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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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Il metodo della bioetica, tra descrittivo e prescrittivo

Il carattere interdisciplinare della bioetica è stato espresso fin dall’inizio dalla ormai celebre definizione proposta nel 1978 dall’ Encyclopedia of Bioethics: "studio sistematico del comportamento umano nel campo delle scienze della vita e della salute, in quanto questo comportamento è esaminato alla luce di valori e principi morali"[9].

La definizione della bioetica, come è noto, resta ancora un problema aperto, in quanto resta ancora da definire con chiarezza quale sia il suo statuto epistemologico[10]: in particolare resta aperta la questione se la bioetica possa o no assolvere ad un compito prescrittivo, o si debba limitare all’aspetto descrittivo o di chiarificazione dei problemi che affronta. Decidere per una bioetica soltanto descrittiva o anche prescrittiva significa, in ultima istanza, decidere se l’etica della bioetica riesce a superare l’impasse in cui si è trovata gran parte della filosofia morale contemporanea che ha assunto come proprio modello teorico l’impianto analitico.

Resta comunque il fatto che, mentre sul piano della scienza medica l’interdisciplinarità può assolvere ad un compito descrittivo, quando si entra nell’ambito dell’arte medica emerge come inevitabile il problema del che cosa si deve fare.L’arte medica, per sua stessa natura, richiede un momento prescrittivo. Ed è proprio quando la bioetica è chiamata a gestire dei contenuti problematici che emerge l’esigenza di stabilire un metodo che permetta di indicare ciò che si deve fare, e non soltanto ciò che di fatto si fa.

Per quanto riguarda il metodo della bioetica, vale la pena prendere in esame la proposta di E. Sgreccia, che si è imposta come punto di riferimento delle ricerche del Centro di Bioetica dell’Università Cattolica (e non soltanto di questo).

Questo metodo è stato presentato attraverso la figura della triangolazione: esposizione del fatto biomedico, approfondimento del significato antropologico, individuazione dei valori in gioco.

La figura del triangolo[11], nella sua geometrica chiarezza permette di individuare ciò che possiamo definire le “emergenze” teoriche della questione bioetica: rappresentata appunto dai tre vertici del triangolo. La figura, peraltro, esprime la necessità che siano presenti tutti e tre i vertici teorici: se ne venisse a mancare uno, verrebbe a mancare la figura stessa. Se abbiamo ben inteso la proposta di Sgreccia, il significato simbolico del metodo della triangolazione ci permette di affermare che la bioetica non è definita soltanto dalla presenza di questi “vertici” tematici, ma dalla loro connessione, che permette appunto di tracciare un itinerario.

Se leggiamo la proposta metodologica di Sgreccia, rappresentata da questa figura, alla luce delle concrete tesi che egli ha svolto nel suo Manuale, emergono diversi aspetti dell’interdisciplinarità, sui quali è opportuno riflettere. La relazione “triangolare” tra bio-medicina, antropologia, etica, infatti, si assesta su due piani: dapprima permette una chiarificazione del tema (momento descrittivo) che è fatto oggetto della riflessione bioetica, poi segue un momento prescrittivo, in cui, però le conclusioni sono guadagnate discutendo quelle prospettive metaempiriche che di fatto sono presenti nei due dei lati della figura triangolare. In questo modo la bioetica si presenta secondo una connotazione tanto valutativa quanto critica. Valutativa, perché lo scopo della bioetica non è quello semplicemente di descrivere l’insieme dei dati che entrano in una relazione che si presenta più o meno problematica, ma di proporre delle soluzioni a questi stessi problemi: e si tratta di soluzioni di natura etica, e perciò prescrittivi.

La connotazione etica della bioetica, pertanto, non si mostra secondo una improponibile logica deduttiva, ma grazie ad un’interazione sistematica delle diverse forme del sapere che trovano la loro conclusione in un giudizio di coscienza (premessa del giudizio ultimo pratico, cioè dell’azione vera e propria), cioè in una valutazione di ciò che è bene fare qui ed ora. Ora, questo metodo si distingue dal proceduralismo di altre prospettive sia per la sua connotazione contenutistica, che ha il suo perno in una concezione sostanzialistica della persona umana, sia per la sua struttura critica o, se si preferisce, dialettica. Non va, infatti, trascurato che, se abbiamo ben inteso l’itinerario argomentativo di Sgreccia, la concezione etica ed antropologica che egli propone è chiaramente di stampo cognitivista, e pertanto si muove nella convinzione che si possano guadagnare alcune verità intorno all’uomo e alla sua prassi, riconoscibili in linea di principio da tutti.

In questa figura “triangolare” emerge, peraltro, il significato analogo della verità, che resta il terreno sul quale costruire una valutazione morale. I tre lati del triangolo possono essere tracciati perché c’è qualcosa che accomuna i tre vertici e li rende comunicanti pur nella differenza: ed è appunto il significato analogo della verità. Se l’immagine dell’umano e del valore della sua esistenza e della sua prassi (cioè l’antropologia e l’etica) fossero soltanto il frutto storico culturale delleopzioni del singolo e delle comunità, allora non si comprenderebbe in base a che cosa si potrebbero avanzare delle pretese nei confronti dell’attività scientifica, che resterebbe l’unica ancorata al criterio del vero e del falso.Ma proprio perché tutte e tre le discipline, secondo i metodi che le caratterizzano, hanno a che fare con la verità, sono in grado di comprendersi ed interagire nell’itinerario di valutazione di ciò che è in gioco nella prassi umana.

Nella prospettiva di Sgreccia, infatti, la bioetica non sorge dalla somma delle competenze, ma emerge come disciplina nella costruzione di un itinerario (il triangolo) che ha la sua realizzazione laddove il giudizio di coscienza è formulato in base alle verità acquisite ed integrate. Il momento prescrittivo, che indica indubbiamente come l’oggetto formale della bioetica sia di stampo etico, non è pertanto frutto di una pura deduzione dai principi morali, ma sorge dentro un complesso itinerario teorico che tiene conto dei diversi approcci alla realtà, resi possibili dall’attività conoscitiva dell’uomo. Questo riferimento alla prassi conoscitiva che accomuna queste discipline è il fondamento della legittimità della valutazione etica. L’etica, infatti, ha sempre come oggetto le azioni umane e, quindi, non si trova “fuori luogo” laddove interviene per individuare i beni che sono in gioco: beni che riguardano anche la scienza dal suo interno, perché essa è sempre e comunque espressione dell’umano e della verità della sua condizione.

Il carattere dinamico di questo processo ci permette di evidenziarne anche la portata dialettica: la stessa verità sull’uomo, nelle sue molteplici dimensioni, è, infatti, anche un guadagno teoretico, e non soltanto un’eredità del pensiero classico. In questa prospettiva, allora, si comprende lo sforzo per ritrovare le ragioni che fanno dell’antropologia e dell’etica un sapere, che si assesta discutendo ed argomentando, prendendo sul serio le tesi che a questo itinerario si contrappongono. Questo modello teorico rende la bioetica un’impresa teoreticamente dinamica non soltanto perché ha a che fare con le scoperte scientifiche che vengono di volta in volta riproposte, ma perché tiene anche conto delle diverse modalità con le quali l’uomo contemporaneo percepisce, in modo più o meno adeguato, la propria identità e l’insieme dei valori che lo connotano come uomo.

Ora, è importante sottolineare che questo impianto argomentativo è metodologicamente caratterizzato dalla capacità di confrontarsi sia con le istanze dell’ateismo e della secolarizzazione, sia con le proposte della fede e della teologia, cattolica e non. Si tratta dell’ impianto metodologico e non semplicemente della volontà dell’Autore: è, infatti, proprio della struttura dialettica ed argomentativa della ragione la capacità di considerare tutto ciò che le si presenta come in grado di contribuire alla scoperta della verità. Questa capacità metodologica di non escludere a-priori nessun interlocutore, e di saper distinguere la fonte di una tesi dal valore in sé della tesi stessa, permette di fornire un’indicazione precisa alla vexata quaestio del pluralismo etico, che vorrebbe ricondurre anche la bioetica ad una provincia dei singoli territori nei quali si dividerebbe la mappa dell’etica. Nessun dubbio sul fatto che l’etica sia terreno di scontro e di differenze: ma questo fatto non può pretendere alcuna normatività, anzi ne richiede proprio il superamento. Superamento richiesto dal fatto che quando si mette a tema il bene morale si mette a tema l’umano che c’è in ognuno di noi: quando si agisce in nome della morale si agisce in nome dell’umanità e perciò si interpella ogni uomo come soggetto morale. Da qui deriva la spinta al confronto e alla discussione, animata dallo spirito della ricerca della verità e non dall’esigenza del dominio e del puro consenso.

A chi ha una formazione scientifica, empirica, potrà sembrare che questa impostazione rischi di essere conflittuale, a fronte delle modalità assertorie con le quali le quali si trasmettono i risultati scientifici: ma è un’impressione erronea, che non tiene conto della specificità metodologica del sapere filosofico e dimentica che questa dimensione dialettica è analoga alla logica dell’ipotesi e della verifica con la quale si costruisce il sapere sperimentale.

Mantenere questa consapevolezza metodologica potrebbe essere un ottimo antidoto anche nei confronti di possibili derive ideologiche che potrebbero condizionare la trasmissione di alcuni contenuti bioetici: nella trasmissione dei contenuti, infatti, è necessario aver cura di indicare anche le ragioni che li supportano e le tappe dialettiche che ne hanno permesso la formulazione. Certo, questa impresa non è di facile attuazione in un contesto culturale che sembra oggi privilegiare una linea ermeneutica che, in nome di un inventario delle possibili ed indefinite letture della realtà, rifiuta di pensare la stessa possibilità della soluzione ai problemi etici. Ma questo è un tema che qui non possiamo affrontare.

 

Linee conclusive

Per prima cosa è opportuno ricordare che c’è un nesso intrinseco tra tutte le attività umane e la questione morale: per usare l’espressione tomistica idem sunt actus morales et actus umani. Come è noto, per Tommaso, gli atti umani sono quelli liberi e consapevoli, dei quali possiamo “rispondere”, che determinano progressivamente la nostra personalità morale e la nostra capacità non soltanto di fare il bene e il male, ma di essere buoni o cattivi.

Da qui deriva un fatto: tutte le attività umane, considerate dal lato del soggetto, hanno a che fare con la morale. Su questo aspetto si fonda l’esistenza della deontologia sia come mezzo per ottenere risultati confacenti allo scopo specifico della ricerca medica (valore dell’onestà intellettuale, della precisione, e via dicendo), sia come mezzo perché il singolo agente, attraverso le sue opere, rispetti e promuova la propria identità morale. Questo aspetto “immanente”, deontologico,non può però essere né l’unico né il fondamentale tema da affrontare laddove si parla di interdisciplinarità. In termini paradossali potremmo esprimere il limite della riduzione dell’etica a deontologia professionale ricordando che anche per ottenere scopi cattivi possono essere richieste virtù (cioè abilità) morali: così occorre serietà, impegno, precisione anche per costruire un’arma letale, ma questa profusione di virtù non rende lo scopo in sé buono e apre la questione delle responsabilità del soggetto agente e della loro estensione.

L’interdisciplinarità emerge con un’altra esigenza, quella della valutazione sia dei mezzi sia degli scopi dell’attività biomedica: qui la questione etica trascendela ricerca stessa, e si costituisce secondo una valenza “architettonica”. La valutazione morale non mina l’autonomia disciplinare in quanto tale, ma la considera in funzione di un’altra prospettiva disciplinare. Questa impostazione è già sottesa, per esempio, al convincimento diffuso checiò che si può concretamente fare non coincide di per sé con ciò che è moralmente bene fare. Si noti che è possibile anche un rapporto differente, cioè si può dare una valutazione medica di una prassi morale, come valutazione estrinseca e non per questo lesiva dell’autonomia della morale stessa. Poniamo, a titolo di esempio, la legittimità di interrogarsi circa la salubrità o no di un digiuno prolungato, dettato da criteri religiosi, o di portare a termine una gravidanza rischiosa. Un’azione può così essere “buona” moralmente, ma anche “nociva” dal punto di vista della salute: a livello conoscitivo è così possibile invertire le relazioni tra le varie discipline. Il carattere della interdisciplinarità, infatti, permette lo scambio delle parti, senza che per questo venga determinata (in linea di principio) una violazione dell’autonomia delle singole discipline correlate.

La necessità della valutazione morale, come abbiamo cercato di provare, deriva dalla caratterizzazione pratica della scienza e dell’arte medica.

Le considerazioni finora svolte sul versante della morale possono essere facilmente estese sul piano antropologico, distinguendo, anche in questo caso, una relazione intrinseca ed una relazione estrinseca. Da una parte, infatti, la ricerca sul corpo dell’uomo richiede una concezione dell’uomo e non soltanto una conoscenza della sua struttura biologica, anatomica, chimica e fisica per il semplice motivo che queste strutture non esistono in astratto, ma sono qualificate dalla condizione umana stessa. La peculiarità umana è anche la peculiarità qualificata della corporeità umana.

Un’ultima annotazione, di tipo storico, si impone. Per lungo tempo la medicina, come arte e come scienza, non ha avvertito la necessità di una connessione strutturale con le discipline filosofiche semplicemente perché essa assumeva dall’ambiente culturale nel quale operava le categorie antropologiche ed etiche. Per molto tempo la medicina è stata “naturalmente” cristiana semplicemente perché si era formata e sviluppata in una Weltanschauung cristiana. Oggi la situazione è profondamente diversa, perché il contesto culturale è contrassegnato da diverse forme di secolarizzazione e perché non si può più parlare, a livello sociologico, di un indiscusso primato dell’umanesimo di stampo cristiano. Non esiste più, a livello sociologico, una concezione omogenea alla quale fare riferimento: il “buon senso” non è in grado di supplire alle specifiche conoscenze antropologiche ed etiche. Da questa situazione storico-ambientale deriva le necessità di guadagnare a livello teorico molte delle categorie che, per lungo tempo, hanno fatto da “sfondo” naturale e non conflittuale alla biomedicina occidentale. Il futuro della scienza e dell’arte medica richiede una nuova consapevolezza sul piano delle conoscenze e delle competenze etiche ed antropologiche.

1] Tra i numerosissimi studi dedicati alla storia delle scienze e al loro rapporto con la filosofia, ci limitiamo a ricordare qualche testo: A. Koyré, Dal mondo Chiuso all'universo infinito, Feltrinelli, Milano 1970; A.C. Crombie, Da S. Agostino a Galileo. Storia della scienza dal Val XVII secolo, Feltrinelli, Milano, 1970; P. Rossi, I filosofi e le macchine (1400-1700), Feltrinelli, Milano 1972.

[2] Una riedizione di questa polemica, nel nostro secolo, si è realizzata a partire dalla riflessione intorno alla tecnica e al rapporto che essa intrattiene con la cultura umanistica.

[3] Tommaso d’Aquino, Summa Teologiae, I. q.1, a 2.

[4] Può essere utile rileggere il sintetico ed interessante contributo di M. Lenoci, La ragione umana tra scienza e filosofia, in S. Zaninelli, Scienza, tecnica e rispetto dell'uomoIl caso delle cellule staminali, Vita e Pensiero, Milano 2001, pp. 27-38.

[5] Su questi temi cfr. D. Callahan, La medicina impossibile, trad. it., Baldini & Castaldi, Milano 2002e il recente Pareredel Comitato Nazionale per la Bioetica dal titolo Scopi, limiti e rischi della medicina, 14 dicembre 2001.

[6] H. Jonas, Tecnica, medicina, etica, trad. it., Einaudi, Torino 1997, p. 110.

[7] Se guardiamo alle intenzioni del soggetto conoscente non possiamo a distinguere tra scienze pratiche e scienze speculative: dal fatto, per esempio, che l’intenzione di un matematico sia quella di ottenere il premio Nobel con le sue ricerche non si può evincere nulla sulla natura della matematica.

[8] H. Jonas, op. cit., p. 111.

[9] Cfr. W. T. Reich (a cura di) Encyclopedia of Bioethics, 4 voll., The Free Press, Ney York, 1978, Introduction, p. XIX.

[10] Per una sintetica analisi del problema mi permetto di rinviare a A. Pessina, Bioetica. L’uomo sperimentale, B. Mondadori, Milano 1999.

[11] Cfr. E. Sgreccia, Manuale di Bioetica, vol I, Vita e Pensiero 1999(3° ed), pp. 63-64. La stessa figura metodologica è utilizzata nell’analisi della relazione tra i diritti del malato e quelli del medico (cfr. p. 244 e ss.).

ROBERT SPAEMANN
ARS LONGA, VITA BREVIS

Quello che noi oggi indichiamo con la parola "scienza" non è la stessa cosa che era chiamata con questo nome fino al sedicesimo secolo. E' bene essere consapevoli di questa differenza se ci si vuole fare un'idea adeguata di quello che fa la scienza moderna. Episteme o scientia erano sostantivi derivati dal verbo "sapere". Sapere è uno stato relazionale dell'anima, è l'habitus di un uomo. Un habitus: che qualcuno sa qualcosa non significa che debba pensare attualmente a quello che sa, ma significa invece che, se ci pensa, lo pensa correttamente e con certezza e più precisamente con una certezza che conosce le proprie ragioni come ragioni definitive. Questo differenzia il sapere dall'opinare e dal credere. In quanto concetto relazionale il sapere non è un fenomeno puramente psicologico. Dal punto di vista psicologico il sapere non è distinguibile da una convinzione sbagliata. Vi sono convinzioni sbagliate, opinioni sbagliate, credenze sbagliate. Non vi è invece sapere sbagliato, perché la verità, l'"adaequatio rei et intellectus", fa parte della definizione del sapere. Se io credevo di sapere qualcosa e in seguito arrivo a una convinzione diversa, questa nuova convinzione implica che la convinzione precedente era pure una convinzione ma non era sapere.

Il sapere viene attualizzato quando pensiamo coscientemente a quello che sappiamo, ma viene attualizzato anche senza che noi ci pensiamo attraverso il nostro comportamento. Andiamo in un posto passando da una certa strada perché sappiamo che questa strada porta in quel posto. Se percorriamo spesso quella strada non abbiamo bisogno ogni volta di rendere cosciente questo sapere. In generale il sapere ci dà la possibilità di raggiungere quello che vogliamo, posto che sappiamo che cosa vogliamo davvero.

Il sapere pratico nel senso classico della parola non era soltanto e neppure innanzi tutto know how, ma sapere di ciò che l'uomo vuole davvero e soprattutto. E poiché ogni uomo in fondo desidera essere felice, quello che deve sapere è in che cosa consista la felicità, l'eudaimonia, la beatitudo. Aristotele ha insegnato che la più alta forma di felicità consiste essa stessa nell'attualizzazione del sapere teoretico più elevato, nella theoria, ovvero nella contemplazione delle realtà eterne, necessarie e immutabili e non di quelle terrene, contingenti e mutevoli.

La theoria non serve alla praxis ma ne è essa stessa la forma più alta. Per Platone questo sapere supremo è la conoscenza del Bene. Alla fin fine ogni sapere è sapere soltanto se è fondato sulla conoscenza del Bene in quanto questo è "la causa della conoscenza e della realtà" di tutte le cose. Che cosa sia un coccodrillo lo si sa soltanto se si sa che cosa distingue un coccodrillo ben riuscito da uno mal riuscito, un coccodrillo sano da uno malato. E chi dicesse di sapere che cosa è un coltello, ma non fosse in grado di distinguere un coltello affilato da uno che non taglia, in realtà non sa che cosa è un coltello. Il concetto classico di sapere presuppone una visione teleologica della realtà. Sapere veramente significa comprendere una struttura teleologica. E abbiamo davvero compreso che cosa sia l'indefinibile "Bene in sé" quando questo determina il nostro comportamento. Chi fa il male, dice Platone, evidentemente non conosce veramente il bene. E così ancora san Tommaso insegna che nessuno fa volontariamente il male ovvero ciò che non è desiderabile. La colpa dell'azione cattiva è sempre preceduta da un errore colpevole rispetto a ciò che è desiderabile qui e ora ovvero rispetto al bene. Ancora Dante scrive che l'inferno è il luogo di coloro "c'hanno perduto il ben dell'intelletto". Per questo la tradizione della filosofia classica sostiene che la prudentia è la più alta delle virtù cardinali.

Ciò che più importa in questa caratterizzazione della scienza è che il sapere è sempre e soltanto lo stato di un singolo uomo reale. Non è possibile che qualcosa "si" sappia. Vi è la convinzione comune di più uomini. Ma una tale convinzione può diventare sapere sempre e soltanto in un uomo concreto. Soltanto un uomo concreto può essere sapiente. Ma il sapere nel senso tradizionale culmina appunto nella sapienza.

Il desiderio di sapere è un tratto fondamentale dell'uomo. "Tutti gli uomini per natura tendono al sapere": con queste parole inizia la Metafisica di Aristotele. Come prova empirica di questa caratteristica degli esseri umani Aristotele cita il fatto che essi provano piacere nel vedere, anche indipendentemente da ogni utilità pratica e da ogni riferimento all'azione.

Questo desiderio di sapere fine a sé stesso è stato considerato criticamente dai dottori cristiani. L'influenza maggiore la ebbe la critica della curiositas di Agostino. Si può leggere questa critica come una radicalizzazione della dottrina platonica della conoscenza del "Bene in sé" ovvero del Bene supremo. Per Platone si può parlare di sapere in senso stretto soltanto se ciò che è saputo viene fondato fino ad arrivare al fondamento ultimo che è il Bene in sé. Solo pochi sono in grado di farlo, i filosofi. Affinché lo Stato sia ordinato, negli altri devono essere coltivate opinioni corrette cui essi si adeguino senza comprenderle più profondamente. Il cristianesimo ha democratizzato la filosofia platonica: tutti sono chiamati ad arrivare alla conoscenza della verità, cioè alla conoscenza di Dio. La fede non è doxa, opinione nel senso che l'Antichità dava a questa parola, ma sapere che poggia sulla rivelazione che Dio ha fatto di sé e che ha una certezza tale da superare il sapere acquisito dall'uomo con i propri mezzi. Infatti nei confronti di noi stessi possiamo e dobbiamo diffidare. Ma nel caso della fede vale il detto dell'Apostolo: "Scio cui credidi". Perciò, a differenza che per Platone, per Agostino il desiderio terreno di sapere fine a sé stesso va condannato come curiositas. Il desiderio di sapere è giustificato soltanto quando il sapere è utile per la vita degli esseri umani oppure come mezzo per la conoscenza di Dio. La conoscenza di Dio è fine a sé stessa in quanto Dio è lui stesso il fine e la conoscenza sfocia nel "frui Deo", nella dedizione amorosa a lui. La conoscenza del finito, invece, quando non sia utile nel senso che si è detto, termina nell'autocompiacimento, nell'"amor sui usque ad contemptum Dei".

Tommaso cerca di conciliare Aristotele e Agostino, non soltanto riconoscendo il desiderio di sapere come costante antropologica, ma vedendo in esso la realizzazione del fatto che l'uomo è immagine di Dio. In questo senso ogni sapere in quanto tale contiene già di per sé un riferimento a Dio in quanto origine della verità. Il vizio della curiositas consiste perciò soltanto nel recidere questo riferimento ovvero nella ricerca di un sapere che pregiudizialmente rifiuti ogni riferimento a questa origine. Ciò che muove il ricercatore è allora soprattutto la superbia, vanità e ambizione, e non l'amore della verità. E' interessante il fatto che in un passo Tommaso definisce la curiositas come una forma di acedia, la pigrizia spirituale. Per perseguire il suo fine ultimo l'uomo deve mettere in gioco le sue energie più profonde. Quando, in conseguenza della "fuga finis",questo non accade, l'uomo si trascina per così dire senza meta tra la massa infinita dello scibile.

Hans Blumenberg, nel suo libro La legittimità dell'età moderna, ha indicato la riabilitazione della curiosità teorica come una caratteristica fondamentale di tale epoca. Questa tesi appare corretta soltanto a patto che teniamo presente che il concetto di scienza si è al tempo stesso profondamente trasformato. Voglio caratterizzare questa trasformazione evidenziandone quattro fattori. 1) Oggetto della scienza non sono più le strutture teleologiche della realtà ma nessi causali regolari. 2) Il sapere non è né sapere pratico né theoria nel senso di contemplazione di ciò che è conosciuto; ciò che è conosciuto teoricamente è il presupposto su cui si basano delle applicazioni pratiche oppure è uno stadio nel progredire infinito della ricerca. 3) Il sapere scientifico non è affatto sapere nel senso classico della parola ma ipotesi, opinione più o meno ben fondata, sempre falsificabile in linea di principio, giacché poggia non sull'intuizione di essenze, ma sul tentativo di ordinare da un punto di vista teorico i dati empirici. 4) La scienza non è il sapere di uomini concreti ma un'impresa collettiva che offre informazioni che a seconda delle necessità possono essere acquisite parzialmente da uomini concreti al fine di ulteriori ricerche o di applicazioni pratiche.

1) L'ontologia classica è biomorfa. La realtà è fatta di cose con le loro proprietà e relazioni. Il caso paradigmatico di che cosa sia una cosa è il vivente. Il caso paradigmatico dell'essere nel senso dell'esistenza è il vivere. "Vivere viventibus est esse", si legge in Aristotele. Però che cosa sia un essere vivente e che cosa sia vivere, noi lo sappiamo innanzi tutto perché conosciamo noi stessi. Il caso paradigmatico del vivente è l'uomo e così questa ontologia in ultima analisi è antropomorfa. "Essere" non significa innanzi tutto essere oggetto, ma essere in sé. Ma è proprio del vivente l'"essere in cerca di qualcosa". Fintanto che viviamo, ci interessa qualcosa, foss'anche soltanto la sopravvivenza. Conoscere il vivente significa perciò conoscerne la struttura teleologica. Chi non sa a che cosa serve un polmone e come mai gli uccelli in inverno volino verso sud, non sa nulla dell'organismo dei mammiferi e non sa nulla degli uccelli migratori. La scienza moderna comincia con un rifiuto programmatico della considerazione teleologica della realtà. Questa, come scrive Francis Bacon, "sterilis est, et tanquam virgo Deo consecrata nihil parit", è sterile e non genera nulla come una vergine consacrata a Dio. L'Illuminismo ha poi realmente cacciato dai monasteri tutte le vergini consacrate a Dio a meno che non facessero qualcosa di utile come fare scuola ai bambini o curare i malati. Ma vediamo già in queste parole di Bacon il nuovo ideale di scienza: la scienza deve essere utile. Il sapere deve avere una utilità pratica oppure deve essere tale da generare nuovo sapere. Il sapere teleologico suscita il sospetto di essere un "asylum ignorantiae", una scusa per la "ignava ratio", la ragion pigra. Che i polmoni siano necessari per l'assunzione di ossigeno è una constatazione di per sé priva di interesse. Al massimo può avere un qualche valore euristico per un programma di ricerca che indaghi i processi microbiologici attraverso i quali i polmoni si formano e funzionano. Lo stesso vale per le migrazioni degli uccelli. La conoscenza di nessi causali regolari, però, a differenza della considerazione teleologica, porta all'apeiron, va all'infinito. E' interminabile. Per questo non può offrire alcun orientamento per l'azione, ma soltanto renderla più efficiente.

2) Per questo motivo la scienza moderna non è contemplazione ma ricerca. In quanto tale, però, essa non è come la theoria dell'Antichità, forma suprema della prassi, ma è al servizio di una prassi che mira alla progressiva sottomissione della natura. Il sapere teleologico è privo di ogni utilità ai fini del dominio della natura, anzi è piuttosto un ostacolo. Si possono condurre esperimenti sugli animali con meno remore se si ignora che gli animali soffrono. Il sapere causale ci insegna però come noi possiamo intervenire sulla natura. E questo sapere viene acquisito di solito soltanto attraverso tali interventi, cioè attraverso degli esperimenti. Conoscere una cosa ora non significa più comprenderla per così dire dall'interno, ma, come scrive Thomas Hobbes, "to know what we can do with it when we have it". Aristotele credeva -- e questo è quello che io intendo sottolineare parlando di "ontologia biomorfa" -- di poter comprendere perché le pietre cadono verso il basso. La scienza moderna si limita a constatare quali connessioni regolari vi siano dietro la caduta delle pietre, ma rinuncia a intendere il vivente in modo biomorfo e l'uomo in modo antropomorfo. La considerazione antropomorfa dell'uomo viene lasciata all'ermeneutica delle scienze umane, la considerazione biomorfa del vivente non ha più luogo. La vita non viene più compresa a partire dal vissuto umano, ma come un caso particolare di processo fisico, perché soltanto in processi fisici così intesi noi possiamo intervenire. Per questo, soltanto questa forma di sapere è utile.

Possiamo chiarire questo passaggio da una scienza "comprendente" a una scienza "calcolante" considerando un esempio che consentì già a Leibniz di vedere chiaramente come stiano le cose. E' l'esempio del movimento. Nella tradizione classica il movimento in quanto continuo si sottraeva alla trattazione matematica. Appunto per questa ragione la fisica non poteva essere matematizzata, a differenza dell'ottica, nel cui caso si fa astrazione dal movimento e che può essere trattata in modo puramente geometrico. La fisica matematizzata moderna divenne possibile soltanto grazie al calcolo differenziale e integrale che fu inventato contemporaneamente da Leibniz e da Newton. Questo permette di scomporre il movimento in stati stazionari con intervalli sempre più piccoli la cui sequenza è ora calcolabile. Il prezzo da pagare per la calcolabilità, tuttavia, è la scomparsa del movimento in quanto movimento ovvero in quanto continuo. A differenza di tanti scienziati moderni, Leibniz questo lo ha visto chiaramente e ha perciò introdotto il concetto di conatus che prende il posto del concetto aristotelico di dynamis e cerca di comprendere il movimento per così dire dall'interno. Tale comprensione non può fare a meno dell'idea di anticipazione. Il corpo in movimento nell'istante t1 si differenzia dal corpo immobile nello stesso istante per il fatto che il suo trovarsi in un altro luogo nell'istante t2 è già contenuto nella definizione del suo stato presente. Questo suona come un paradosso. Ma questa affermazione ha un fondamento nell'esperienza e più precisamente nell'esperienza che noi abbiamo delle nostre azioni. Si può definire un'azione soltanto caratterizzandone l'inizio attraverso il fine a cui si tende. Ogni definizione del movimento in quanto movimento contiene perciò un antropomorfismo occulto. Chi vuole evitarlo deve negare che vi sia una realtà quale quella del movimento e definire il movimento come ciò che il calcolo infinitesimale rende calcolabile: una successione di stati stazionari con una distanza minima l'uno dall'altro.

Avendo compreso questo, Leibniz concepì due forme di scienza della natura che potremmo chiamare una "fisica dall'esterno" e una "fisica dall'interno", cioè una filosofia della natura che non tratta della realtà sotto l'aspetto della sua oggettivabilità, ma tratta della realtà in quanto tale. Questo può voler dire soltanto che ne tratta dal punto di vista della sua somiglianza con noi. Questa scienza non è antropocentrica come la scienza moderna, ma è antropomorfa.

Né antropocentriche né antropomorfe sono soltanto due forme di sapere che per questo motivo secondo Platone devono essere strettamente legate tra loro: la matematica pura e la metafisica. La matematica tuttavia ha trovato nella conoscenza della natura un campo di applicazione che ha del prodigioso. Per la metafisica, invece, lo spazio si è ristretto. L'opera metafisica più significativa del ventesimo secolo è quella di un matematico, Alfred North Whitehead. E' un'opera rimasta solitaria. Dov'è nello scientismo moderno il posto per speculazioni metafisiche rigorose e degne di rispetto? Descartes si è espresso con chiarezza a tale proposito. Lo scopo della scienza è la sua applicazione finalizzata alla crescita della felicità umana. I campi di applicazione sono la meccanica, la medicina e la psicologia. Sono questi i frutti dell'albero del sapere. Il tronco dell'albero è la fisica. La radice è la metafisica. E' un cambiamento significativo. La metafisica classica vedeva sé stessa come il vertice degli sforzi teoretici dell'uomo. La theoria, scrive Aristotele, in realtà è qualcosa di più divino che umano. Per i dottori cristiani essa era un anticipo della visio beatifica. Per Descartes invece la metafisica è il mezzo con cui raggiungere in sé stessi la certezza e la stabilità che occorre avere nel momento in cui si intraprende l'avventura della scienza. Senza idee ontologiche a fare da fondamento tutto quello che facciamo resta campato per aria. Ma queste questioni non sono tali da occuparci per tutta la vita. Bisogna sbrigare questa faccenda una volta per tutte e eventualmente richiamare alla mente per poche ore ogni anno quello che abbiamo così compreso per dedicarsi nel tempo che resta alla "vita", di cui fa parte, per chi ne è ha la capacità, la scienza. Praticare la scienza diventa però per Descartes un dovere morale. Infatti ci possiamo permettere il dubbio metodico soltanto se con la scienza cerchiamo poi di rimuovere sistematicamente ogni dubbio e ci adoperiamo per promuovere la felicità dell'umanità.

3) Su questo punto tuttavia il cammino della scienza europea si è allontanato da Descartes. L'ideale di Descartes era di sostituire con la certezza il sapere soltanto probabile e plausibile. La scienza doveva progredire di certezza in certezza fino a divenire un sistema deduttivo completo. In realtà la scienza europea ha fatto sua piuttosto la concezione degli empiristi. Ha rinunciato alla fondazione metafisica. Ha rinunciato all'ideale della certezza e ha rinunciato all'idea di compiutezza. Non conosce alcun sapere assoluto e perciò definitivo, ma soltanto ipotesi che vengono fondate sempre meglio e meritano una fiducia crescente a mano a mano che falliscono i tentativi fatti di falsificarle, sebbene non siano mai definitivamente sottratte al rischio di essere ridimensionate o rivoluzionate.

4) La rinuncia al sapere nel senso di certezza è una conseguenza necessaria del fatto che la scienza diventa una impresa collettiva in cui vale il principio della divisione del lavoro. Sapere o essere certi possono esserlo soltanto uomini concreti. Sapere è una condizione della ragione. Ma la ragione esiste soltanto come ragione individuale. Heidegger ha scritto: "La scienza non pensa". Si potrebbe anche dire: "La scienza non sa". La scienza, infatti, è un'astrazione ricavata dall'attività di tanti uomini diversi. Questi uomini possono arrivare a mettersi d'accordo in gran numero. Ma quello su cui sono d'accordo può anche essere un errore. Il consenso fonda una presunzione di verità. Ma l'atto per cui dal consenso deriva la certezza di una verità può essere soltanto un atto individuale. (J. H. Newman ha affrontato la questione del passaggio dalla probabilità oggettiva alla certezza soggettiva nella sua Grammar of Assent.)

Si trovano qui peraltro le radici di un conflitto sempre latente nella scienza. Quello che dal punto di vista scientifico è a rigore una ipotesi falsificabile può diventare una certezza per il singolo scienziato. In questo caso lo scienziato difenderà questa ipotesi con una parzialità che contraddice l'ideale scientifico di Popper. E dai lavori di Kuhn e Lakatos abbiamo pure appreso che il processo secondo cui la scienza si sviluppa, in particolare il processo di sostituzione dei paradigmi non si svolge secondo l'ideale popperiano ma piuttosto in modo darwiniano. Le ipotesi di solito non vengono semplicemente confutate. Grazie al ricorso a ipotesi supplementari esse vengono puntellate da parte di coloro che le hanno care e rimangono così al sicuro finché non arriva una nuova generazione che ha nuove idee e per la quale, considerata l'efficacia del vecchio paradigma, non vale più la pena difenderlo.

I paradigmi hanno del resto uno status diverso dalle teorie. Essi rappresentano un quadro teoretico normativo all'interno del quale devono muoversi le teorie che aspirino a essere prese seriamente in considerazione. Così la teoria dell'evoluzione ha oggi lo status di un paradigma. Lacune empiriche, obiezioni teoriche da parte della biochimica ecc. non portano a ripensare il paradigma e a sviluppare possibili alternative. Si dà per scontato in linea di principio che alle questioni aperte si troverà un giorno una risposta nel quadro di questo paradigma. La maggiore forza del paradigma sta nel fatto che dietro alle obiezioni che vengono sollevate non stanno teorie alternative che potrebbero rivendicare una analoga capacità esplicativa. La storia della scienza mostra però che le teorie che sono arrivate ad assumere lo status di paradigmi possono essere costrette alla resa soltanto da teorie alternative che possano vantare una capacità esplicativa dello stesso livello o più elevata e non da un "ignoramus". Gli argomenti contro la pretesa da parte della teoria dell'evoluzione di spiegare l'origine della vita e l'emergere della coscienza non hanno da offrire nessuna alternativa sullo stesso piano ma soltanto un "ignoramus". Per questo hanno scarse possibilità di successo. Nel caso della psicoanalisi di Freud le cose stanno diversamente. Certamente essa dispone di una strategia perfetta per immunizzarsi contro le obiezioni teoriche. Tuttavia essa è risultata impotente di fronte ai risultati di ricerche statistiche empiriche sul suo successo dal punto di vista terapeutico. Poiché i casi di guarigione di pazienti trattati con la psicoanalisi non sono più frequenti dei casi di guarigione spontanea, la psicoanalisi appare squalificata come terapia, quale che sia il parziale valore conoscitivo che resta ancora associato al suo studio.

Il caso Galilei è una bella esemplificazione di quanto detto. L'Inquisizione dimostrò di aver compreso il principio della scienza moderna meglio di Galilei quando gli chiese di qualificare la sua teoria come ipotesi. Qualsiasi astronomo moderno accetterebbe immediatamente di farlo, limitandosi ad affermare che le formule che si ricavano quando si faccia girare la terra intorno al sole sono molto più semplici e più "belle" di quelle che si ricavano nel caso contrario. Ammettere che il sole giri intorno alla terra comporta il ricorso a una quantità tale di costruzioni teoriche che ne vale la pena soltanto se è in gioco la verità della Rivelazione. Che questa non fosse in gioco i cardinali lo ritenevano possibile. Ma per considerare come davvero realizzata questa possibilità occorreva rivedere una serie di convinzioni condivise fino a quel momento. Si sarebbe voluto prendere in considerazione la possibilità di farlo soltanto se le idee di Galilei si fossero imposte con una necessità assoluta. Partita patta, insomma. Galilei vinse perché di fronte all'enorme valore esplicativo della sua teoria venne meno l'interesse a continuare a sostenere la teoria opposta accettando l'ipotesi estremamente artificiosa degli epicicli.

La "nuova scienza" è diventata nel fattempo lo strumento più importante del dominio dell'uomo sulla natura. Ha facilitato il lavoro umano, migliorato la salute, prolungato la vita terrena, reso più comoda la vita e aumentato a dismisura la produzione di beni materiali. A causa del suo carattere non teleologico essa deve tuttavia rinunciare a offrire all'uomo un orientamento per il suo agire. Il sapere che essa mette a disposizione dà potere, non sapienza. E' chiaro perciò che accanto a questa scienza che permette di scoprire e di ordinare sistematicamente fatti e connessioni regolari tra fatti si afferma un'altra forma di ricerca scientifica che si occupa di quei fatti che senza una comprensione "dall'interno", senza comprensione del loro significato, non possono neppure essere percepiti ovvero i discorsi e le azioni degli uomini. In tedesco si parla di Geisteswissenschaften, in inglese di human o moral sciences, in francese di sciences sociales. La descrizione fisicalistica di una azione umana non la renderebbe neppure identificabile come azione e avrebbe piuttosto un effetto comico. Pascal parlò a questo proposito di "esprit de finesse" contrapponendolo all'"esprit de géométrie". Oggi parliamo di "ermeneutica", laddove tuttavia si dovrebbe parlare anche di una "ermeneutica della natura". La nozione di "informazione" sembra presentarsi oggi come un ponte tra human science e biologia.

Non voglio adesso approfondire questa questione. La questione che desidero affrontare è quella delle implicazioni morali dell'idea moderna di scienza.

Innanzi tutto è chiaro che una scienza non teleologica non può sicuramente essere quella guida nella vita che essa doveva essere stando ai proclami del Positivismo di un tempo. Ma ancora oggi gli scienziati vengono continuamente consultati pubblicamente in merito a questioni di carattere etico o politico. A questo proposito bisogna capire che la scienza moderna non è ipotetica soltanto nel senso che le sue risposte sono provvisorie e falsificabili, ma anche nel senso che nel migliore dei casi può essa dirci come raggiungere un obiettivo che noi vogliamo raggiungere e quali costi questo comporta. Quando la scienza ci voglia insegnare quale obiettivo noi dobbiamo perseguire e quale prezzo dobbiamo pagare per il suo conseguimento, la prudenza è d'obbligo. Pensiamo soltanto a quanti consigli ha già dato la pedagogia scientifica soltanto per poi constatare di essersi sbagliata. Emerge qui un problema di fondo che ha a che fare con il detto "ars longa, vita brevis". La scienza non "sa" perché non è una persona individuale. La scienza è un'impresa collettiva non limitata nel tempo. Per lei gli errori non sono qualcosa di negativo. Al contrario, essa può imparare dagli errori più che da verità ovvie. Il suo cammino significa "trial and error". Le cose stanno però in tutt'altro modo per le persone reali, finite e mortali, che subiscono le conseguenze di questi errori. Mi ricordo l'esclamazione di una infermiera di fronte al fatto che mi era stata diagnosticata una psittacosi: "Il dottore sarà contento di poter finalmente vedere una psittacosi!". Io non ero altrettanto contento. Una diagnosi sbagliata per la scienza non è una disgrazia, ma lo è per il paziente e per il medico ovvero per il medico in quanto medico, non in quanto ricercatore in campo medico. Gli interessi della scienza medica, infatti, non coincidono con quelli della pratica medica che si regola sui bisogni del paziente. La consapevolezza di questa discrepanza fa parte naturalmente dell'ethos del medico.

II

E' importante rendersi bene conto che la scienza non ha un ethos e non può avercelo. Solo il singolo scienziato o una comunità concreta di scienziati costituita di persone singole può essere morale. E questo ethos dello scienziato si mostra sia nel servizio leale alla scienza sia nei limiti che sono posti a questo servizio. Questi limiti non sono i limiti del desiderio di sapere. La brama di sapere sembra essere una forza primitiva che cerca di sfondare tutti i limiti contro i quali si scontra. Non ci si deve fare un'idea troppo elevata di questa forza. Di per sé essa è moralmente indifferente. Il dominio della natura fa parte dell'affermazione di sé da parte dell'uomo. Ma i cristiani sanno bene che il potere dell'uomo dopo il peccato originale è ambivalente. La scienza moderna però dà potere. Il suo intreccio con la tecnica è sempre più inestricabile. Lo stato della tecnica prescrive in buona parte alla scienza le prospettive della sua ricerca e spesso la verifica di una teoria scientifica consiste in un grande evento come l'esplosione di una bomba atomica. La prima reazione alla bomba di Hiroshima da parte dei fisici nucleari tedeschi, come racconta Carl Friedrich von Weizsäcker, fu di stupore e di ammirazione: "Ma allora è possibile!".



Quando oggi si chiede la disponibilità di embrioni a fini di ricerca, questo avviene perché altrimenti certe conoscenze non potrebbero essere acquisite. "La scienza" non può rinunciare a tali conoscenze, perché non può rinunciare a alcunché. Ma l'uomo che pratica la scienza può e deve rinunciarvi.

Vi sono tuttavia conoscenze la cui acquisizione è come tale immorale. Non si tratta in questo caso di conoscenze scientifiche teoriche ma tecnico-pratiche ovvero quelle conoscenze che chiamiamo know how. I fondamenti teorici della produzione di armi di distruzione di massa di per sé sono moralmente indifferenti. Ma l'"arte" di produrre tali armi non è un oggetto di conoscenza che sia lecito a qualcuno studiare. Tuttavia anche qui vi è una eccezione. Una volta che tale sapere già esista, può essere necessario acquisirlo per sapere come ci si può proteggere da questo nuovo male.

Alle virtù della vita brevis nel rapporto con l'ars longa appartiene anche e soprattutto la consapevolezza di una certa incommensurabilità tra le due. Il presidente francese Pompidou era solito dire che ci si può rovinare in tre modi, con il gioco, con le donne e con i consigli degli esperti. L'esperto scientifico si muove nell'ambito di condizioni ideali. Egli deve necessariamente ridurre la complessità del caso singolo. Le sue informazioni sono importanti per prendere una decisione in un caso concreto, i suoi consigli possono essere sbagliati. L'esperto in quanto scienziato non deve essere infastidito da questo fatto. Egli, infatti, trova la sua soddisfazione nel poter dire a cose fatte perché i suoi consigli erano sbagliati e perché le cose sono andate in tutt'altro modo rispetto a quanto prognosticato. La scienza che osserva e ordina i fatti è incommensurabile con l'unicità di ogni singolo evento.

Finora ho parlato soprattutto dei limiti etici e cognitivi della scienza. L'etica tratta soprattutto dei limiti delle nostre azioni.



In linea di principio non vi sono limiti etici del sapere teorico. Nel racconto biblico del Paradiso terrestre Dio non ordina di rinunciare a una conoscenza ma di rinunciare a un'azione. La trasgressione del comandamento ha però come conseguenza una conoscenza che senza tale esperienza non sarebbe possibile, la conoscenza della differenza di bene e di male. Il sapere scientifico nel senso moderno, come ho cercato di mostrare, è per sua natura senza fine. Non ha limiti immanenti, soltanto gli restano inaccessibili certe dimensioni del reale, come i colori al daltonico o certe qualità musicali a chi non ha orecchio. I limiti etici del sapere con i quali la scienza deve confrontarsi in realtà non sono limiti del sapere, ma limiti dell'agire, che di fatto indirettamente mettono dei limiti anche al desiderio di sapere. Si tratta per un verso dei limiti di ciò che possiamo fare per acquisire il sapere e per un altro verso dei limiti di ciò che possiamo fare per applicare il sapere acquisito. Sempre di più, peraltro, questi due tipi di limiti tendono a confondersi. Oggi come oggi è sempre più la tecnica che decide della possibilità di acquisire ulteriore sapere scientifico, perché questo sapere può essere acquisito solo con il dispiegamento di grandi mezzi tecnici. In medicina, del resto, è sempre stato vero che soltanto l'applicazione di quello che si ritiene essere un sapere verifica o falsifica l'ipotesi. E qui si può immediatamente vedere qualche caso esemplificativo delle limitazioni etiche di cui stiamo parlando. Le limitazioni a cui mi riferisco dipendono dal carattere della persona come fine a sé stessa. Kant ha formulato l'imperativo categorico affermando che non si devono mai usare gli uomini soltanto come mezzi. La parola "soltanto" è importante, perché ovviamente noi ci usiamo continuamente gli uni gli altri come mezzi per raggiungere i nostri fini. E ogni persona su cui vengano condotti degli esperimenti viene strumentalizzata, cioè usata come mezzo per un fine. Ma ciò che è decisivo sono i limiti di questo uso. Essi esigono innanzi tutto che nessuno sia usato senza il suo consenso. Questo implica per esempio che generalmente bambini e handicappati psichici non possano essere usati come cavie in un esperimento se questo comporta un qualche danno per loro. Questo implica naturalmente che la vita e la salute di qualcuno non possono essere sacrificate a vantaggio della vita e della salute di altri, come fecero i medici nazisti che nei lager condussero sui prigioneri esperimenti di congelamento i cui risultati avrebbero dovuto servire ai soldati che combattevano nell'inverno russo. I limiti all'uso delle persone come mezzi vietano anche ogni acquisizione di conoscenze che derivi da esperimenti che comportano la distruzione di embrioni. Ma anche nella prassi sperimentale quotidiana questo problema emerge a proposito della sperimentazione di nuovi farmaci. Talvolta succede che prima che finisca la serie degli esperimenti previsti il medico arrivi a convincersi che il medicinale in questione è effettivamente molto efficace nella cura di una malattia. Nel momento in cui se ne convince deve interrompere la sperimentazione e somministrare a tutti i pazienti quel farmaco, anche al gruppo di controllo che fino a quel momento aveva ricevuto un placebo. "Salus aegroti suprema lex": quello di cui qui si parla è un concreto paziente di un concreto medico, che non può essere sacrificato alla salus di una massa indistinta di futuri pazienti.

A questo punto bisogna anche dire una parola in merito ai cosiddetti comitati etici che da qualche anno spuntano ovunque come funghi. E' il sintomo di una crisi. Mostra che l'ethos professionale dei medici, che è quasi identico a una lex artis, non adempie più la sua funzione di garantire che ci sia una qualche normalità etica liberando chi agisce dal peso della riflessione. Si sono aperte troppe nuove possibilità per affrontare le quali le semplici regole di questo ethos non bastano più. I medici non erano preparati a riflettere sulle loro scelte risalendo ai principi su cui esse si basano e hanno ceduto il compito di condurre questa riflessione ai comitati etici. Ma è una illusione credere che moralisti di professione diano qualche garanzia di decisioni buone e giuste. Al contrario, i più radicali oppositori della tradizione etica europea sono di professione professori di Etica, come per esempio Peter Singer. Fidarsi di loro perché sono professori di Etica sarebbe più o meno come se si volesse lasciare decidere che cosa è giusto a degli avvocati professionisti soltanto perché questi sono capaci di formulare una qualunque decisione in linguaggio giuridico professionistico e di giustificarla con argomenti giuridici.



Il medico oggi, in presenza di problemi complicati, ha bisogno dell'aiuto di gente con una preparazione specifica nel campo della riflessione etica. Ma non deve mai sospendere il proprio giudizio rimettendosi al giudizio di una commissione e tali commissioni devono essere sempre soltanto organi consultivi e mai organi deliberativi. Non affiderei il mio destino a un medico che non sia disposto a ascoltare i consigli di persone competenti. Egli deve prendere le proprie decisioni conoscendo il punto di vista di altre persone competenti. Ma può seguire i loro consigli soltanto se è convinto lui stesso che siano giusti. E sicuramente non avrei fiducia in un medico che in una situazione difficile rinuncia a dare il proprio giudizio rimettendosi al parere di una commissione. Vi sono norme morali obiettive. Ma è morale soltanto una persona che agisce avendo fatto di queste norme obiettive un proprio convincimento.

Del resto anche il discorso scientifico è soggetto a norme morali. Esso deve servire a scoprire la verità. Questo può essere ostacolato da diversi fattori. Uno di questi è l'ambizione personale che, come è noto, ha portato in diversi casi a falsificare i risultati delle ricerche. Ma vi sono anche fattori di disturbo meno evidenti. Uno di questi non può probabilmente essere eliminato: l'interesse del ricercatore a ottenere un determinato risultato. Questo interesse può essere di natura ideologica. Il caso più clamoroso è forse la biologia di Lysenko con la sua teoria dell'ereditarietà dei caratteri acquisiti. Quello che vi stava dietro era l'ideologia stalinista. Ma vi sono esempi di political correctness più vicini a noi. Si veda ad esempio il tentativo di mettere a tacere lo psicologo inglese Eysenk che aveva presentato i risultati di ricerche empiriche sulla relazione tra la razza e certe capacità cognitive. La scienza moderna proprio a causa del suo carattere non teleologico non dà mai giudizi di valore. I suoi risultati consentono reazioni e applicazioni diverse. Se ci viene detto che i giapponesi mediamente hanno un quoziente di intelligenza più alto che gli europei, dobbiamo prenderne atto, posto che questo risultato sia stato ottenuto lege artis. Se poi da questo noi traiamo la conclusione di far immigrare più giapponesi in Europa o al contrario di cercare di limitarne l'immigrazione, questo non viene suggerito in alcun modo dalla constatazione di fatto. Gli interessi hanno spesso un grosso peso nel caso delle scienze umane, soprattutto nella ricerca storica, i cui risultati vengono usati per legittimare o discriminare persone e gruppi. Fa parte perciò dell'ethos del discorso scientifico che l'interesse a ottenere un determinato risultato venga dichiarato apertamente e che per quanto possibile i portatori di tale interesse si astengano dall'intervenire nella discussione riconoscendo di non essere imparziali. Un esempio di questo è la discussione in merito alla cosiddetta morte cerebrale. Vi è un interesse enorme e del resto rispettabile da parte dei medici che praticano i trapianti a ottenere gli organi viventi da trapiantare. Riconoscere il venir meno delle funzioni cerebrali come morte dell'uomo è in linea con questo interesse. Il riconoscimento della morte cerebrale in Germania non si sarebbe mai avuto senza il grande peso dei medici impegnati nel trapianto di organi. Troppi fenomeni suggeriscono il contrario. Anestesisti e infermiere spesso cercano inutilmente di convincersi che è morto un uomo che respira, che distende il braccio, che suda e le cui ghiandole secernono ormoni se gli si fa un taglio nella pelle e che perciò viene sottoposto ad anestesia prima che gli organi siano prelevati. La constatazione della morte era sempre stata una questione che riguardava i parenti che vedevano che il morire era terminato e che il morente era morto. Un medico veniva chiamato per confermare il giudizio dato così prima facie oppure per constatare invece che la persona era ancora viva. Se adesso l'onere della prova viene invertito e in nome della scienza viene dichiarato morto un uomo di cui tutti gli astanti vedono che è vivo, quello che vi sta dietro, come ho detto, è un interesse in sé legittimo della trapiantologia. Ma non è bene che sia così. Questo rende più difficile la ricerca della verità. Gli studi nel neurologo americano Shewmon e di altri scienziati hanno mostrato che l'integrazione delle diverse parti nell'organismo vivo non dipende né soltanto dal cervello né soltanto dal cuore. Quando un ragazzo le cui funzioni cerebrali sono completamente estinte sopravvive ancora per diversi anni e in questo periodo compaiono i cambiamenti puberali, definire questo ragazzo un cadavere è inconciliabile con la sana ragione. Lo stesso vale per la donna ricoverata nella clinica universitaria di Erlangen che secondo il criterio di Harvard era morta ma dopo mesi ha ancora dato alla luce un bambino. E' vero che questi uomini sarebbero morti ben prima se non li si fosse tenuti in vita artificialmente. E non voglio discutere la questione se non sarebbe stato meglio lasciarli morire in pace. Ma, dato che non li si è lasciati morire, non erano appunto morti ma vivi. Pio XII ha dichiarato espressamente che "la vita umana continua fintanto che le sue funzioni vitali -- a differenza della semplice vita degli organi -- si manifestano spontaneamente o anche con l'aiuto di procedimenti artificiali" ("la vie humaine continue aussi longtemps que ses fonctions vitales -- à la difference de la simple vie des organes -- se manifestent spontanément ou même à l'aide de procédés artificiels").

Sarebbe contro l'esperienza comune delle cose umane affermare che è solo un caso se il momento in cui è stata proposta la nuova definizione della morte coincide con il momento in cui si sono aperte nuove possibilità nel trapianto di organi. I medici che praticano i trapianti e vogliano lavorare con la coscienza a posto dovrebbero perciò rifiutarsi di entrare nel processo con cui si forma il giudizio in merito alla morte cerebrale. Proprio perché il loro interesse coincide obiettivamente in modo così immediato con l'amore del prossimo -- che cosa vi può essere di più nobile che donare i propri organi per salvare la vita di un altro? -- esso tende a indebolire pregiudizialmente tutti gli argomenti in contrario.

Vi è ancora un altro interesse che ostacola la scoperta della verità nel processo della ricerca scientifica e che non può essere eliminato, ma può però essere neutralizzato: l'interesse del ricercatore alla conferma della sua teoria. Popper ha espresso l'esigenza che la scienza sostenga soprattutto le teorie improbabili dalla cui falsificazione può imparare di più che da conferme che sono sempre soltanto provvisorie. In realtà il ricercatore ha l'interesse opposto a vedere confermata la propria teoria. Questo non è preoccupante in quanto di solito vi sono altri ricercatori pronti a fare i necessari tentativi di falsificazione. Soltanto là dove la scientific community nel suo insieme è d'accordo su una determinata teoria, diventa difficile e spesso impossibile per il singolo outsider farsi ascoltare e trovare una rivista in cui presentare i suoi argomenti in contrario. L'ethos della ricerca esige che ci si opponga a questo meccanismo.

Da ultimo desidero menzionare in questo contesto il problema della rilevanza. "Ars longa, vita brevis". Ma senza la "vita brevis" l'"ars longa" è soltanto virtuale. Essa è reale soltanto come attività di uomini che sono esseri finiti. La finitezza umana non riguarda soltanto la durata della vita, ma anche la limitatezza materiale delle risorse. In ambito medico questa limitatezza fa sì che la società, nonostante l'incommensurabilità di ogni persona, debba negare a alcune persone una terapia che concede a altre, scegliendo in base a criteri che in qualche modo rendono paragonabile ciò che paragonabile non è. In questa sede non devo affrontare questo problema, ma voglio soltanto menzionarlo. Per la ricerca si presenta un problema analogo. Non possiamo studiare tutto, perché la vita è breve e perché i mezzi sono limitati e la ricerca diventa sempre più costosa. I soldi che vengono spesi nella ricerca non vengono spesi altrove. E i soldi che vengono spesi nella ricerca in una disciplina non vengono spesi in un'altra. Il problema di fissare delle priorità è un problema politico e perciò sempre anche un problema morale, sebbene l'etica lasci qui un ampio spazio di libertà. Verso la fine degli anni Sessanta vi furono accese discussioni sul problema della rilevanza della ricerca. Secondo qualcuno ogni ricerca avrebbe dovuto dimostrare la propria utilità sociale, laddove peraltro i criteri in base ai quali stabilire che cosa fosse utile apparivano pesantemente ideologizzati. Per fortuna questa è acqua passata. Ma naturalmente il problema rimane. Per quanto riguarda la ricerca nell'ambito delle scienze naturali, si tratta in buona parte di un aspetto del problema più ampio del rapporto tra interessi di breve e di lungo periodo. La cosiddetta ricerca di base spesso porta vantaggi soltanto a lungo termine e non è neppure sicuro che li porti. Ma tutti i progressi tecnici e medici degli ultimi secoli si devono a ricerche che quando furono fatte non potevano promettere con sicurezza tali vantaggi e anzi spesso non miravano affatto a risultati di quel tipo. Una politica saggia si distingue per un verso da una politica populistica e per l'altro verso da una politica stalinista per il fatto che cerca di trovare un equilibrio tra gli interessi di coloro che vivono adesso e i probabili interessi delle generazioni future. Il nostro primo dovere nei loro confronti è di non vivere a loro spese, consumandone le risorse e facendo debiti che loro dovranno pagare. Non vi è invece un dovere ugualmente assoluto di fare per loro investimenti smisurati.

Il problema della rilevanza della ricerca, soprattutto in ambito medico, ha anche un altro aspetto ancora più evidente. Vi sono in medicina interrogativi rispondere ai quali ha un'importanza enorme dal punto di vista terapeutico e può essere fatto con un impegno finanziario relativamente modesto. Ma proprio perché le cose sono così semplici tali ricerche non comportano un grande prestigio scientifico. Non ci si può fare un nome lavorando in quel campo. E istituzioni di ricerca non sono disposte a spendere soldi in quelle aree, sebbene in tal modo molti pazienti potrebbero essere aiutati. Ha un valore simbolico il fatto che la prima fecondazione in vitro sia stata eseguita a Calcutta, una città in cui neonati abbandonati muoiono sulla strada. Chi avesse aiutato uno di questi bambini a trovare dei genitori adottivi sarebbe rimasto sconosciuto. Il dottore che in un quartiere elegante lì vicino ha eseguito questo intervento spettacolare è entrato per sempre nella storia della medicina.

Mi pare che Tommaso d'Aquino abbia colto nel segno là dove dice che il movente che corrompe il desiderio di sapere è la superbia, ambizione e vanità. Anche qui è di nuovo chiaro che la moralità e l'immoralità consistono innanzi tutto e soprattutto nelle virtù e nei vizi di persone individuali. Queste virtù e questi vizi hanno conseguenze più o meno vaste per altri uomini e per il mondo. Ma è importante ricordare che la Chiesa non è interessata innanzi tutto alle conseguenze terrene di un'azione, ma alle anime di chi la compie e di chi la subisce. Quello che accade dipende da noi solo in minima parte. Ma noi possiamo evitare di commettere azioni ingiuste.


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