secolo delle biotecnologie, in Internazionale, n. 229, 1998: p. 17 e ss. Sul punto si rimanda anche a Fantini M., Il fantasma dell'eugenica, in Rodotà S. (a cura di), Questioni di bioetica, Bari: Laterza, 1993: 301-331, nonché Santosuosso A., La genetica: problemi di legittimazione medica e di controllo sociale, in Barni M.- SantosuossoA. (a cura di), Medicina e diritto. Prospettive e responsabilità della professione medica oggi, Milano, 1995: p. 330 e ss.

[6] Come è noto, le risoluzioni delle organizzazioni internazionali, che di per sé non hanno efficacia vincolante, possono acquistare tale efficacia solo se trasformate in fonti di diritto internazionale generale (consuetudine) o particolare (convenzioni e trattati). Vero è che le risoluzioni, comunemente ricondotte alla sfera del c.d. diritto morbido (“soft law”), non sono del tutto improduttive di effetti giuridici e vengono in rilievo ai fini dell’accertamento del diritto internazionale consuetudinario. Sotto il primo profilo, B. Conforti, Diritto internazionale, Napoli: Editoriale scientifica, 2001, 178, parla di «effetto di liceità», intendendo con ciò, in buona sostanza, l’operare della risoluzione internazionale come causa di esclusione dell’illecito eventualmente posto in essere da uno Stato che, per eseguire una risoluzione, tenga un contegno contrario ad obblighi derivanti da fonti consuetudinarie o convenzionalmente assunti. Sotto il secondo profilo, di maggiore interesse in questa sede, va precisato che le risoluzioni possono costituire manifestazioni autorevoli dell’opinio juris degli Stati e contribuire così, coniugandosi con analoghi elementi della prassi internazionale, alla ricostruzione delle norme di diritto internazionale generale.

[7] Si ricorda, in questo contesto, anche la risoluzione adottata dalla Conferenza generale dell’UNESCO il 16 novembre 1999, dal titolo Dichiarazione sulla scienza e l’utilizzo del sapere scientifico e l’Agenda per la scienza – Quadro d’azione.

[8] Vedi la risoluzione in Guce n. C135 del 7 maggio 2001, p. 263.

[9] Cfr. http://www.path.jhu.edu/NOGO.

[10] Ma non solo. E’ noto, infatti, che tentativi di manipolare il patrimonio genetico umano sono stati condotti non solo nei campi di concentramento nazisti, come dimostrano gli atti del processo di Norimberga, ma anche, fino ad anni recenti, in ospedali e carceri degli Stati Uniti d’America e della ex-Unione Sovietica. Anche a seguito della scoperta di episodi eclatanti (quali il Tuskegee Syphilis Study, un esperimento relativo alla diffusione della sifilide avviato negli anni Trenta su una comunità di neri del Sud degli Stati Uniti e continuato anche dopo la scoperta della penicillina; o le sperimentazioni approvate dal Committee on Medical Research creato allo scoppio della seconda guerra mondiale) e dell’avvio della riflessione etica sulla medicina e la ricerca scientifica, venne creata negli USA, nel 1974, la National Commission for the Protection of Human Subject of Biomedical and Behavioural Research. Come già ricordato nel Capitolo I, sulla scorta del risultato dei lavori di tale Commissione ha visto la luce il rapporto intitolato Ethical Principles and Guidelines for the Protection of Human Subject of Research (c.d. Belmont Report), in cui sono stati enunciati i principi che hanno successivamente ispirato l’analisi dei problemi bioetici in ambito medico e sanitario.

[11] Si noti che la Convenzione di Oviedo si preoccupa anche di vietare l’utilizzo di tecniche di assistenza medica alla procreazione qualora lo scopo di tali interventi sia di determinare il sesso del nascituro, eccezion fatta per l’ipotesi di evitare una malattia grave legata al sesso (art. 14). Per quanto riguarda il possibile utilizzo discriminatorio dei risultati della ricerca sul genoma, invece, la Convenzione pone un divieto di discriminazione in ragione del patrimonio genetico (art. 11) e disciplina l’impiego dei c.d. test genetici predittivi (art. 12).

[12] Gli obiettivi del Protocollo sono chiaramente enunciati dal Preambolo dell’Atto, in cui gli Stati membri del Consiglio d’Europa, pur mostrandosi consapevoli dei progressi che le tecniche di clonazione possono apportare alle conoscenze scientifiche ed alle applicazioni terapeutiche, condannano, poiché contraria alla dignità dell’uomo ed anche in considerazione delle difficoltà di ordine medico, psicologico e sociale derivanti dall’utilizzo deliberato di tale pratica biomedica, la «strumentalizzazione dell’essere umano attraverso la creazione deliberata di esseri umani geneticamente identici». Nell'ordine delle conseguenze del divieto sancito dal Protocollo addizionale devono essere fatte rientrare, tra l’altro, le attività dirette alla commercializzazione o all'offerta di gameti, di cellule somatiche di embrioni o di altro materiale genetico umano a fini di clonazione, nonché le relative forme di pubblicità.

[13] Nello stesso senso si veda anche l’art. 11 della Dichiarazione universale sul genoma umano e i diritti dell’uomo dell’UNESCO, su cui si tornerà tra breve. Va precisato che per clonazione umana (o animale) si intende la produzione di embrioni umani (o animali) geneticamente identici, ottenuti mediante replicazione non sessuata di un unico altro essere vivente umano (o animale), a qualsiasi stadio del suo sviluppo e della sua vita, a partire dallo zigote (cellula-uovo fecondata, prima che inizi il processo di segmentazione) o dopo la sua morte. Sugli aspetti scientifici ed etici della clonazione si rimanda a Comitato nazionale per la bioetica, La clonazione, Roma: IPZS, 1997, ed alla bibliografia ivicitata. Si ricorda, in proposito, che già la Raccomandazione dell’Assemblea parlamentare del Consiglio d’Europa 1046 (1986), del 24 settembre 1986, relativa all’utilizzo di embrioni e feti umani a fini diagnostici, terapeutici, scientifici, industriali e commerciali, invitava i governi dei Paesi membri ad adottare le misure necessarie per vietare la «création d’êtrs humains identiques par clonage ou par d’autres méthodes» (in Textes du Conseil de l’Europe en matière de biéthique, cit., p. 19). Il contenuto di tale Raccomandazione, ribadito dalla Raccomandazione 1100 (1989) del 26 gennaio 1989, è stato ripreso dall’art. 20 del Rapporto sulla procreazione umana artificiale, adottato nel 1989 dal Comitato ad hocdi esperti sul progresso delle scienze biomediche del Consiglio d’Europa, secondo cui «l’utilisation des techniques de procréation humaine artificielle afin de créer des être humains identiques par clonage ou par toute autre méthode doit être interdite» (ibidem, p. 149). Da ultimo, anche il Piano d’azione adottato al termine del secondo summit dei capi di Stato e di governo del Consiglio d’Europa, tenutosi a Strasburgo nell’ottobre 1997, impegnava gli Stati membri dell’Organizzazione a vietare le tecniche di clonazione, conferendo al Comitato dei ministri il mandato necessario per l’approvazione di un Protocollo addizionale alla Convenzione di Oviedo (ibidem, p. 137). Anche nell’ambito delle Comunità europee la clonazione umana ha fatto oggetto di “condanna”, in particolare da parte della Dichiarazione del Consiglio europeo tenutosi ad Amsterdam il 16-17 giugno 1997 (cfr. l’allegato IV delle Conclusioni della Presidenza), che richiama espressamente il parere sugli aspetti etici delle tecniche di clonazione del Gruppo europeo per l’etica delle scienze e delle nuove tecnologie (cfr. il parere n. 9 del 28 maggio 1997), nonché le Risoluzioni del Parlamento europeo del 1993 e del 1997 dedicate alla clonazione umana e di embrioni umani (in Guce n. C315 del 22 novembre 1993, p. 224, e n. C115 del 14 aprile 1997, p. 92, cui si sono aggiunte le Risoluzioni del 1998 e del 2000 pubblicate in Guce n. C34 del 2 febbraio 1998, p. 164, in Guce n. C378 del 29 dicembre 2000, p. 95, e in Guce n. C135 del 7 maggio 2001, p. 263). Nell’ultima Risoluzione citata, del 7 settembre 2000, il Parlamento europeo ha incisivamente affermato che la c.d. clonazione terapeutica «pone un profondo dilemma etico, costituisce un passo senza non ritorno per quanto riguarda le norme della ricerca e si pone in contrasto con l’impostazione in materia di ordine pubblico e buon costume adottata dall’Unione europea».

[14] Secondo l’art. 13 della Convenzione di Oviedo «un intervento che ha come obiettivo di modificare il genoma umano non può essere intrapreso se non per ragioni preventive, diagnostiche o terapeutiche e solamente se non ha come scopo di introdurre una modifica nel genoma dei discendenti». Si ricorda che la Convezione sulla diversità biologica è stata adottata, insieme alla Dichiarazione sull'ambiente e lo sviluppo, alla Convenzione sui cambiamenti climatici ed alla c.d. Agenda 21, dalla Conferenza delle Nazioni Unite su ambiente e sviluppo (UNCED) tenutasi a Rio de Janeiro dal 3 al 14 giugno 1992. Si tratta di importanti atti di natura internazionale, intesi a formalizzare la volontà degli Stati partecipanti alla Conferenza di Rio di conseguire uno sviluppo economico e sociale compatibile con la salvaguardia dell'ambiente (per un esame di tali atti si veda, per tutti, G. Garaguso-S. Marchisio (a cura di), Rio 1992: vertice per la Terra, Milano: Franco Angeli, 1993). L'Agenda 21, in particolare, ha assegnato all'Assemblea generale delle Nazioni Unite il compito di procedere alla verifica quinquennale dei risultati conseguiti nel quadro dell'attuazione degli impegni assunti a Rio, cui ha provveduto la XIX sessione speciale dell'Assemblea generale (UNGASS) tenutasi a New York nel giugno 1997. Sui risultati raggiunti in tale sede, si veda S. Marchisio et al., Rio cinque anni dopo, Milano: Franco Angeli, 1998, nonché United Nations Environment and Development, Earth Summit II, Outcomes and Analysis, London, 1998.

[15] La Dichiarazione dell’UNESCO si articola in un Preambolo e sette capitoli: Dignità umana e genoma umano (artt. 1-4); Diritti delle persone interessate (artt. 5-9); Ricerche sul genoma umano (artt. 10-12); Condizioni di esercizio dell’attività scientifica (artt. 13-16); Solidarietà e cooperazione internazionale (artt. 17-19); Promozione dei principi della Dichiarazione (artt. 20-21); Attuazione della Dichiarazione (artt. 22-25). Si ricorda che il contenuto della Dichiarazione dell’UNESCO è stato ripreso in toto dalla Risoluzione sui diritti umani e il genoma, adottata dall’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1998 (A/RES/53/152). Va precisato che la Dichiarazione dell’UNESCO e la Risoluzione delle Nazioni Unite, pur essendo dotate di una portata più ampia della Convenzione di Oviedo (in ragione del diverso numero di Stati membri delle tre Organizzazioni), sono sprovviste di efficacia vincolante.

[16] La nozione di “patrimonio comune dell’umanità” è ormai diffusa nel diritto internazionale per indicare le esigenze collegate o conseguenti alla responsabilità (internazionale ed intergenerazionale) di promuovere e realizzare lo sfruttamento di risorse naturali esauribili a beneficio dell’intera umanità. Tale nozione si rinviene, in particolare, nelle risoluzioni dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite e nell’art. 136 della Convenzione di Montego Bay del 10 dicembre 1982, concernenti lo sfruttamento delle risorse del fondo e del sottosuolo marino oltre i limiti delle giurisdizioni nazionali (c.d. mare internazionale), nonché nelle risoluzioni dell’Assemblea generale dell’ONU concernenti l’utilizzo delle risorse dell’Antartide. Per una ricostruzione di tale nozione nell’ambito qui in esame si rimanda a G.B. Kutukdjian,Le génome humain: Patrimoine Commun de l’Humanité, in Héctor Gros Espiell Amicorum Liber, Bruxelles, 1997, I, 601.

[17] Si veda espressamente, in tal senso, l’art. 2, lett. b, della Dichiarazione universale. L’art. 12 della Dichiarazione precisa che «ognuno dovrebbe avere accesso ai progressi della biologia, della genetica e della medicina, concernenti il genoma umano, nel rispetto della propria dignità e dei propri diritti….Le applicazioni della ricerca, soprattutto quelle in biologia, genetica e medicina, concernenti il genoma umano, devono tendere ad alleviare la sofferenza ed a migliorare la salute dell’individuo e dell’umanità intera». Precise esigenze di solidarietà e cooperazione internazionale sono inoltre sancite dalla Dichiarazione agli artt. 17-19, secondo cui gli Stati dovrebbero, anzitutto, incoraggiare le ricerche destinate ad identificare, prevenire e curare le malattie di natura genetica, come pure le malattie rare o endemiche che colpiscono una parte importante della popolazione mondiale. Nei rapporti tra Paesi industrializzati e Paesi in via di sviluppo (PVS), la Dichiarazione prevede poi che i primi dovrebbero incoraggiare la cooperazione scientifica e culturale con i secondi, favorendo la diffusione internazionale della conoscenza scientifica sul genoma umano, sulla diversità umana e sulle ricerche genetiche, nonché rafforzare la capacità di ricerca biologica dei PVS, permettendo a questi ultimi di trarre beneficio dai progressi della biomedicina.

[18] Va ricordato, in proposito, il caso ormai di scuola del Sig. Moore, affetto da una rara forma di leucemia, al quale venne asportata la milza presso l’Università di San Diego (California). A tale prelievo ne seguirono molti altri (sangue, pelle, midollo osseo e liquido seminale) diretti al monitoraggio della malattia, ma anche alla produzione di una linea cellulare successivamente brevettata dall’equipe medica che aveva in cura il Sig. Moore e posta in commercio in forma di prodotti farmaceutici di successo nel trattamento di molteplici e gravi affezioni. Gli sviluppi giudiziari della vicenda videro riconoscere al Moore, in secondo grado, un generale diritto di proprietà sulle proprie cellule e sulle altre parti del corpo, mentre, nell’ultimo grado del giudizio (1989), tale diritto di proprietà venne escluso, riconoscendosi al paziente un più limitato diritto al risarcimento del danno per aver omesso il medico di informarlo, al momento dei prelievi, circa l’esistenza di un suo interesse personale al trattamento ed alla commercializzazione dei materiali biologici prelevati. Si noti tuttavia che, più di recente, l’azione di pressione esercitata da associazioni e fondazioni sorte spontaneamente per difendere i diritti dei pazienti, soprattutto negli Stati Uniti d’America e nel Regno Unito, sta indirizzando la giurisprudenza di quei Paesi verso risultati affatto diversi da quelli raggiunti nel caso Moore: cfr., con particolare riferimento al Terry Case del 2000, A. Santosuosso, Il gene dell’azionariato diffuso, in Il Sole 24Ore del 10 giugno 2001, p. IX. In generale, sulla proprietà di parti del corpo umano e sulla tutela dei diritti che attengono ai caratteri genetici dell'uomo, si veda Paganelli M., Alla volta di Frankestein: biotecnologie e proprietà (di parti) del corpo umano (nota a Corte di appello della California 31 luglio 1988), in Il Foro italiano, 1989, IV, 417-421; Edelman H., Discutendo il caso Moore, in Rivista critica di diritto privato, 1989: 469-482; Martin L., Le droit de tirer profit de ses caracteristiques personnelles, notamment genetiques, est-il illimité?, in Journal International de Bioéthique, 1996, 4: 296-321.

[19] Si tratta, occorre precisare, di un Ufficio del tutto indipendente dalla Comunità europea, essendo stato istituito nel 1977 nel quadro della Convenzione di Monaco sulla concessione di brevetti europei.

[20] Cfr. l’art. 23D della versione modificata ed integrata dalla decisione dell’Administrative Council del 16 giugno 1999, che ha provveduto ad inserire un nuovo capo sulle invenzioni biotecnologiche conforme alla disciplina introdotta dalla Direttiva comunitaria n. 98/44. Si noti che il brevetto rilasciato dall’UEB appariva in contrasto anche con l’art. 6 di tale Direttiva, che proibisce la clonazione umana.

[21] Rispetto al quale restava comunque salva la facoltà di presentare opposizione, secondo quanto previsto dalla Convenzione di Monaco.

[22] Sul punto si è pronunciato anche il Parlamento europeo con la Risoluzione del 30 marzo 2000 (in Guce n. C378 del 29 dicembre 2000, p. 95), nonché il Comitato Nazionale per la Bioetica con la Dichiarazione del 25 febbraio 2000.

[23] Si noti che, nel corso dei lavori preparatori, diversi Paesi membri (tra cui l’Italia), nonché le istituzioni comunitarie (e in particolare il Parlamento europeo), avevano auspicato l’integrazione della Carta nei Trattati. In particolare, nelle ultime fasi del negoziato, era stata presentata la proposta di inserire nell’art. 6, par. 2, del Trattato di Maastricht un riferimento esplicito alla Carta, formalizzando così la sua posizione nel quadro dell’Unione ed inserendola tra i principi generali del diritto comunitario. Tali richieste non possono che essere condivise, soprattutto ove si consideri il fatto, ormai paradossale, che il Trattato di Maastricht continua a fare riferimento esclusivo ad un testo (quale la CEDU) elaborato in seno ad una organizzazione internazionale diversa dalle Comunità (il Consiglio d’Europa), mentre oggi le Comunità e l’Unione dispongono di un proprio catalogo di diritti fondamentali. Il mancato accoglimento delle richieste in parola appare appena bilanciato dal fatto che il dispositivo della Carta appare formulato in modo tale da poter essere utilizzato, in prospettiva, come strumento giuridicamente vincolante.

[24] Oltre al Preambolo, la Carta comprende sette Capitoli, dedicati alla Dignità umana (artt. 1-5), alla Libertà (artt. 6-19), all’Uguaglianza (artt. 20-26), alla Solidarietà (artt. 27-38), alla Cittadinanza (artt. 39-46), alla Giustizia (artt. 47-50), nonché alle Disposizioni generali (le c.d. norme orizzontali di cui agli artt. 51-54).

[25] E’ significativo ricordare che, nel corso dei lavori preparatori, era stato proposto un riferimento «al patrimonio culturale, umano e religioso» dell’Unione. Tuttavia, secondo alcuni Stati (ed in particolare la Francia), tale espressione si prestava a costituire un fattore di potenziale discriminazione.

[26] Si ricorda, in proposito, che l’art. 13 della Carta proclama anche la libertà della ricerca scientifica.

[27] Si ricorda che il divieto di discriminazione genetica è già sancito dall’art. 11 della Convenzione di Oviedo e dall’art. 6 della Dichiarazione dell’UNESCO, sopra esaminate. Rileva, in proposito, la formulazione utilizzata dal Protocollo addizionale alla CEDU n. 12 del 2000, che proibisce non solo le discriminazioni fondate sul «sesso, la razza, il colore, la lingua, la religione, le opinioni politiche, l’origine nazionale o sociale, l’appartenenza ad una minoranza nazionale, la proprietà, la nascita», ma anche quelle fondate su «altri status».

[28] Secondo le attuali parole di Jonas H., Tecnica, medicina e etica, Torino: 1997.

PIERMARCO AROLDI
IL COINVOLGIMENTO DEL GRANDE PUBBLICO 
SULLO SVILUPPO DELLA RICERCA BIOMEDICA


IL RUOLO DEI MASS-MEDIA

IL QUADRO TEORICO DI RIFERIMENTO

 

Il tema di queste pagine suggerisce un esercizio di riflessione sul confine tra due territori, quello rappresentato dalla ricerca biomedica e dal suo sviluppo e quello del sistema dei media e della comunicazione sociale.



Si tratta di un confine che unisce più di quanto separi, ricco di varchi e di passaggi attraverso i quali, sempre più frequentemente, transitano soggetti, idee e problemi. Nel corso di questa relazione si tenterà sinteticamente di tracciare alcuni dei passaggi più transitati e delle questioni più significative che attraversano i due territori.

Se questa intenzione definisce in partenza i limiti entro cui si muoverà il discorso, il quadro teorico in cui esso si iscrive richiede un respiro più ampio. Per non ridursi a una descrizione più o meno fedele del panorama, lo sguardo ha bisogno di punti di riferimento, di categorie mentali che permettano di riconoscere e nominare i fenomeni, di cogliere somiglianze, analogie, differenze. Da questo punto di vista, la riflessione etica sulla biomedicina, da una parte, e sulle comunicazioni sociali, dall’altra, costantemente sollecitate dal Magistero, forniscono alcune indicazioni comuni a entrambi i territori che vale la pena evocare sinteticamente.

Diversi autori, in anni recenti, hanno non a caso colto significative analogie tra quanto sta avvenendo nell’ambito della ricerca scientifica e medica e la brusca accelerazione che la telematica ha inferto al sistema globale dei media, proponendo o discutendo metafore che, spesso in modo suggestivo, operano per slittamento semantico tra questi due campi[1].

Le problematiche sollevate da questi mutamenti sono ricche di conseguenze pratiche spesso rilevanti, al punto che, da più parti, si è suggerita l’istituzione di Comitati di Videoetica o di Etica dei media sul modello di quelli adottati in ambito biomedico, e che le Istituzioni politiche hanno avvertito la necessità di costituire la figura del Garante per le comunicazioni.

Al di là di queste analogie, su alcune delle quali varrà forse la pena tornare, sono però altri i fondamenti –fra loro intimamente connessi- che è bene richiamare brevemente come categorie utili a affrontare entrambi i campi di riflessione: si tratta delle nozioni -centrali nella tradizione del pensiero cristiano- di persona umana e di verità. Dalla prima deriva la tradizione personalista che, come ricorda Antonio Spagnolo, “affonda le sue radici nella ragione stessa dell’uomo e nel cuore della sua libertà”: l’uomo è persona perché capace di riflessione su di sé, di autodeterminazione, di scoprire il senso delle cose e attribuirlo alle proprie espressioni; “in ogni persona umana il mondo tutto si ricapitola ed acquista senso, ma il cosmo è nello stesso tempo travalicato e trasceso. In ogni uomo sta racchiuso il senso dell’universo e tutto il valore dell’umanità: la persona umana è unità, un tutto e non una parte di un tutto […] una ‘unitotalità’ di corpo e spirito che rappresenta il suo valore oggettivo, di cui la soggettività si fa carico”[2].

L’essere umano così concepito a immagine e somiglianza del suo Creatore può essere sempre solo fine e mai mezzo. Questa nozione, così familiare alla tradizione culturale di questa Accademia, guida anche la riflessione nell’ambito dell’etica della comunicazione; la comunicazione, infatti, come ricorda Guido Gatti, “si iscrive nell’ambito dei rapporti interpersonali di cui rappresenta una fattispecie di particolare rilievo; è un tipo di rapporto interpersonale particolarmente intimo e, più di ogni altro, specifico della condizione di persone e della appartenenza al mondo dello spirito di coloro che vi partecipano. Nella comunicazione gli uomini entrano in un rapporto di reciproco scambio […] creando in questo modo una reale unità interpersonale”[3].

Anche la comunicazione operata dai mass-media si iscrive in questa prospettiva, come sintetizza il Pontificio Consiglio delle Comunicazioni Sociali quando osserva che “in tutte e tre le aree, messaggio, processo, questioni strutturali e sistemiche, il principio etico fondamentale è il seguente: la persona umana e la comunità umana sono il fine e la misura dell'uso dei mezzi di comunicazione sociale. La comunicazione dovrebbe essere fatta da persone a beneficio dello sviluppo integrale di altre persone”[4]. A un’etica della prima persona, cioè della responsabilità personale, rimandano autori come Spaemann, Abbà e Rhonheimer, cui fanno riferimento, tra gli altri, Bettetini e Fumagalli nel proporre le loro “idee per un’etica delle comunicazione”[5].

Ancor più sintetico dovrà essere il riferimento al secondo principio, connesso al primo, quello di verità: così centrale nella riflessione bioetica a partire dalla verità ontologica, la verità della persona appena ricordata e che l’enciclica Veritatis splendor pone alla base stessa dell’etica, la questione della verità è, forse ancor più evidentemente, fondamentale nella riflessione sulla comunicazione.Qui non è solo in gioco la verità dei soggetti personali coinvolti nel processo comunicativo, ma anche la loro veridicità –intesa meno come “oggettiva corrispondenza del messaggio espresso nei confronti di una precisa realtà fattuale”, cioè come verità logica, che non come “soggettiva corrispondenza del messaggio col pensiero del comunicante e la volontà del comunicante di esprimere la verità del proprio pensiero senza infingimenti e senza schermi intenzionali”[6]. Ne deriva non solo la negatività intrinseca della menzogna, ma anche la dimensione pragmatica della verità dell’atto comunicativo stesso, sperimentato prima di tutto come forma di inter-azione tra persone. Se, infatti, la verità logica non è sempre prerequisito fondamentale della comunicazione, almeno in quanto l’errore in buona fede fa parte dei rischi della comunicazione, l’autenticità dei soggetti (potremmo dire la loro deontologia) e l’autenticità della loro relazione personale costituisce un elemento strutturale della autentica comunicazione, anche nell’ambito dei mass-media[7].

Ricordati questi riferimenti di fondo, vale ora la pena avvicinarsi all’universo della comunicazione sociale o di massa (vorrei usare i due termini come sinonimi, pur nella consapevolezza della loro differenza storica e semantica) per rilevarne, innanzitutto, la portata di ambiente culturale: se il termine medium significa, infatti, tanto canale quantoambiente, dobbiamo dire che ormai è questo secondo aspetto a prevalere. Ciò è evidente tanto a livello delle tecnologie impiegate, quanto a quello della loro capacità di produrre significati sociali.

Sul primo livello (che costituisce, come si è visto, elemento in comune tra ambito comunicativo e ricerca biomedica) si esprime con grande chiarezza Francesco Botturi quando osserva che, a differenza della antica tecnica, la moderna tecnologia “precede ed eccede il soggetto e le sue intenzioni. Il soggetto certamente utilizza e innova le tecniche, ma ne dispone limitatamente; molto più ne è disposto, perché la tecnologia è un fatto sempre meno settoriale, ma è un amplissimo insieme di dispositivi, che con la sua pervasività e capillarità dà forma a gran parte del contesto vitale e dell’orientamento mentale dell’uomo contemporaneo, cioè costituisce ambiente”[8] entro cui egli fa esperienza di sé, degli altri e del mondo. Con una serie di metafore particolarmente suggestive il cardinale Carlo Maria Martini parlava, a questo proposito, di “un’atmosfera, un ambiente nel quale si è immersi, che ci avvolge e ci penetra da ogni lato. Noi stiamo in questo mondo di suoni, di immagini, di colori, di impulsi e di vibrazioni come un primitivo era immerso nella foresta, come un pesce nell’acqua. E’ il nostro ambiente, […] un nuovo modo di essere vivi”[9].

Proprio perché luogo dell’esperienza quotidiana, seppur mediata, i mezzi di comunicazione finiscono per costituire un ambito privilegiato per la produzione e la riproduzione della cultura, una fitta rete di discorsi pubblici e privati all’interno della quale diventa difficile isolare singoli messaggi o singoli testi e che facilmente si propone come orizzonte reale, seppur simbolico, entro il quale situare i percorsi di attribuzione di senso, di riconoscimento dei valori, di coordinamento dell’azione individuale e collettiva. Da questo punto di vista, senza certo voler ridurre la ricchezza culturale delle nostre società alla cultura di massa espressa dai media, è inevitabile cogliere profonde consonanze tra le forme del pensiero apparse nella modernità radicalizzata e le forme culturali rappresentate dai flussi comunicativi che attraversano le reti dell’informazione, dell’intrattenimento, della divulgazione. Ciò significa, ai fini del nostro tema, che se da una parte, come osserva Claudio Giuliodori a proposito della bioetica, i media sono il luogo in cui le tematiche specialistiche assumono dignità e cittadinanza sociale[10], dall’altra essi definiscono il principale contesto culturale e il set di linguaggi possibili entro cui le questioni più rilevanti per la persona e per la comunità vengono pensate, affrontate, rappresentate, discusse, valorizzate e giudicate.

Questa considerazione porta con sé alcune conseguenze problematiche rilevanti, che saranno indicate nella seconda parte di questo intervento; ma prima ancora preme sottolineare questa ulteriore analogia o continuità tra i territori della ricerca biomedica e della comunicazione di massa: entrambi sono luoghi di una produzione culturale rapidamente e radicalmente mutati dalle tecnologie, entro i quali la riflessione su alcuni temi decisivi come la nozione di naturale e artificiale, la percezione della corporeità e dei suoi limiti, il nodo dell’identità –biologica e culturale- viene sviluppata alla luce –giocoforza un po’ crepuscolare- del tramonto delle neutralità. Finito il mito della neutralità della scienza e della tecnologia, accantonato quello della neutralità dell’informazione, i media possono divenire facilmente lo spazio simbolico in cui, anche a causa della pluralità dei soggetti coinvolti, si confrontano, non sempre consapevolmente, paradigmi divergenti, assiologie contrastanti e a volte contraddittorie, strategie di sviluppo e di controllo: basti pensare, per esempio, come l’informazione televisiva sia, almeno in Italia, uno degli ambiti di discorso socialmente più rilevanti in cui convivono quotidianamente voci e tendenze, per così dire, “naturalistiche” (ambientalismo, animalismo, biologismo etc…) e opposte spinte “artificialistiche” (biotecnologie, controllo dei processi riproduttivi etc…).

La cultura dei media, intesi non tanto come sistema ma come insieme dei discorsi sociali che lo attraversano e lo articolano, dimostra così facilmente una profonda e inconsapevole contraddittorietà; la contraddizione insita in posizioni che non accettano la sperimentazione su animali ma accetterebbe quella sugli embrioni umani, o i timori nei confronti delle biotecnologie che convivono con l’assunto della loro utilità ai fini della scoperta di terapie contro diverse malattie ne sono solo alcuni esempi.

Ma proprio perché ambiente socio-culturale, i media sono, dunque, non solo il luogo di principale manifestazione delle contraddizioni e delle tensioni che attraversano i diversi campi del sapere e dell’agire sociali, ma anche lo spazio di una loro possibile negoziazione, l’ambito della costruzione del consenso, l’agorà in cui si confrontano competenze differenti. Sono, in poche parole, l’arena in cui si gioca l’opinione pubblica, non più intesa come giudizio articolato razionalmente in funzione di strumento di controllo e stimolo sull’operato di governo, ma come doxa, sentire comune, gioco di specchi in cui riconoscersi o da cui prendere le distanze.

In virtù della crescente complessità del sistema, inoltre, gli opposti fenomeni di autoreferenzialità e di interattività suggeriscono come i media possano essere anche soggetti o luoghi privilegiati non solo della parola e del discorso ma anche dell’intervento, dell’azione, del mutamento: i primi rendono conto di come una notiziafalsa possa circolare per anni, ripresa da un medium all’altro, nonostante le smentite ufficiali; o di come posizioni in realtà minoritarie possano avere più successo nei media che nella cosiddetta “realtà dei fatti”. Le risposte più o meno indirette innescate dai flussi di comunicazione provocano, a loro volta, azioni e reazioni, cambiamenti di rotta, prese di posizione. Il caso Di Bella costituisce, da questo punto di vista, un esempio da cui, forse, non sono ancora state tratte tutte le lezioni necessarie.

Per tutti questi motivi può essere utile osservare più da vicino, seppure schematicamente,alcuni snodi del rapporto tra media e ricerca medico-scientifica.

 

 

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