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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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[19] Caplan, o.c.: 387.

[20] Faden R.R., Beauchamp T.L., A History and Theory …: 55.

[21] Ha suscitato frequentemente critiche l’atteggiamento di alcuni bioeticisti americani che, per giustificare la loro rivendicazione del titolo di fondatori della moderna etica medica, tendono ad ignorare i contributi vecchi e nuovi di autori appartenenti ad altri luoghi e tempi. L’irritazione che provano a riguardo alcuni europei è sincera e, secondo me, in parte giustificata. Scriveva Serres alcuni anni or sono in maniera retorica: “le novità sono spesso fatte di cose che abbiamo dimenticato. Importiamo, con grandi spese di traduzione, libri sull’etica fatti di plastica friabile, mentre dimentichiamo che la nostra tradizione europea scolpisce l’etica da due millenni nel granito e nell’oro”. Serres M., Préface, in Testard J.,L’Œuf Transparent, Paris: Flammarion, 1986:11-12.

[22] Soane B., Consent and Practice in the Catholic Tradition, in Dunstan G.R., Seller M.J., Consent in Medicine. Convergence and Divergence in Tradition, London: King Edward’s Hospital Fund, 1983:37-44.

[23] È sorprendente verificare come né in Francia né in altri Paesi siano stati studiati gli autori di libri sull’etica e sulla deontologia medica esistenti in Francia nel XIX secolo. Non si trova alcuna citazione negli articoli e nei libri dedicati alla storia dell’erbm in Francia ai contributi di Surbled e di Simon, i due autori considerati più avanti. Si vedano, ad esempio, Ambroselli, C. L’Éthique Médicale, 2nd ed, Paris: Presses Universitaires de France, 1988. Fagot-Largeault A., L’Homme Bio-éthique. Pour une Déontologie de la Recherche sur le Vivant, Paris: Maloine, 1985. Hoerni, B. L’Autonomie en Médecine. Nouvelles Relations entre les Personnes Malades et les Personnes Soignantes.Paris: Payot, 1991. Moulin, A.-M., Medical Science and Ethics before 1947, in TröhlerU., Reiter-Theil, S., Herych, E. eds. Ethics Codes in Medicine. Foundations and Achievements of Codification since 1947. Aldershot: Ashgate, 1998. Moulin, A.-M., Medical Ethics in France, Theoret Med1989,9:271-285.

[24] Questa proclamazione dei diritti umani del paziente nella situazione specifica di soggetto di un esperimento è tratta dall’edizione del 1905 di Surbled G., La Morale dans ses Rapports Avec la Médecine et l’ Hygiène, Paris: V. Retaux et fils, 1905, Vol. 3 : 216-217. Non è stato possibile oggi recuperare le edizioni precedenti del lavoro, in particolare la prima, del 1891. le parole di Surbled riportate precedono di almeno un decennio quelle così frequentemente citate di B. Cardozo, che comprende la famosa frase: “Ogni essere umano adulto e mentalmente capace ha il diritto di determinare che cosa deve essere fatto con il suo corpo; un chirurgo che esegue un’operazione senza il consenso del paziente commette un atto di violenza per il quale è imputabile di risarcimento dei danni”. Schloendorf v. Society of New York Hospitals (1914), as appears in Katz J., ed., Experimentation…:526.

[25] Faden R. R., Beauchamp T. L., O. c. : 241-262.

[26] Il consiglio di Witts al ricercatore è pieno di arguzia e di fede religiosa: “[…] non ci sono formule standard che il medico coinvolto in uno studio clinico posa usare per dirigere le sue azioni. Egli deve piuttosto avere una coscienza sveglia e accorta, e deve essere preparato a giustificare ogni sua azione davanti al Creatore. Dovrebbe inoltre essere pronto a difenderle, prima, nei tribunali”. Witts L.J., The Ethics of Controlled ClinicalTrials, in Hill A.B., ed., Controlled Clinical Trials, Oxford: Blackwell Scientific Publications, 1960:13.

[27] Sulla visione cristiana del dominio dell’uomo sulla sua vita e sul suo corpo, da una prospettiva personalista, si veda Sgreccia E., Manuale di Bioetica. I. Fondamenti ed Etica Biomedica, 2ª ed, Roma: Vita e Pensiero, 1994:153-199. Di grande interesse sono anche le idee sul personalismo pruidenziale in Ashley B.M., O’Rourke K.D., Health Care Ethics. A Theological Analysis, 4th ed., Washington, D.C.: GeorgetownUniversity Press, 1997:166-169.

[28] Sul profondo valore umano e cristiano dell’atteggiamento di intelligente e fedele accettazione della volontà di Dio, così come viene manifestata dalla rivelazione divina e specificata dal magistero della Chiesa, si veda Smith J.E., The Introduction to the Vatican Instruction, in McCarthy D.G., ed., Reproductive Technologies, Marriage and the Church, Braintree, Mass: The Pope John Center, 1988:13-28.

[29] Payen G., Deontología médica según el Derecho Natural, Deberes de Estado y Derechos Profesionales, Barcelona: Sucesores de Juan Gili, 1944:164-183.

[30] Bon H., Précis de Médecine Catholique, Paris: Félix Alcan, 1936.

[31] Simon M., Déontologie Médicale ou des Devoirs et des Droits des Médecins dans l’Etat Actuel de la Civilisation, Paris: J.B. Baillière, 1845:335.

[32] Simon M., O. c., 337.

[33] Simon M., O. c., 334.

[34] Il discorso sui limiti etici della sperimentazione umana e degli interventi medici, tenuto al primo convegno internazionale di istopatologia del sistema nervoso il 14 settembre 1952, fu pubblicato negli Acta Apostolicae Sedis (AAS 1952, 44:779; 789). Fu anche riportato e commentato da molte riviste mediche. Una traduzione inglese si può trovare in Linacee Quart. 1952;19:98-107, e pure, in versione quasi completa, in Ladimer I., Newman RW., O. c.: 276-286. Some select fragments appear in Katz J. Experimentation with Human Beings: 731-733 y 549-551. Il discorso è stato dettagliatamente recensito da Beecher H.K., O. c.: 189-200. Commenti più o meno estesi sono inseriti in President’s Advisory Committee, Final Report, The Human Radiation Experiments, New York: Oxford University Press, 1996: 88; Ford J., Human Experimentation in Medicine: Moral Aspects. Clin Pharmacol Therap 1960;1:396-400; Jonsen A.R., O. c.: 149; O’Donnell T.J., Medicine and Christian Morality, New York: Alba House, 1976:91-93. and in: Vallery-Radot, j., Lenègre, J., Milliez, P., Étude des conditions Morales d’Exploration Clinique en Médecine. I Congrès International de Moral Médicale, Vol. 1, Rapports. Paris: Ordre National des Médecins, 1955: 123.

[35] Giuseppe B.M., De Senarclens, J., Groen J. J., Human Experimentation. A World Problem from the Standpoint of Spiritual Leaders. World Med J 1960; 7:80-83, 96. The three contributions are reproduced in LadimerI., Newman R.W., O. c. : 267-270.

[36] Schaupp W., Der etische Gehalt der Helsinki Deklaration. Eine historisch-systematische Untersuchung der Richtlinien des Weltärztebunds über biomedizinische Forschung am Menschen.Frankfurt am Main: Peter Lang, 1993:243-245.

[37] Jonas H., Philosophical Reflections on Experimenting with Human Subjects, en Shannon T.A., ed., Bioethics, 3rd ed, Mahwah, New Jersey: Paulist Press, 1987:253-279. Di particolare interesse per questo nesso sono le sezioniche esaminano la polarità individuo-società, cioè fra benessere privato e benessere pubblico, da un lato, e, dall’altro, la suggestiva analisi delle contrastanti componenti di sacrificio e di contreatto sociale insiti nella sperimentazione umana.

ADRIANO PESSINA
La relazione tra la ricerca biomedica, l'antropologia e l'etica filosofiche. 
Appunti per una riflessione metodologica


Premessa

L'interdisciplinarità è diventata oggi un'esigenza diffusa: essa esprime una richiesta di unità di fronte all’ eccessiva frammentazione e parcellizzazione dei saperi, resi possibili dalla progressiva suddivisione del lavoro, delle competenze, delle aree di studio. Si tratta, per certi aspetti, di un movimento inverso rispetto a quello innestato nell’epoca moderna con la nascita delle scienze sperimentali, quando il problema era proprio quello di salvaguardare l’autonomia delle singole discipline.

Nell’ambito della biomedicina, questa necessità di stabilire una prospettiva unitaria (anche se non univoca) è riconducibile alla nascita stessa della bioetica. Sebbene di interdisciplinarità si parli spesso, occorre però riconoscere che non è sempre facile comprendere in che cosa consista realmente, quali siano le premesse teoriche che la rendano possibile, quale tipo di interazione si intende promuovere.

Ci sembra, infatti, che si possa parlare di interdisciplinarità in diversi modi, o a diversi livelli. Da una partel'interdisciplinarità può essere pensata come mezzo per una determinata finalitàpratica o conoscitiva, che non può essere perseguita attraverso un solo approccio disciplinare. Per esempio, questo avviene nella prassi medica quando la formulazione di una diagnosi è il risultato di differenti dati conoscitivi, ottenuti con strumenti conoscitivi differenti. Spesso l'interdisciplinarità è, quindi, più "vissuta", "praticata" che adeguatamente teorizzata (e questo fatto è facilmente documentabile nella biomedicina, dove si intrecciano conoscenze e metodologie che si radicano in discipline che hanno anche una loro autonomia, come, a titolo di esempio, la chimica, la matematica, la biologia, la statistica, la fisica e via dicendo).

L'interdisciplinarità può essere intesa anche soltanto come interazione comunicativa, che permetta di integrare diverse informazioni per meglio definire l’oggetto di cui si parla. Facendo un esempio banale, il paziente di cui si occupa il medico è anche l'uomo di cui parla la filosofia ed è anche il contribuente di cui si interessa l’economia o il padre di famigliala cui funzione è oggetto di studio della sociologia, ma è inoltre il depresso in cura dallo psicanalista e, soprattutto è Carlo, cioè un individuo unico ed irripetibile, che nessuna scienza può mai esprimere adeguatamente. Il convergere delle definizioni per meglio denotare ciò di cui si sta parlandopermette una visione olistica che può essere utile anche all'esercizio della singola disciplina.

Ma l’esigenza maggiore, quando si parla di interdisciplinarità, è quella di trovare una prospettiva unificante in grado di coordinare le varie attività umane, comprese quelle conoscitive, in vista di finalità moralmente buone. In questo caso, l’ interdisciplinarità risulta necessaria perché fornisce alla morale le conoscenze necessarie alla determinazione della valutazione. Per usare un linguaggio classico, potremmo dire che l’interdisciplinarità è necessaria per formulare la premessa minore di un eventuale sillogismo pratico.

Tutti questi aspetti non possono essere trascurati quando ci chiediamo a che proposito si può parlare della bioetica come disciplina interdisciplinare.

Ma prima di entrare in merito a questo tema, è necessario accennare brevemente all'origine della scienza moderna per comprendere alcuni problemi, ereditati dal passato, che rendono arduo soddisfare l' esigenza di interdisciplinarità.

 
Autonomia ed eteronomia

Come è noto, la nascita delle scienze sperimentali, e la progressiva determinazione delle identità metodologiche che le caratterizzano, avviene attraverso processi storici complessi, articolati[1], che non si prestano a facili sintesi né a schemi di comodo.

Le interpretazioni che tendono a polarizzare questa storia sulla base delle polemiche e delle dispute che contrapposero, per lungo tempo, umanisti e scienziati[2], rischiano certamente di essere riduttive, ma possono servire almeno ad illuminare alcune "categorie" che rendono difficile "pensare" oggi in termini corretti all'interdisciplinarità, specie laddove è in gioco la questione "morale".

Il riferimento all’etica sembra, infatti, minare alcune nozioni meta-scientifiche che hanno accompagnato la nascita delle scienze, e in particolare le tesi riguardanti l'autonomia, la libertà di ricerca e la neutralità assiologica proprie di ogni scienza.

Il timore di una indebita ingerenza della morale all’interno della stessa pratica multidisciplinare ha delle motivazioni teoriche e delle radici storiche.

Dal punto di vista storico, possiamo ricordare che le scienze si sono progressivamente costituite proprio attraverso un processo di "emancipazione" dalla teologia e dalla filosofia, dai loro contenuti e dai loro metodi e che, in tempi recenti, esse hanno dovuto "liberarsi" dalle ideologie politiche ed economiche.

Dal punto di vista teorico, l'interdisciplinarità sembra mettere alla prova proprio le nozioni cardine sulle quali si radica la scienza come tale, dalla teologia (che i medioevali chiamavano scienza sacra), alla filosofia, dalle cosiddette scienze esatte a quelle sperimentali (discipline che i medioevali accorpavano nelle scienze profane).

Può essere interessante ricordare che già Tommaso d'Aquino stabiliva con chiarezza la distinzione tra le varie forme del sapere, basata sull'autonomia dei loro procedimenti specifici e sulla fiducia nell'uso del "lume naturale":

"La dottrina sacra è scienza; ma occorre sapere che vi è una duplice classe di scienze. Alcune infatti procedono da principi noti col lume naturale dell'intelletto, come l'artimetica, la geometria e simili: altre invece procedono da principi noti col lume di una conoscenza superiore. In quest'ultima maniera la sacra dottrina è scienza, perché procede da principi noti col lume di una conoscenza superiore, la quale è la conoscenza di Dio e dei beati. Onde, come la musica crede ai principi che le offre l'aritmetico, così la sacra dottrina crede ai principi rivelati da Dio".[3]

Questa citazione ci ricorda che per Tommaso l'intelletto può correttamente operare in base ai principi che può apprendere da solo e che la dottrina sacra non si sostituisce alla scienza profana nel suo campo, né serve per far funzionare correttamente l'intelletto, ma per fornire quella visione superiore che è necessaria all'uomo per ben condurre la sua vita e realizzare adeguatamente il fine per cui è stato creato.

Questo passo ci fa comprendere come la scienza (e per Tommaso era allora in questione soprattutto l'autonomia della filosofia) non è subordinata in quanto scienza ad altre forme di sapere, neppure alla dottrina sacra, che pure è giudicata indispensabile per avere una visione adeguata della finalità dell'uomo.

Possiamo trarre un'indicazione da queste osservazioni: l'interdisciplinarità, se non è pura giustapposizione di saperi, necessita di una chiarificazione del significato specifico di "scienza" e di "autonomia". Già in Tommaso emerge un uso analogo del concetto di scienza, che rimanda all'idea, oggi spesso trascurata o negata, del significato analogo del termine "ragione" umana.[4]

Se rileggiamo la lunga e travagliata storia del rapporto tra le scienze nascenti, il loro legame con la tecnica, e i loro rapporti, spesso problematici, con la filosofia e con la teologia dell’epoca moderna, possiamo comprendere il "timore" (oggi spesso evocato) di far cadere la ricerca scientifica in una sorta di "eteronomia" disciplinare. Questo "timore" esprime anche l’esigenza di salvaguardare un "valore": si tratta, infatti, del timore che le scienze, qualora perdano la loro autonomia, tradiscano la loro vocazione specifica, sebbene circoscritta, alla "verità", che passa attraverso la ricerca delle "cause" dei fenomeni che studiano.

Il riferimento al "vero" è, in fondo, ma su questo torneremo, il terreno di incontro e di scontro tra le diverse forme del conoscere, sia perché spesse volte si dimentica che anche la nozione di verità è analoga e non univoca, sia perché le vie per determinare la verità intorno allo specifico oggetto di indagine sono diversificate proprio dai principi di riferimento e dagli scopi ultimi che si prefiggono le varie scienze.

Per stabilire quale debba essere la relazione tra la biomedicina, l’antropologia e l’etica filosofiche occorre però tenere conto che la stessa medicina tende oggi a pensarsi in termini di "scienza naturale" e, quindi, a rendere problematica quella connessione con l'etica che per lungo tempo era data come evidente. A ciò si deve aggiungere un’altra considerazione. Mentre risulta facile parlare di una biomedicina, oggi sembra impossibile parlare di una antropologia e di una etica filosofiche. Dallo stesso versante della filosofia, infatti, è teorizzata l’idea che sia impossibile non soltanto di fatto, ma in linea di principio, affermarne una unitarietà di metodo e di contenuto a proposito dell’etica e dell’antropologia. La frantumazione della filosofia in "filosofie",resa evidente sia dall'ormai consueto discorso sul pluralismo etico (nell'accezione dell'incommensurabilità delle etiche), sia dal dibattito intorno alla nozione di "persona", contribuisce a complicare l’attuazione dell’interdisciplinarità.

 

Scienza medica e arte medica

In ciò che noi chiamiamo "medicina" possiamo distinguere diversi livelli: da una parte c'è l'insieme delle conoscenze scientifiche che, acquisite attraverso differenti strumenti e con l'apporto di discipline specialistiche (dalla biologia alla statistica) costituiscono ciò che si chiama la "scienza medica"; dall'altra esiste la prassi medica che, nell'epoca contemporanea, ha esteso le proprie finalità al di là dello scopo terapeutico, includendo prassi di stampo diagnostico e preventivo, nonché attività sperimentali che si situano tra il piano terapeutico e quello della ricerca scientifica. Questi due "macrolivelli" possono essere distinti in ordine alla differente finalità che di per sé perseguono: la medicina come "scienza" ha come scopo primario la conoscenza, mentre la medicina come "arte" o professione medica ha come scopo primario la cura, la guarigione o il "prendersi cura" della persona, in quanto "paziente" reale o in quanto "paziente" possibile[5]. Esula dallo scopo di questa riflessione articolare ulteriormente questa distinzione, che peraltro contiene già in sé alcuni elementi che possono farci comprendere quanto sia complessa una riflessione sulla medicina nella sua veste contemporanea.

Non tutti, però, sono disposti a riconoscere questa distinzione di piani. H. Jonas, per esempio, scrive: "Alla scienza medica, come scienza generale del corpo sia malato che sano, non si adatta quindi -già il nome lo dice- ciò che altrimenti è valido per la scienza, e cioè avere il suo scopo nella conoscenza: con tale conoscenza essa intende fin dall'inizio aiutare il medico nella sua capacità di guarire. Non è perciò priva di scopi né neutrale. E ancora una volta ciò che distingue l'arte medica dalle antiche arti dell'umanità è che fin dall'antichità -da Ippocrate- essa è intimamente legata a una scienza che ne costituisce il fondamento"[6].

Jonas pretende di negare questa distinzione sia per evidenziare la peculiarità del rapporto che intercorre tra la scienza medica e l'arte medica (rapporto che sarebbe totalmente differente rispetto a quello che può intercorrere tra una scienza -per es. la fisica- e le sue possibili applicazioni pratiche), sia per segnalare il fatto che nella medicina come scienza e come arte l'oggetto non è un corpo qualsiasi, ma il corpo della persona umana.

L'esigenza di Jonas è condivisibile, ma si può conservare questa sua esigenza senza giungere all'eliminazione della distinzione che abbiamo posto. Lo scopo conoscitivo di una scienza, infatti, non può essere ricavato guardando all'intenzione del soggetto che fa scienza[7].

Il ricercatore che studia il corpo umano può avere come scopo l'applicazione pratica del suo sapere, ma lo scopo della sua ricerca non è l'applicazione stessa, ma la scoperta, per esempio, del come avvengano i processi fisiologici del corpo umano. In questo senso possiamo perciò distinguere la scienza medica dall'arte medica. Solo la seconda è in sé determinata alla guarigione e alla cura: la prima, infatti, potrebbe sussistere anche in assenza della possibilità di applicazione. Così, per esempio, le conoscenze anatomiche sono condizioni necessarie, ma non sufficienti per l'esercizio della chirurgia e sussisterebbero anche qualora mancassero gli strumenti tecnici per operare. Ciò che, infatti, determina la non neutralità assiologica di una scienza (la sua rilevanza morale) non è il suo carattere di scienza, ma il suo modo di ottenere la conoscenza. Le scienze sperimentali, infatti, non sono "neutre" soltanto perché il loro modo di ottenere i risultati, a differenza di quanto avviene in altre scienze speculative (come, per es. le matematiche o la stessa filosofia) è "pratico", cioè comporta una trasformazione e un intervento sull'oggetto di studio.

La medicina come scienza richiede una valutazione etica non perché avrebbe, come dice Jonas, il medesimo scopo dell'arte medica, ma perché (e questo è evidente nel suo lato sperimentale, dove si coniuga sia l'esigenza di dare beneficio ad un paziente, sia il desiderio di conoscere l'effetto, poniamo, di un farmaco) per ottenere la conoscenza deve intervenire quasi sempre (ci sono anche aspetti di pura osservazione nella stessa scienza medica) sul suo "oggetto di studio".

Ed è in riferimento all' "oggetto di studio" della medicina che emerge la peculiarità di questa "scienza". Infatti, sia la scienza sia l'arte medica hanno a che fare con il corpo umano, che è il corpo della persona umana. Va subito detto che, a motivo della struttura multidisciplinare della scienza medica, molte volte la ricerca si svolge su parti del corpo (su cellule o su organi) e non sempre sul corpo vivente della persona (come avviene, per esempio, nell'ambito della sperimentazione farmacologica nella sua fase finale).

Pertanto, sul versante della scienza medica possiamo affermare che essa può a giusto titolo rivendicare una "neutralità" assiologica e una sua autonomia dalle considerazioni etiche soltanto in quanto ha come scopo la conoscenza.. Per neutralità intendiamo affermare che, quando consideriamo una scienza come tale, l'etica riguarda l'attività del ricercatore (che deve essere onesto, deve rispettare i metodi propri della ricerca stessa, deve essere veritiero e via dicendo), e non la scienza stessa. Questa osservazionevale per ogni attività di ricerca dell'uomo, ma non è più sufficiente laddove il modo del conoscere si attua attraverso un intervento pratico su una realtà che è in sé dotata già di valore intrinseco, come è appunto la corporeità vivente della persona umana.

Scienza medica e arte medica si trovano a condividere la medesima responsabilità morale laddove la ricerca si svolge inmodo pratico sull'uomo concreto, che è unico ed irripetibile.

Questa rilevanza etica diventa più chiara se prendiamo in esame l'arte medica. A questo proposito vale la pena di citare ancora Jonas, e per esteso, perché ci sembra che le sue considerazioni siano estremamente pertinenti.

"Un tratto essenziale dell'arte medica è dunque che il medico ha ogni volta a che fare con il suo simile e ogni volta tipicamente al singolare. Il paziente si aspetta e deve confidare sul fatto che la cura sia finalizzata a lui solo. Più specificamente, però, se prescindiamo dalla psichiatria, l'arte medica è volta al corpo tramite cui l'uomo appartiene al regno degli organismi animali, è cosa di natura tra cose di natura e in questo senso rientra nella scienza della natura. Ma si tratta di un corpo di una persona (…) Per consentire a una persona di vivere, il corpo deve essere aiutato. Il corpo è l'elemento oggettivo, ma è il soggetto ad essere in gioco. " [8]

Il corpo (sia esso sano o malato) è l’oggetto della considerazione medica, ma si tratta di un “oggetto” particolare, poiché il corpo umano vivente è sempre il segno della persona umana, cioè della soggettività. Il corpo umano vivente esprime bene il significato originario del termine “persona”, cioè di quella “maschera” che mentre permette di identificare un soggetto ne nasconde l’identità profonda, la sua “personalità” umana. Da questo punto di vista, è abbastanza evidente il fatto che non ci si preoccupa di una persona malata senza passare attraverso la sua corporeità: il corpo vivente è “segno”, più o meno opaco, della persona umana che, pur eccedendo la corporeità, non è mai senza il corpo. Ogni violenza fatta al corpo umano è anche una violenza fatta alla persona umana.

Il corpo umano vivente si colloca, per così dire, come il luogo di confine tra la pura materialità e la pura spiritualità: situazione-limite ben espressa dalla possibilità di considerarlo soltanto alla luce deiprocessi biochimici che lo connotano o attraverso l'eccedenza delle attività umane (che non sono soltanto attività mentali) che lo qualificano. Proprio questa struttura dell'umano fa sì che l’arte medica si costituisca sempre nei termini di una relazionalità interpersonale anche quando l'esercizio della professione si svolga sopra il corpo e verso il corpo.

Ma anche il “corpo” studiato dalla scienza medica e dall’anatomia non è mai, in ultima analisi, soltanto “un corpo”, anche se la sua struttura può essere considerata a partire da discipline differenti, che lo “dissezionano” secondo la logica conoscitiva di diverse forme di sapere (dalla biochimica alla fisiologia), come se fosse un corpo qualsiasi.

Proprio a questo livello si pone, ci sembra, l'intrinseca necessità tanto per la medicina quanto per l'arte medica di instaurare una chiara relazione con le conoscenze antropologiche ed etiche. La medicina, infatti, richiede anche una competenza di stampo antropologico e filosofico proprio perché il suo oggetto è il corpo umano e le conoscenze "oggettive" del corpo trascurano quella componente "soggettiva" che specifica il corpo come corpo umano. Non solo: ma la stessa "malattia" porta con sé il duplice livello del dolore corporeo e della sofferenza psicologica ed esistenziale. Non si dà comprensione del fenomeno "malattia" senza un riferimento al "vissuto" del malato e senza quindi fare i conti con gli aspetti della soggettività.

L’unità psicofisica dell’uomo concreto impedisce alla medicina di stabilire un confine netto, un punto di demarcazione tra dove inizia lo spirito e dove finisce il corpo e impone al medico una consapevolezza antropologica che trascende quanto ha appreso sull'uomo in termini di scienza "naturale". In base a questa consapevolezza, la medicina può considerare il corpo vivente umano in tutte le sue fasi, dalla generazione alla morte, come segno della persona umana.

Ma non solo sul versante, per così dire, dell'"oggetto" della scienza e dell'arte medica si impone la questione antropologica (il "chi è"? l'uomo) e morale (che cosa è bene o lecito fare per conoscere meglio il corpo umano e per prendersi cura di questo uomo?), ma anche sul versante del "soggetto" della ricerca e dell'arte medica si impongono delle considerazioni morali. E questo per almeno due motivi di fondo. Il primo, perché è necessario riconoscere come “bene” morale la dedizione per la salute concreta dell’uomo vivente per dedicarsi alla cura degli altri; il secondo, perché non c’è cura o studio del corpo che non sia anche interazione con la persona umana e, quindi, non tutti i modi del conoscere e del curare sono rispettosi della persona umana vivente.

Da questo punto divista, possiamo inoltre affermare che la fonte specifica dell’arte medica è sempre di stampo extrascientifico. L'arte medica non si attua in nome del sapere sperimentale sulle strutture della corporeità umana, ma in nome del riconoscimento del valore intrinseco dell’uomo vivente e, quindi, del valore della salute come condizione che contribuisce all’espressione della personalità umana..

In fondo, a ben vedere, la medicina è il maggior progetto anti-darwiniano della storia, poiché opera contro la pretesa selezione "naturale" che privilegia l'avvento del più forte e del più sano. Sarebbe interessante, ma esula dallo scopo di questa riflessione, mostrare come sia difficilmente conciliabile una lettura "naturalistica" dell'umano di stampo darwiniano o neodarwiniano con lo scopo dell'arte medica. Possiamo anzi dire, a conclusione di questa prima analisi, che il rapporto tra arte medica e scienza medica è, dal punto di vista cronologico, inverso rispetto a quello metodologico: è stato uno scopo pratico a rendere sempre più necessario un approccio scientifico all'uomo, anche se è oggi evidente che nessuno scopo pratico può avvenire senza premesse scientifiche.

In termini generali possiamo allora fare questa osservazione: lo scopo della ricerca è la conoscenza; la conoscenza è un valore morale in sè, ma la conoscenza è sempre conoscenza di qualcosa: il valore della conoscenza perciò, non può collidere o eliminare il valore del “conosciuto” senza eliminare anche il valore morale della stessa conoscenza. Il valore del conosciuto impone che i mezzi per conoscerlo adeguatamente ne rispettino i caratteri. Tutto ciò risulta evidente quando questo "conosciuto" e "conoscibile" si identifica con il corpo personale, cioè con il corpo umano. La medicina, come scienza e non soltanto come arte, quindi, implica che si sappia chi è l'uomo di cui si studia il corpo.

 

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