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Juan de dios vial correa elio sgreccia libreria editrice vaticana


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[44] S. D. HALPERN (in HALPERN S.D., Prospective preference assessment: a method to enhance the ethics and efficiencyofrandomizedcontrolled trials, Controlled Trials 23, 274-288 (2002)) ha sottolineato queste difficoltà, che portano spesso ad uno scarso arruolamento, a limitazione dell’efficienza dello studio ed hanno indotto a varie proposte per risolvere la questione. Peraltro, si va diffondendo il principio dell’adattamento personallizzato alla ricerca clinica (adattive clinical trials: ACTs), con il quale il singolo paziente viene immesso in un braccio di trattamento in rapporto alle informazioni disponibili. Questo criterio è tuttora limitato , almeno in USA, per vari motivi logistici e statistici e per il peso considerevole che rivestono i bias, ma – secondo PULLMAN D. e WANG X.[ in D.PULLMAN, WANG X., Adaptive design, informed consent and the ethics of research, Controlled Clinical Trials 22, 203-210 (2001) ] dovrebbe essere il criterio di scelta di fronte alle situazioni cliniche più difficili.

[45] Molti autori hanno insistito su questo aspetto. Fra gli altri, BEAUCHAMP, CHILDRESS J.F., Principles of medical ethics, 4a ed., Oxford University Press, New York, 1994; DAUGHERTY CK, Hope and the limits of research, Hastings Center Rep. 26, 20-21, 1996; KASS NE. ET AL., The fragile foundation of contemporary biomedical research, Hastings Center Rep. 26, 25-29, 1996.

[46] TAUBES G., Use of placebo controls in clinical trials disputed, Science 257, 25-6, 1995

[47] LILFORD RJ, JACKSON J., Equiposis and the ethics of randomization, J. Royson. Med. 88, 532-9, 1995

[48] ROTHMAN K.J, MICHELS KB, The continuing unethical use of placebo controls, New Engl. J.Med. 331, 394/8, 1993

[49] Si rinvia, per la trattazione di questi argomenti, allarelazione di A.Loreti-Begué in questa stessa sede congressuale

[50] CANDIA L. (l. cit.)

[51] Si veda, oltre al citato contributo di D.PULLMAN E X. WANG (2001), anche BERRY D.A., EICK SG., Adaptive assignement versus balanced randomization in clinical trials, Stat. Med. 14, 231-246 (1995).

[52] SGRECCIA E., La politica della ricerca biomedica: valori e priorità (in questa sede).

[53] Spesso – è stato segnalato – le ricerche su vasta scala di trials clinici randomizzati cercano di strappare pochi punti di vantaggio percentuali sul “golden standard” attuale, e pertanto necessitano di amplissime casistiche e tempi lunghi di realizzazione, a scapito degli investimenti su settori trascurati e di bassa frequenza nei paesi economicamente vantaggiosi ai fini economici ma di altissima frequenza in altri paesi economicamente svantaggiati (questione delle cosiddette malattie orfane, e dei farmaci orfani).

In ogni caso, non è affatto garantito che i “vantaggi” assicurati da tali trials si diffondano realmente, con sufficiente ampiezza e rapidità, nell’ambito della medicina pratica, così da apportare benefici concreti al miglioramento dell’assistenza.



[54] Sull’argomento, vedesi D. ROTHMAN, The Shame of medical research, New York Review, Nov. 30, 60-64, 2000; National Bioethics Advisory Commission: “Ethical and political issues in international research”, Bethesda NBAC 2001.

[55] Esempi dell’utilizzazione per attività sperimentali di malati terminali (preagonici, ma con coscienza conservata) o di soggetti in stato vegetativo permanente, per quanto rare, ci vengono anche di recente dalla letteratura americana (v. J. COUZIN, Study of brain dead, Science 295 , 1210/11, 2002). Nel primo caso si suggerisce il rispetto delle volontà del paziente, nel secondo il “consenso indiretto” dei famigliari.

Si rinvia alla relazione di A. Spagnolo per ulteriori approfondimenti in questa sede.



[56] PITT (2001) ricorda la raccomandazione di LEVIN e coll. (1991) a proposito di una “consultazione sociale” che coinvolga i potenziali soggetti, le organizzazioni sociali, le agenzie che erogano finanziamenti, e tutte le parti che possono avere un ruolo nella preparazione di uno studio clinico. Sutherland et al., citati da Pitt (2001), sottolineano l’importanza del contesto sociale nella progettazione di uno studio. Essi enfatizzano i potenziali benefici di una consultazione sociale e suggeriscono perfino una più ampia partecipazione nel disegno di uno studio. Hanno individuato una lista di punti che comprende le considerazioni generali, quelle scientifiche e quelle etiche che potrebbero essere utili allo sperimentatore per pianificare uno studio, al comitato etico locale per la sua approvazione, e alle riviste per decidere sulla sua pubblicazione.

Di recente S. HALPERN (in S. HALPERN, Prospective preference assessment: a method to enhance the ethics and efficiency of randomized controlled trials, Controlled Clinical Trials 23, 2002, 274-288) di fronte alle dimostrate, crescenti difficoltà di arruolamento riscontrate per i clinical trials in USA, documenta il vantaggio di una discussione preliminare con gli arruolandi, capace di aumentare il loro interesse a partecipare alla ricerca e modulare le metodologie sulla compliance degli stessi, senza sacrificare l’efficienza della ricerca. Esiste, ormai, una discreta letteratura su queste esigenze [v. anche P. PEDUZZI ET AL., Research on informed consent: investigator-developped versus focus group-developped consent documents, a VA cooperative study, in Controlled Clinical Trials 23 (2002) 178-197]



[57] ANTONOVSKY A., Health, stress and coping. New perspectives on mental and physical wellbeing, Jossey-Bass Publ., S.Francisco, 1979.

[58] STRANG S.,STRANG P., Spiritual thoughts, coping and sense of coherence in brain tumor patients and theirs spouses, Palliat. Med. 152, 127-134, 2001.

[59] MURPHY P.E. ET AL., The relation of religious belief and practices, depression and hopeleness in persons with clinical depression, J.Counsult. Clin. Phsychol. 68(6), 1102-6, 2000.

[60] CINÀ G., Introduzione, in CINÀ G. (a cura di), Medicina e spiritualità: un rapporto antico e moderno per la cura della persona, Ed. Camilliane, Roma, 1998.

[61] BOMPIANI A., Medecine and man: human ecology, in AA.VV., The human search for truth: philosophy, science, theology, Intern. Conf. Sc.Faith, Vatican, 23-25 May, 2000, Saint Joseph’s University Press, Philadelphia, 2002.

[62] SMITH D., Functional salutogenic mechanism of the brain, Perspectives in biology and medecine, 45(3), 319-328, 2002.

[63] LA ROSA M., Salute, relazionalità e compliance, in V. GHETTI (a cura di), La partecipazione del paziente al suotrattamento, Fondazione Smith-Kline, F. Angeli Ed., Milano, 1995 (pp. 7-14).

[64] LUCCHELLI P.E., Compliance e sperimentazione clinica dei farmaci, in V. GHETTI ( a cura di), La partecipazione del paziente al suo trattamento, Fondazione Smith-Kline, F. Angeli, Ed. Milano, 1995 , pp 45-48.

[65] NOVELLINI R., Strumenti emisurazione della compliance negli studi clinici, in GHETTI V. (a cura di), La partecipazione del paziente al suo trattamento, Fondazione Smith-Kline, F. Angeli Ed., Milano, 1995, pp 67-68.

[66] BOCKLE F., I concetti fondamentali della morale, Queriniana Ed., Brescia, 1991.

[67] Che vi siano condizioni di potenziale conflitto in quella “difficile alleanza” che caratterizza l’incontro fra il ricercatore universitario e l’industria farmaceutica è opinione sostenuta da molti [v. ad es. R. MORTON, The clinical trial: deceitful, disputable, unbelievable, unhelpful, and shameful: what next?, Controlled Clinical Trials 22, 593-604 (2001); T. BODENHENMER, Uneasy alliance: clinical investigators and the pahrmaceutical industry, New Engl. J. Med. 342, 1539-1544 (2000)]. L’American Medical College (AAMC) ha, di recente, emanato linee guida dirette ad impedire lo svolgimento di trials clinici da parte di ricercatori che abbiano interessi economici nelle industrie farmaceutiche proponenti [Protecting subjects, Preserving Trust, Promoting progress: policy and guidelines for the oversight of individual financial interest in Human Subjects Research, www.aamc.org/member/coitf] (v. J. Kaiser, Science 295, 246/247, 2002).

[68] Gli sperimentatori, come affermato nei recenti studi sul cancro, potrebbero non seguire i criteri di inclusione ed esclusione di un protocollo randomizzato, mentre l’inclusione di pazienti ineleggibili potrebbe compromettere la validità e l’interpretazione dei risultati. D’altra parte se ci si accorge che pazienti non eleggibili sono stati inclusi nello studio, non si può facilmente escluderli dall’analisi senza compromettere i presupposti di una randomizzazione bilanciata. Una analisi intention-to-treat, che rappresenta l’approccio meno esposto ai potenziali errori sistematici, richiede che tutti i pazienti randomizzati siano inclusi nell’analisi finale. L’inserimento in uno studio randomizzato di pazienti ineleggibili allo scopo di aumentare la numerosità o perché lo sperimentatore desidera fornire una terapia nuova e potenzialmente salvavita a un dato paziente, minaccia l’interpretazione dei risultati dello studio, ed è quindi un atto non etico. Il rischio a cui il paziente viene esposto, lo sforzo dello sperimentatore, l’impiego di fondi sia pubblici che privati, potrebbero essere stati sprecati qualora i risultati di uno studio clinico randomizzato fossero non interpretabili o interpretati erroneamente a causa dell’inserimento di pazienti ineleggibili. Questo raggiro da parte degli sperimentatori è sempre stato trascurato o minimizzato, sebbene non sia meno pericoloso della falsificazione dei dati. La raccolta incompleta dei dati può a sua volta mettere in pericolo la capacità di uno studio randomizzato di dimostrare la sicurezza o l’efficacia di una data strategia terapeutica. La mancata aderenza al protocollo e la raccolta incompleta dei dati sulle apposite schede, sono motivazioni che dovrebbero essere utilizzate per impedire la partecipazione di uno sperimentatore a successivi studi. La partecipazione di uno sperimentatore a uno studio clinico dovrebbe essere considerata un privilegio piuttosto che un diritto, e implica delleresponsabilità che vanno prese molto seriamente se si vuole che i rischi dei pazienti siano giustificati” (PITT, 2001, pag.112-113).

[69] DI TROCCHI F., (l.cit.).

[70] PORTIGLIATTI-BARBOS M., MAGGIONA B. (l.cit.).

[71] J. RANSTAM et al. (2000), Fraud in medical research: an international survey of biostatisticians, Control Clinical Trials 21 (2000); 415-427.

[72] E. STOKSTAD (in STOKSTAD E., Data Hoarding blocks progress in genetics, Science 295, 599, 2002) segnala i risultati di una richiesta condotta dall’Institute for Health Policy, USA su 1240 genetisti e altri 60 ricercatori di 100 Università che ricevono fondi pubblici dal NIM, ben l’84% riferisce di aver chiesto informazioni o materiale ad altro collega, ma il 47% denuncia di non aver avuto risposta nei tre anni considerati; provocando il 28% di rinuncia alla collaborazione ed il 21% di abbandono di promettenti linee di ricerca. I motivi della mancata risposta/collaborazione sono addotti per il 90% all’impegno necessario a produrre il materiale o l’informazione richiesta, per il 64% alla protezione del lavoro dei collaboratori; al 50% alla protezione della propria capacità di pubblicazione dei dati; il 28% alla sfiducia di poter godere di reciprocità di trattamento; il 27% alla tutela degli interessi dello sponsor, ecc..

GONZALO HERRANZ
ALCUNI CONTRIBUTI CRISTIANI  ALL’ETICA DELLA RICERCA BIOMEDICA. 
UNA PROSPETTIVA STORICA


INTRODUZIONE

 

Gli studi sulla breve ma intensa storia dell’etica della ricerca biomedica (erbm)[1] non sono pochi. È interessante rilevare come, al di là delle ovvie differenze di vedute e di approccio, molti fra questi studi mostrano una spiccata propensione in favore di un’interpretazione convergente sul tema, se non uniforme. La coincidenza è sufficientemente evidente da far sospettare che si sia ottenuto un accordo informale fra gli autori non solo relativamente ai fatti principali da includere e sottolineare nelle loro riflessioni, ma anche riguardo alla prospettiva secolarizzata e scientista con cui interpretare e ricostruire la storia . Sembra che sia stato ottenuto un consenso generale sul luogo e sul tempo di nascita dell’erbm, sui capisaldi che scandiscono la sua evoluzione, sulle questioni dominanti che la caratterizzano e, soprattutto, sulle forze interne che ne sospingono i progressi[2].



Risultato di tale interpretazione dominante è la grande diffusione di una storia che tende ad illuminare alcuni eventi come significativi, cruciali e nello stesso tempo ad eclissarne altri come banali e irrilevanti.

Fra gli elementi svalutati o cancellati dalla storia standard dell’erbm vi sono alcuni pionieristici contributi dell’etica cristiana, che, in conseguenza di ciò, non vengono mai citati. Il presente articolo vuole rappresentare un primo sforzo per identificare e raccogliere i contributi cristiani all’erbm nella sua fase iniziale, al fine di farli riemergere dall’oblio e di offrirli alla discussione.

  

LA VERSIONE DOMINANTE DELLA STORIA DELL’ERBM

 

Non sarà qui fuori luogo una breve caratterizzazione dell’approccio nei confronti della storia dell’etica della ricerca biomedica. Solo su tale sfondo si può capire e apprezzare adeguatamente la significatività e il valore degli aspetti che l’etica cristiana ha apportato alla costruzione dell’erbm.



Fra i tratti caratteristici della versione standard che domina la storia dell’erbm, i seguenti risultano particolarmente attinenti al nostro discorso:

  • Il merito attribuito al Codice di Norimberga di aver costituito il punto di partenza della storia dell’erbm.

  • L’aver etichettato il periodo precedente Norimberga come età buia.

  • La convinzione che solo dopo la pubblicazione della Dichiarazione di Helsinki ed il Rapporto Belmont sia stato possibile riconosce all’erbm un’autonomia, emancipandola dalla generica etica medica.

  • Il ruolo esclusivo ed eminente assegnato all’etica laicista nello sviluppo dell’erbm.

 

Il Codice di Norimberga, un evento epocale

 

Si afferma spesso che l’erbm nasce a Norimberga il 20 agosto 1947, quando viene pronunciata la sentenza al processo contro i medici nazisti, colpevoli di aver compiuto esperimenti disumani sui prigionieri di guerra. Come è ben noto, la sentenza del Tribunale Militare Americano conteneva una sezione, chiamata successivamente Codice di Norimberga, in cui erano enumerate dieci proposizioni, quali principi etici fondamentali da rispettare al fine di soddisfare i requisiti morali, etici e giuridici comunemente accettati sulle pratiche di sperimentazione su soggetti umani. La promulgazione dei Dieci Punti del Codice di Norimberga viene considerato l’evento che segna in germe il passaggio da una preistoria antica e scura ad un nuovo tempo illuminato.



Una simile esaltazione di Norimberga non appare pienamente giustificata. Essa rappresenta piuttosto l’esito di una riscrittura artificiale e politicamente interessata della storia. A ben vedere, la legittimità del Codice, sia nei contenuti etici di alcuni articoli che come punto di riferimento giuridico per la condanna dei medici nazisti al processo medico di Norimberga, è stata oggetto di fondate critiche[3].

Ma un altro fatto è assai più importante: il Codice di Norimberga non esercitò alcuna influenza immediata sul comportamento etico nella ricerca medica. Il messaggio di Norimberga non ebbe alcun impatto sulla professione medica perché era specificamente destinato a punire i perpetratori dei crimini di guerra, e pertanto non aveva implicazioni per i medici che, con buone intenzioni, lavoravano nei paesi liberi e democratici. Solo due decenni più tardi, allorché il Codice fu riscoperto, fu riconosciuta apertamente la portata del suo contenuto etico. In particolare, la dottrina sul consenso volontario e libero ebbe il riconoscimento quando comparve in due influenti documenti successivi, la dichiarazione di Helsinki (1964) e il Rapporto Belmont (1979).

Il recepimento dei principi di Norimberga da parte dei Codici di Etica delle associazioni mediche nazionali seguì pure un corso lento, fortuito, quasi letargico. Ebbe impulso solo dopo il 1975, quando l’Associazione Medica Mondiale pubblicò la seconda versione della Dichiarazione di Helsinki[4].

 

Prima di Norimberga, un tempo buio

 

Non è giusto relegare il periodo precedente Norimberga nella categoria di epoca buia. Fu un periodo che per molti aspetti contrasta con il nostro. Non si avvertiva alcun bisogno di regolamentare formalmente l’erbm, e questo per svariate ragioni, fra cui il mancato riconoscimento di una chiara separazione fra pratica ordinaria e sperimentazione clinica: la maggior parte della ricerca era di tipo descrittivo e osservativo, e la ricerca non alterava il comune rapporto medico-paziente; pertanto, la riflessione etica poteva essere lasciata in disparte senza rimorsi. È vero che prima di Norimberga veniva attribuita da parte degli scienziati più considerazione all’ethos della ricerca (la professione e le virtù specifiche del ricercatore, la selezione e l’istruzione dei giovani ricercatori, il rigore metodologico, le responsabilità sociali, il ruolo di consulenza, i modelli di comportamento) che all’etica vera e propria[5]. Ma è pure vero, come mostreremo più avanti, che vi furono alcuni medici appartenenti al circolo francese della Morale Mèdicale che presero in considerazione alcune questioni fondamentali dell’erbm e riuscirono a portare avanti alcuni concetti etici pionieristici e sorprendentemente moderni.



L’oscurità ingiustamente attribuita al tempo che precede Norimberga consegue più ad una disattenzione, forse involontaria, per alcune fonti storiche che all’assenza di autori e di contributi significativi.

 

La convinzione che solo dopo la Dichiarazione di Helisinki ed il Rapporto Belmont fu identificabile una vera erbm

 

Solo di recente fu ,essa a punto una normativa specifica ed esplicita riguardante l’erbm. Prima del 1947, erano stati pubblicati sull’erbm soltanto alcuni documenti normativi formali, che erano stati praticamente ignorati[6].



La carenza di documenti etico-normativi durante questo periodo è dovuta soprattutto al fatto che fino a tempi relativamente recenti la separazione fra pratica medica quotidiana e sperimentazione era poco percepibile o non riconosciuta. Claude Bernard, figura dominate della medicina sperimentale, volendo fornire giustificazione morale alla sperimentazione umana, attribuisce carattere sperimentale a qualunque intervento medico o chirurgico, oscurando qualunque separazione setta fra le due. Riassumendo l’opinione generale del suo tempo, Bernard scrive: “I medici compiono quotidianamente esperimenti terapeutici sui loro pazienti, mentre il chirurgo pratica ogni giorno vivisezioni sui suoi soggetti. […] Esiste pertanto il dovere di sottomettersi alla sperimentazione e il diritto corrispondente ad effettuarla qualora tale procedura sia in grado di salvare una vita, curare una malattia, o portare benefici personali”[7].

Tale prospettiva ci appare oggi tipica di un’epoca da tempo superata. Eppure, è opportuno ricordare che, un secolo più tardi, era divenuta opinione medica comune ritenere che, poiché tutto ciò che il medico decide di compiere a favore del suo paziente si basa su una conoscenza parziale e confusa, ogni atto clinico condivide molti tratti dell’esperimento clinico[8].

 

Il ruolo dominante ed esclusivo assegnato all’etica laicista nello sviluppo dell’erbm

 

Si possono invocare due fattori per spiegare il ruolo subordinato del contributo cristiano all’erbm.



Da un lato, prima del 1950, le fonti bibliografiche di origine cristiana prestarono attenzione quasi esclusivamente a questioni legate ai problemi morali e ai bisogni spirituali dei malati. Gli autori cattolici, più che sull’etica medica, si occuparono della medicina pastorale. Il loro interesse principale riguardava gli effetti delle cure mediche sull’osservanza dei comandamenti divini e sull’amministrazione dei sacramenti della Chiesa, questioni come la sacralità della vita umana e la trasmissione della vita, come l’aborto e l’eutanasia, la contraccezione e la sterilizzazione, la cura dei morenti, il segreto professionale, la cooperazione al male, il matrimonio. L’interesse per l’erbm era secondario, al punto che la maggior parte dei manuali non ne parlavano affatto, o vi alludevano in maniera superficiale[9].

Dall’altro lato, i profondi mutamenti avvenuti nel campo della bioetica contemporanea hanno determinato, come effetto collaterale, la progressiva riduzione al silenzio e l’esclusione dei contributi cristiani all’erbm.

Durante gli anni Cinquanta e Sessanta, i principi e gli standard cristiani costituivano una parte integrante degli articoli e delle direttive riguardanti l’erbm[10]. Nei decenni seguenti, sotto l’influenza di molteplici fattori (la ribellione nei confronti dell’autorità, l’aperto dibattito pubblico su alcuni illustri esempi di abusi e di comportamento scorretto nella ricerca, il ruolo sempre più intenso dell’elemento giudiziario delle questioni bioetiche, la crescente influenza teorica e pratica dell’etica situazionista e utilitarista, le rivendicazioni di gruppi di attivisti assai critici verso la religione), la bioetica ricevette un’impronta marcatamente laicista[11].

Oggi, l’etica dell’assistenza sanitaria è sottomessa ai famosi quattro principi, che derivano direttamente dai tre principi contenuti nel Rapporto Belmont[12]. Molte disposizioni etiche e giuridiche della ricerca medica furono costruite sul fondamento di quei principi, e conseguentemente le deliberazioni dei comitati istituzionali di revisione ruotarono attorno ad alcuni argomenti fissi e ricorrenti, come la tutela dell’autonomia del soggetto, la garanzia del consenso libero e informato in conformità alla legge, la comparazione fra rischi e benefici, l’equa distribuzione dell’onere etico della ricerca fra i membri della società, la tutela degli interessi dei soggetti di ricerca, dei ricercatori, degli sponsor e della società. In effetti, i principi della bioetica monopolizzano di fatto l’attività di molti Comitati. Nessuna alternativa è al momento ritenuta soddisfacente[13]. In questo modo, l’influenza pratica dei valori cristiani nell’erbm è andata indebolendosi e dimenticandosi anche il suo significato storico.

  

LA GENESI DELLA VERSIONE STANDARD

 

Come vedremo nella prossima sezione, la tradizione morale cristiana ha mantenuto una posizione chiara e forte riguardo alla partecipazione degli esseri umani alla sperimentazione biomedica. Tale partecipazione è un’azione umana, che richiede, da un lato, che lo sperimentatore abbia previamente l’indispensabile consenso del soggetto; dall’altro, che il soggetto goda delle informazioni e della libertà necessarie per dare il suo consenso in modo veramente umano e moralmente responsabile. Come già osservato, questa tradizione è assente nella versione standard della storia dell’erbm.



A cancellare la memoria di questa tradizione hanno contribuito due fattori. Il primo è il restringimento dello spazio e del tempo di indagine, comune fra gli storici della bioetica, i quali si limitano normalmente nei loro studi ai fatti statunitensi successivi alla prima guerra mondiale, così che spesso la storia dell’erbm non presta la dovuta attenzione agli eventi accaduti fuori dagli Stati Uniti prima di Norimberga[14]. Il secondo fattore è l’applicazione di specifici indicatori che accertino che cosa sia e che cosa non sia il consenso alla ricerca secondo i bioeticisti americani o i casi giudiziari forniti unicamente da americani. L’espressione “consenso informato” diviene così una specie di marchio registrato, di cui si può fare solo un uso ristretto e autorizzato. Non è un comune termine descrittivo, ma un termine qualificato, differente nella sostanza e superiore nella qualità ad altri concetti utilizzati in diversi tempi e luoghi.

Nulla più della distinzione che Faden e Beuchamp fecero fra due diversi tipi di consenso informato rivela maggiormente l’intento di trasferire l’erbm all’interno del patrimonio culturale americano[15]. Il primo tipo, chiamato effettivo, si riferisce alla mera procedura formale richiesta dalla legge o dalle politiche istituzionali per dare informazioni e documentazioni sull’autorizzazione del paziente a partecipazione alla ricerca, procedura attraverso cui il consenso diviene formalmente valido. Si tratta semplicemente di riempire un modulo, in virtù del quale il soggetto accetta la ricerca proposta. Questo tipo di consenso implica una procedura effettiva, burocratica e formale, che soddisfa materialmente i requisiti minimi prescritti dalla legge, dal codice professionale o dalle regole istituzionali. Il secondo tipo, chiamato “dell’autorizzazione autonoma”, definisce il consenso informato come una sottocategoria dell’atto autonomo con cui un soggetto autorizza il ricercatore ad intraprendere un determinato intervento di ricerca. È proprio il suo carattere di autonoma autorizzazione che rende tale consenso sostanziale ed eticamente autentico, in quanto manifesta il valore centrale del rispetto per la persona. Questo genere di consenso fa onore alla sovranità dei soggetti, ai loro valori e alle loro convinzioni, ed equivale di fatto ad un trasferimento di autorità e responsabilità che viene compiuto attivamente dal soggetto in favore del ricercatore. I due tipi di consenso corrispondono da vicino ai due modelli della beneficenza e dell’autonomia, che Beuchamp e McCullough hanno tratteggiato ideato nella loro descrizione della responsabilità morale del medico[16].

Nella sua recensione al libro di Faden e Beauchamp[17], Caplan afferma che soltanto il tipo sostanziale di consenso informato è, a differenza di quello effettivo, un vero consenso, e che tale consenso è un prodotto tipicamente e necessariamente americano. Caplan accosta Faden e Beuchamp commettendo un errore madornale, e cioè ritenendo che gli autori, nonostante la loro attenta analisi storica, omettano un fatto decisivo, di estrema importanza: la nozione di consenso informato orientata all’autonomia non è solo nata e cresciuta negli Stati Uniti, ma si radica nel valore dell’autonomia che rappresenta un’intuizione tipicamente americana. Al contrario, negli altri luoghi e tempi, la pratica e gli scritti sul consenso informato riguarderebbero esclusivamente gli aspetti formali e procedurali, secondo la variante effettiva. Il consenso autentico sarebbe un fenomeno moderno e radicalmente americano, come proverebbe lo stupore che i non americani provano di fronte al ruolo che l’autonomia gioca nella pratica medica americana[18].

Si insinua così una nuova visione del consenso informato, una visione che rompe con il passato: è originale ed esclusiva della mentalità americana, è “il risultato dei cambiamenti culturali avvenuti negli ultimi decenni nell’etica, nel diritto, nell’economia e nell’atteggiamento culturale nei confronti dell’individualismo e della scelta personale, che si estendono ben oltre i confini della moralità medica”[19]. Di contro alla visione moderata di Faden e Beuchamp sulla difficoltà di valutare le pratiche di consenso del passato[20], Caplan adotta un metro di valutazione del presente e del passato più radicale, basato sul criterio del consenso come autonoma autorizzazione, e ciò implica un forte rischio di imperialismo assiologico. Il nuovo concetto di consenso come autorizzazione autonoma poggia su criteri di giudizio sorti in seno al diritto americano, presuppone che il soggetto sia di norma dotato di un solido intelletto e di un’autonomia formata. Di più: questo nuovo concetto è stato elevato alla condizione di modello universale. Inoltre, il nuovo paradigma rompe tutti i legami dell’erbm con l’etica cristiana. Tutto ciò che la tradizione medica e cristiana aveva affermato sui diritti morali dei soggetti di ricerca, sulle loro responsabilità e libertà, sul potere di gestione della propria vita e del proprio corpo, sulle capacità e sulle azioni umane è venuto ad avere cattiva reputazione o ad essere ridotto alla condizione di precedente rudimentale ed obsoleto.

Di fronte ad una simile spavalda auto-attribuzione di importanza storica e di superiorità ideologica, è dovere di tutti chiedersi se questa versione della storia del consenso informato tenga conto di tutti i dati disponibili e li analizzi correttamente. A mio avviso non è così, dato che tale interpretazione non considera una parte importante della storia dell’erbm[21].

Di seguito presenterò alcuni dati che mostrano come la versione standard della storia dell’erbm tralasci l’esplorazione di autori e di opere che hanno proposto con sorprendente maturità e lungimiranza, molto prima di Norimberga, idee molto avanzate sui criteri etici per il consenso informato e sulla posizione che la ricerca biomedica ricopre nella società.

 

 

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