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Issn 2035-794x migrazioni nel mondo mediterraneo durante l’età moderna. IL case-study storiografico italiano


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Gli spostamenti di carattere commerciale non si registrano solamente nell’arco alpino ma anche nella zona appenninica e più precisamente in Lunigiana dove si afferma un fiorente commercio di libri stampati che vengono venduti in Europa124. Un’altra migrazione di rilievo, studiata da Porcella, è quella dei girovaghi e dei commedianti di strada che, a partire dal 1500, sono particolarmente attivi fra l’Appennino ligure di Levante e quello emiliano125.

Oltre agli spostamenti sopracitati, le aree montane della penisola in età moderna sono state anche interessate dalle migrazioni legate al fuoriuscitismo religioso come quelle dei Valdesi su cui però vi è tuttora una bibliografia limitata. La più recente sintesi per il periodo che va dal 1532 ai primi dell’Ottocento è quella fatta da Chiara Vangelista nel volume einaudiano dedicato alle migrazioni126. Ad eccezione di questo saggio la storiografia per l’età moderna si continua a basare sulle opere di Armand Hugon127, Paola Sereno128, Gabriel Audisio129 e sulle due raccolte di atti di convegni, edite da Albert de Lange130 e da Susanna Peyronel131.

Se l’area alpina è caratterizzata da migrazioni di varia natura, nella fascia centrale della penisola, ovvero in Toscana, Umbria, Marche e Romagna, prevalgono degli spostamenti legati al sistema agrario basato sulla mezzadria. In questo contesto, i contadini si muovono su altre terre nel caso in cui si registra una eccedenza demografica all’interno delle proprie famiglie rispetto al fondo assegnato loro dal proprietario132. Questo sistema, in cui gli spostamenti sono di breve raggio ma definitivi e ben pianificati, è illustrato nella sintesi fatta da Giuliana Biagioli sull’area centrale della penisola e da Della Pina per quanto riguarda il caso toscano133. All’interno di questo quadro economico e sociale le Marche sono la regione in cui il sistema mezzadrile ha favorito la migrazione di contadini verso la Maremma. Le analisi fatte da Girolamo Allegretti, che coprono il periodo che va dal 1500 al 1900, dimostrano come questo fenomeno migratorio risulta essere una parte integrante nell’economia montana delle Marche e come sia dettato da una serie di ragioni, in primis fra tutte la possibilità di arricchirsi e quella di contrarre matrimonio134. Carlo Verducci ha poi ampliato lo spettro della ricerca e ha evidenziato come, in età napoleonica, questo tipo di migrazione si diriga non solo in Maremma ma anche verso l’agro romano135. Tuttavia, oltre ad essere un’area di partenza, le Marche sono anche un punto di arrivo per le immigrazioni degli slavi e degli albanesi che, a partire dal 1400, vengono incoraggiati a stabilirsi per favorire la messa a coltura di nuove aree. A questo proposito vi è una vasta bibliografia a cominciare dalle analisi fatte da Moncilo Spremic136, Giovanni Annibaldi137, Mario Natalucci138 e Sergio Anselmi139. La raccolta di saggi edita da quest’ultimo storico nel 1988140 ha poi fornito un quadro di queste migrazioni, estendendo la ricerca alla Romagna e all’Abruzzo tramite i contributi di Giovanni Annibaldi141, Viviana Bonazzoli con Oreste Delucca142 e Paola Pierucci143 ed investigando inoltre specifici aspetti relativi al ruolo delle donne e alle confraternite slave grazie agli studi di Elisabetta Insabato144 e Mario Sensi145. Oltre all’area balcanica, tra il 1500 e la fine del 1800 si registrano anche migrazioni a breve raggio da regioni vicine quali quelle delle maestranze navali venete e romagnole che sono state studiate nel recente saggio di Maria Lucia De Nicolò146.

Così come nelle Marche, anche in Toscana il sistema mezzadrile viene incoraggiato dai Granduchi per favorire il popolamento di talune aree. I saggi di Della Pina sul popolamento del Valdarno pisano è esplicativo del ruolo svolto dalle decisioni politiche per promuovere ed orientare dei flussi migratori al fine di determinare nuovi equilibri economici147. Un’altra area verso cui viene favorita la migrazione è la Maremma dove confluiscono uomini provenienti dall’Appennino tosco-emiliano e da quello abruzzese-molisano così come dalla Corsica. Gli studi di Danilo Barsanti148, Serafina Bueti con Eugenio Maria Beranger149, Ovidio Dell’Omodarme150, Lorenzo Del Panta151 ed Antonio Stopani152 hanno ampiamente descritto queste migrazioni ed il loro impatto sull’economia locale.

Questo tipo di migrazioni in aree, scarsamente popolate e soggette a delle cicliche crisi demografiche, comporta naturalmente un continuo flusso di forestieri che vengono integrati da certe comunità locali attraverso strategie matrimoniali, il cui scopo principale è il mantenimento e la trasmissione del patrimonio familiare153. A questo proposito gli studi di Renata Ago su Anguillara154, sulla diocesi di Sutri155 e più in generale sulla campagna laziale sono esplicativi dei casi in cui queste strategie vengono messe in atto156.

Per quanto riguarda la parte meridionale della penisola, Agnese Sinisi è stata la prima a provare a delineare un quadro generale delle peculiarità migratorie legate ad un sistema economico dove, ad eccezione dell’area attorno a Napoli e Salerno, non esiste la piccola proprietà. A causa di ciò, si registra una forte mobilità interna dei pastori abruzzesi che, spostandosi lungo i tratturi, si dirigono verso i pascoli invernali del Tavoliere di Puglia. Altri itinerari legati alla transumanza sono quelli che legano l’Appennino lucano e del massiccio del Pollino ai litorali ionici e calabresi o quelli che collegano l’altopiano della Sila alla piana di Crotone, ben analizzati da Raul Merzario157, Piero Bevilacqua158 e Luigi Piccioni159. Oltre ai pastori, Sinisi sottolinea come i tratturi siano anche percorsi da contadini che si dirigono verso le masserie cerealicole della Capitanata160. Quest’area è stata studiata da Raffaele Colapietra161, Pasquale Di Cicco162, John Marino163 Saverio Russo164 che hanno messo in evidenza il ruolo giocato dalla Dogana di Foggia nel controllare ed equilibrare i flussi migratori legati alla transumanza e diretti verso il Tavoliere. Quest’area in cui la produzione cerealicola svolge una funzione cruciale è caratterizzata da una forte mobilità che, a partire dagli anni Settanta, è stata analizzata da Salvatore Fedele 165, Franco Farinelli166, Aurelio Lepre167, Gérard Delille168, Giovanna Da Molin169, Angiola de Matteis170, Biagio Salvemini171, Saverio Russo172 e Ornella Bianchi173.

Per quanto riguarda la Sicilia, si è già accennato al fatto che fra il XV ed il XVI secolo essa è interessata dalle migrazioni di maestranze pisane e lombarde174. Ad esse si aggiungono i genovesi, dediti al commercio dello zucchero, nonché i calabresi e gruppi di albanesi, quest’ultimi ripresi nella recente analisi di Elisa Vermiglio, che è però incentrata sul basso Medioevo175. Oltre a queste migrazioni esterne, a partire dal XVI secolo, si cominciano a registrare anche migrazioni interne legate alla politica di ripopolamento dei feudi, portata avanti dai baroni per incrementare le esportazioni del grano. Le analisi iniziate da Francesco Benigno176, e portate avanti da Restifo177 e Domenico Ligresti178, sono tutt’ora le migliori per comprendere il quadro di queste migrazioni interne.

Rispetto all’area meridionale, la parte insulare della penisola è contraddistinta da una maggiore staticità interna179. Infatti, durante l’età moderna, in Sardegna si registra una sostanziale staticità della popolazione verso le aree esterne. Allo stesso modo, scarsi sono i movimenti interni di rilievo, ad eccezione di quelli legati alla transumanza su cui l’articolo di Gian Giacomo Ortu fornisce un quadro sintetico inserito nel contesto storico sardo180. Al contrario, a partire dal 1400, l’isola è oggetto di tentativi di colonizzazione da parte dei mercanti genovesi e liguri del Ponente e da parte dei corsi che sono stati studiati da Giovanna Petti Balbi181, Edoardo Grendi182, Alberto Boscolo183, Maria Vittoria Sanna184, Bruno Anatra185, Costantino Moretti186, Maria Giuseppina Meloni187 e Mauro Maxia188. Oltre alla presenza genovese e greca, il recente saggio scritto da Valentina Grieco, Aldo Pillittu, Massimo Pitti, Silvia Scalas e Giovanni Sini, nonché l’articolo di Cecilia Tasca189 hanno ampiamente dimostrato come sin dai primi del 1400, l’isola sia anche oggetto di insediamento di nuclei di portoghesi190. In Sardegna si registra anche, a partire dal XIV secolo, una cospicua presenza ebraica che è stata analizzata da Tasca191. Il saggio di Francesco Cesare Casula ha dimostrato come sull’isola sia attestata anche una presenza turca in età moderna192.

Così come la Sardegna, anche la Corsica è un’area in cui si registrano insediamenti genovesi dal basso medioevo e, nel corso del XVII secolo, anche greci come è illustrato dalle ricerche di Jacques Heers193, Francis Pomponi194, Jean Cancellieri195 e Giorgio Doria196. Tuttavia dall’isola si verificano anche partenze verso Roma, dove una colonia di corsi comincia a stanziarsi dai primi del Quattrocento come hanno evidenziato le ricerche di Anna Esposito197, aggiornando così un tema che si basava sulle analisi ormai sorpassate di Carmelo Traselli198 e di Domenico Spadani199.



Il quadro migratorio dei centri urbani
Il quadro generale delineato fin d’ora ha permesso d’inquadrare i movimenti migratori secondo una prospettiva regionale che però è difficilmente applicabile quando si analizzano gli spostamenti di popolazione verso e fuori dalle città. Infatti, ogni singola realtà urbana presenta caratteri specifici che impediscono di proporre uno schema analitico uniforme200. Gli studi di Fasano Guarini201, Eugenio Sonnino202, Maria Ginatempo con Lucia Sandri203 e Andrea Doveri204 hanno rilevato due caratteristiche di fondo ai centri urbani della penisola durante l’età moderna: la prima è che, nel contesto del rafforzamento degli stati regionali, le capitali tendono ad assumere un ruolo egemone sulle altre città. La seconda è che quasi tutte le capitali hanno un calo demografico che non riesce ad essere compensato dalle migrazioni provenienti dalle campagne in quanto risultano essere composte da poveri e vagabondi, due gruppi scarsamente tollerati dalle autorità cittadine205.

Una città che racchiude in sé una delle caratteristiche sopracitate è Venezia che, per tutta per l’età moderna, rimane la capitale indiscussa dell’omonima repubblica e che di conseguenza è un polo di attrazione per un variegato flusso migratorio. Due recentissime analisi che offrono un quadro sull’eterogenità di questi flussi sono quelli di Andrea Zannini e Reinhold C. Mueller206. Una parte consistente di questi flussi è composta da greci ortodossi, albanesi, slavi e dalmati, il cui arrivo ed impatto sulla società veneziana è stato oggetto di una progressiva attenzione da parte degli storici sin dai primi anni Sessanta. Infatti, la ricerca di John Deno Geanakoplos207 sugli studenti greci provenienti da Bisanzio è stata progressivamente allargata agli altri gruppi come ben testimoniato dalle analisi di Alain Ducellier208, Reinhold Mueller209, Giorgio Fedalto210, Freddy Thiriet211, Bernard Doumerc212, Brunehilde Imhaus213, Silvia Moretti214, Heleni Porfyriou215, Donatella Calabi216 e Lucia Nadia217.

Oltre ai flussi provenienti dalla parte orientale del Mediterraneo, gli studi di Carlo Pasero218, Annalisa Bruni219, Casimira Grandi220, Andrea Zannini221, Philippe Braunstein222, Luca Molà223, Francesca Trivellato224, hanno dimostrato come Venezia riceva anche l’arrivo di un consistente gruppo di bresciani, friulani, milanesi, bellunesi, lucchesi e cadorini, i quali svolgono differenti mansioni sia in città che all’interno degli arsenali della Repubblica. Non tutti gli stranieri sono però ben accettati. A questo proposito Benedetto Fassanelli ha analizzato l’espulsione dei rom dalla Repubblica Venezia durante la metà del Cinquecento, sottolineando come la legislazione imponga loro di muoversi all’interno di confini preclusi o in transito225.

I tedeschi e gli ebrei sono altri due gruppi che vantano una consistente presenza a Venezia sin dal Quattrocento. Gli studi sui primi si basano principalmente sulle ricerche fatte da Wolfang von Stromer226, Karl-Ernst Lupprian227, Philippe Braunstein228 e Patrizia Bravetti229, mentre, ad oggi, la miglior opera sugli ebrei a Venezia è la raccolta di saggi edita da Gaetano Cozzi che fornisce un dettagliato quadro all’interno di una vasta letteratura230. All’interno del dominio della Repubblica bisogna anche considerare le migrazioni studentesche ed in particolare quelle provenienti dai paesi protestanti come nel caso, studiato da Jonathan Woolfson231, degli studenti inglesi stabilitisi a Padova durante la dinastia Tudor.

Nella parte settentrionale della penisola, Mantova è un’altra realtà urbana in cui si registrano cospicui movimenti migratori durante l’età moderna. Gli studi di Marco Belfanti, basati sui censimenti del 1658 e del 1712, hanno dimostrato come la maggior parte dei forestieri arrivati a Mantova durante i periodi dei due rilevamenti provengano da zone confinanti quali il Parmense, il Modenese, il Reggiano ed il Ferrarese. Oltre a questi movimenti a breve raggio, ve ne sono anche però a lungo raggio. Questo è rappresentato dal fatto che nel 1658 i Trentini della Valle Rendena occupano il secondo posto nella graduatoria percentuale dei forestieri presenti a Mantova dove però, nel 1712, sono scalzati dai milanesi, che sono i tre quarti dei lombardi arrivati in città232.

Nella panorama delle realtà urbane settentrionali si è già accennato come Torino eserciti una forza attrattiva sulle popolazioni delle valli alpine vicine ad essa. Nel corso del settecento, questa forza viene ulteriormente accentuata a causa dell’elevazione di Torino a capitale dello Stato Sabaudo233. Come rilevato da Levi, questo rafforzamento allarga l’ampiezza dei bacini demografici dai quali la città può attingere anche se ciò non provoca grandi modifiche sui flussi migratori che continuano a basarsi su di un sistema di tradizioni agricole, retaggio del periodo medievale234. L’opera di Levi non dà però un quadro statistico completo che invece viene proposto nel saggio di Maria Carla Lamberti sulle donne e sugli uomini immigrati a Torino nei primi dell’ottocento. L’analisi di Lamberti illustra come cambi la condizione d’immigrato in una città in età moderna a seconda del fatto di essere uomo o donna, e come questa condizione determini un differente accesso al mondo del lavoro235, una tematica recentemente studiata anche da Beatrice Zucca Micheletto236. Come a Padova, anche Torino ospita una comunità protestante, molto più variegata però, che vi si stabilisce tra la fine del Seicento ed i primi del Settecento. Il saggio di Gian Paolo Romagnani ne illustra l’insediamento fino al progressivo deteriorarsi dei rapporti con le istituzioni regie a fine Settecento237.

Analogamente a Venezia, anche Genova, in virtù del suo sistema portuale, è un cruciale centro d’attrazione per maestranze ed apprendisti. Gli studi di Ennio Poleggi238 e successivamente quelli Giacomo Casarino sul mondo del lavoro e sull’apprendistato genovesi tra il Quattrocento e il Cinquecento descrivono dettagliatamente il reticolo di relazioni che legano le zone dell’alta Lombardia alla città ligure, dove si riversano maestranze qualificate che ricoprono un ruolo attivo nel tessuto economico urbano239. Oltre alla manodopera dall’alta Lombardia, Genova riceve anche dal XII secolo lavoratori da altre regioni mentre altre comunità provenienti da altre parti d’Europa s’insediano progressivamente in città. Data la vasta letteratura esistente, le migliori sintesi che coprono il basso medioevo e l’età moderna sono quelle di Gabriella Airaldi240, Laura Balletto241, Giovanna Petti Balbi242, Marie-Christine Engels243, Edoardo Grendi244, Gian Giacomo Musso245, Luisa Piccinno246. Più recentemente gli studi sugli stranieri a Genova durante l’età moderna si sono concentrati su quelle comunità scarsamente trattate dalla storiografia migratoria. A questo proposito l’articolo di Codignola e Tonizzi è innovativo in quanto propone un’analisi, basata sull’utilizzo di fonti inedite, sull’insediamento e sullo sviluppo della comunità svizzera a Genova dal Cinquecento al tardo Ottocento247.

Oltre ad essere un punto di arrivo, Genova è anche un punto di partenza da dove, nel corso del medioevo, le grandi famiglie genovesi partono per stabilire insediamenti commerciali nel Mediterraneo orientale. A partire dal Cinquecento il loro interesse si sposta però verso il mondo atlantico ed al tempo stesso si consolida nella Penisola Iberica, nelle Fiandre, nel regno di Napoli e in Inghilterra. Anche in questo caso vi è una vastissima bibliografia per cui è necessario limitarsi a segnalare le opere di Giuliana Albini248, Nunziatella Alessandrini249, Enrico Basso250, Giovanni Brancaccio251, Raffaele Colapietra252, Gigliola Pagano de Divitiis253, Della Camerana254, Mario Del Treppo255, Rosario do Morais256, Ricardo Franch257, Edoardo Grendi258, Manuel González Jimènez259, Aurelio Musi260, Giovanni Muto261, Enrique Otte262, Arturo Pacini263, Paola Subacchi264, Carmelo Trasselli265, e Consuelo Varela266.

Nella parte centrale della penisola, una città che registra una forte crescita demografica è Livorno il cui popolamento, a partire dal XVI, è incentivato da Cosimo I, granduca di Toscana (1519-1574), per favorire lo sviluppo del suo porto. Questo popolamento viene incoraggiato attraverso una legislazione speciale che favorisce l’arrivo di mercanti armeni, ebrei, olandesi e portoghesi. Gli studi di Paolo Castignoli267, Marie-Christine Engels268, Fasano Guarini269, Lucia Frattarelli Fischer270, Cristina Galasso271, Andrea Menzione272, Renzo Toaff273 e Francesca Trivellato274, hanno analizzato l’insediamento di questi gruppi a Livorno ma anche a Pisa e a Firenze. A partire dalla seconda metà del cinquecento a Livorno s’insedia anche una fiorente comunità protestante di mercanti inglesi che, nell’ultimo ventennio, è stata studiata da Carlo Cipolla275, Gigliola Pagano de Divitiis276, Michela D’Angelo277 e Stefano Villani278.

Nel contesto delle esperienze migratorie verso le maggiori realtà urbane della penisola, Roma occupa un ruolo speciale in quanto è il punto di arrivo per una moltitudine di italiani e di stranieri che vi si stabiliscono sia per motivi religiosi che per le opportunità di carriera offerte dalla corte pontificia. Il recente saggio di Sonnino sulla popolazione di Roma in età moderna dimostra come fino al sacco del 1527 la città registri una fase di crescita demografica che viene interrotta, riprendendo però nel giro di breve tempo tanto che nel 1560 si contano 70.000 abitanti che arrivano ad essere più di 160.000 alla fine del Settecento279. In questo contesto di crescita demografica, le ricerche di Eleonora Canepari hanno ricostruito il movimento dei lavoratori stranieri a Roma e la loro capacità di stabilire reti sociali mediante i centri di aggregazione presenti in città280. Le ricerche di Arru si sono invece concentrate sulle strategie d’inurbamento e d’integrazione di chi migra a Roma281. Una consistente parte dei gruppi di persone che arrivano in città è poi rappresentato da servitori e servitrici che ricoprono una parte importante della manodopera migrante come hanno messo in luce gli studi di Dadà282 e Arru283.

L’importanza dei flussi migratori nella crescita demografica della città è determinante, tuttavia risulta difficile proporre un’analisi uniforme del fenomeno migratorio a Roma, data la molteplicità dei casi da considerare. Ad oggi, l’unico storico ad aver tentato di proporre un excursus delle migrazioni a Roma è stato Sanfilippo, il quale ha suddiviso la sua analisi in tre scansioni temporali. Nella prima, propone addirittura di leggere la storia delle migrazioni a Roma come un’esperienza di lunghissima durata che va dal III secolo A.C. fino ai primi anni del 2000284. Le sue altre due analisi hanno uno spettro cronologico più limitato: una si concentra sul periodo rinascimentale mentre l’altra va dal sacco fino ai primi anni Novanta del ventesimo secolo285. Un testo basilare per comprendere la rilevanza della presenza straniera a Roma in età moderna è la Descriptio Urbis, il censimento del 1527 che è stato ampiamente utilizzato nelle opere di Claudio De Dominicis286, Anna Esposito287 e Egmont Lee288. Come si è detto in precedenza, Roma è un polo di attrazione per un flusso di ecclesiastici e laici che s’inseriscono o cercano d’inserirsi nella struttura della corte pontificia. Come sottolineato da Sanfilippo289, la letteratura su quest’argomento è molto vasta ed è necessario basarsi sulle opere di Renata Ago290, Angiolina Arru291, Irene Fosi292, Pierre Hurtubise293, Peter Partner294, Maria Antonietta Visceglia295 e Alessandro Serio296 per poter avere un quadro generale.

Tra gli stranieri che si stabiliscono a Roma, vi sono determinate comunità nazionali che emergono per consistenza numerica e per importanza. Una di esse è quella tedesca su cui vi è un’ampia bibliografia, la maggior parte della quale è in tedesco ed è menzionata negli articoli di Sanfilippo297. Le principali analisi non in tedesco sono quelle di Arnold Esch298, William Clifford Maas299, Andreas Sohn300 e Christiane Schuchard301 nonché la discussione storiografica di Irene Fosi302. Se la comunità tedesca occupa un posto di rilievo, altrettanto può dirsi di quella spagnola sulla quale si sono moltiplicati gli studi a partire dai primi anni Novanta grazie alle ricerche condotte da Alessandra Anselmi303, Thomas James Dandelet304, Giovanna Sapori305, Visceglia306 e soprattutto da Manuel Vaquero Piñeiro307.

La ricca produzione storiografica sulla comunità spagnola contrasta con la scarsità di opere sulla comunità portoghese che rimane ancorata alle analisi di Claudio De Dominicis308, Anna Maria Oliva309 e Maria Rosa de Loures Pereira, quest’ultima sulla genesi dell’ospedale di San Antonio dei Portoghesi che viene fondato a fianco dell’omonima chiesa, diventando così il centro della comunità lusitana310. La nascita delle chiese nazionali è un fenomeno che si sviluppa nel Trecento e che si collega alla creazione di ospizi e confraternite, di cui viene offerto un quadro generale nelle analisi di Domenico Rocciolo311, Luigi Fiorani312, Anna Esposito313 e in quelle ormai datate di Carlo Antonio Jemolo314 e Luigi Salerno315.

Oltre ai portoghesi, anche i fiamminghi, i francesi, gli illirici, gli spagnoli, gli svedesi e i tedeschi costituiscono chiese nazionali come dimostrano gli studi di Arnold Esch316, Erwin Gatz con Albrecht Weiland317, Giorgio Kokša318, Thierry Kouamé319, Matizia Maroni Lumbroso con Antonio Martini320, Anne-Lise Courtel Ray321, Alessandro Serio322, Thierry Kouamé323, Karl Rudolf324 e Maurice Vaes325. Accanto a questi gruppi provenienti dall’Europa continentale, a Roma s’insediano anche delle comunità dalle British Isles. La più vecchia di esse è quella inglese la cui presenza a Roma può essere fatta risalire ai primi decenni dell’ottavo secolo quando viene fondata la Schola Saxonum. Tuttavia è nel 1300 che la comunità rafforza la sua presenza in città grazie alla fondazione dell’ospedale di San Tommaso di Canterbury che diventa il centro di accoglienza dei pellegrini inglesi. Nel 1575 l’ospizio viene chiuso e trasformato nel collegio inglese326. Ad oggi l’attenzione della storiografia si è concentrata maggiormente sulla nascita del collegio e sulla sua comunità studentesca grazie agli studi di Francis Aidan Gasquet327, Anthony Kenny328, Luigi e Pier Luigi Lotti329 e Michael Williams330 mentre la migliore e tuttora unica analisi sugli inglesi a Roma nel basso medioevo è quella fatta da Margaret Harvey331. La seconda delle comunità delle British Isles stabilitesi a Roma è quella scozzese che, probabilmente attorno al 1450, fonda il suo ospizio e la sua chiesa nazionale a Sant’Andrea delle Fratte. Così come gli inglesi, anche gli scozzesi costituiscono il loro collegio nazionale che viene fondato nel 1600. Gli studi sulla presenza scozzese a Roma non abbondano anche se sono più recenti rispetto alla letteratura sulla comunità inglese. Infatti, ad esclusione dell’articolo di David McRoberts sulla chiesa di Sant’Andrea delle Fratte uscito nel 1950332, la raccolta di saggi edita da Raymond McCluskey sulla storia del collegio scozzese è stata pubblicata nel 2000333. Nel suo recentissimo saggio uscito nel 2010, Richard Adam Marks ha ulteriormente espanso la ricerca sulla presenza scozzese estendendola di fatto a tutta la penisola italiana nel Seicento334. Marks ha inoltre realizzato un database informatico grazie a cui è stato possibile rintracciare l’identità di 252 scozzesi residenti o di passaggio nella penisola335.

Rispetto a quella inglese e scozzese, la migrazione irlandese a Roma è esclusivamente caratterizzata da una componente ecclesiastica. Nonostante non fondi alcuna chiesa nazionale, nella prima metà del Seicento il clero irlandese può già contare su due collegi: quello di San Isidoro, fondato nel 1625 per i francescani, e il collegio irlandese, fondato nel 1628 per l’educazione dei preti secolari336. Ad oggi la storiografia sulla migrazione irlandese a Roma difetta di una monografia specifica e continua a basarsi su quattro studi prosopografici del domenicano Hugh Fenning che ha schedato i regolari e i secolari ordinati a Roma nel periodo dal 1572 al 1800337.

Il flusso di religiosi provenienti dalle British Isles rafforza ulteriormente la dimensione cosmopolita del clero che si trova a Roma. L’articolo di Pizzorusso sul Collegio Urbano della Sacra Congregazione “de Propaganda Fide”, fondato nel 1627, dimostra come questo seminario accetti studenti da tutta l’Europa continentale ma anche dal Medio Oriente, dall’Asia e dall’Africa338. Così come la popolazione studentesca, anche il clero parrocchiale è composto da membri la cui provenienza non è uniforme. Infatti, lo studio di Rocciolo sul clero parrocchiale a Roma nel Seicento ha evidenziato come una rilevante parte di esso sia formato da non romani339.

Se il clero occupa un posto rivelante nei flussi migratori verso Roma, altrettanto cruciale è quello degli artisti e degli intellettuali che tra la fine del Quattrocento ed i primi del Cinquecento si stabiliscono in città. Un quadro di questa migrazione specializzata si trova nelle già citate opere di Antonio Cesare Corti e Vittorio Caprara, negli articoli di Vincenzo de Caprio340, Liliana Barroero341 e Elisja Schulte Van Kessel342, nonché nella monografia di Egmont Lee343 e la raccolta di saggi curata da Arnold Esch e Christoph Frommel344.

Come a Venezia, anche a Roma è attestata la presenza di una comunità zingara che tuttavia è mal tollerata e contro cui lo stato pontificio emana ben 79 bandi di espulsione nel corso dell’età moderna345. Oltre alle sintesi fatte da Luca Bravi con Nando Sigona346, Leonardo Piasere347, Giorgio Viaggio348, la comunità degli zingari a Roma tra il 1500 e il 1600 è stata analizzata principalmente da Vladimyr Martelli349 e da Alessandro Luciani350.

Nonostante siano una delle comunità più antiche della città, nella seconda metà del Cinquecento anche gli ebrei sono soggetti a una serie di controlli e di segregazioni da parte del papato. La storiografia sul loro insediamento in città è molto vasta per cui è necessario limitarsi a segnalare le più recenti sintesi di Abraham Berliner351, Anna Esposito352, Stanislao Pugliese353, Anna Foa e Kenneth Stow354 e Ariel Toaff355. Alla fine del quattrocento la comunità ebrea romana comincia a ricevere altri ebrei tedeschi, francesi e soprattutto spagnoli, il cui numero aumenta dopo la loro espulsione dalla penisola iberica a seguito della reconquista del 1492. Gli studi di Anna Esposito356, Simon Schwarzfuchs357, Renata Segre358 e Ariel Toaff359 hanno messo in evidenza come la componente ispanica ebrea entri in contrasto con la comunità romana, tesi che invece viene negata da Kenneth Stow360.

Nella parte meridionale della penisola, Napoli è il centro urbano in cui è più forte la crescita demografica per tutto il Cinquecento e durante la prima parte del Seicento. Nello specifico, questa crescita è favorita dall’arrivo di uomini provenienti dalle campagne che si riversano in città per cercare qualsiasi genere di professione. Come è dimostrato dai dati raccolti da Claudia Petraccone e da Piero Ventura, la metà dei flussi diretti verso la città ha origine all’interno del Regno e più precisamente nelle zone limitrofe a Napoli quali la Terra di Lavoro e il Principato Citra. Un altro dato significativo è che gli uomini rappresentano il settanta per cento di chi arriva in città e che la maggior parte di essi trova lavoro come domestici, cocchieri o piccoli commercianti. Questo fenomeno è da collegarsi al fatto che circa il cinquanta per cento dei nobili si stabilisce in città dalle province361. Oltre ai genovesi di cui si è già accennato, a Napoli è presente una comunità straniera legata al commercio di cui un quadro generale viene offerto nelle sintesi di Giuseppe Galasso e Musi362. Quest’ultimo storico ha inoltre recentemente ricostruito l’insediamento ed il ruolo della comunità greca durante l’età moderna363. Un’altra analisi recente sugli stranieri a Napoli è quella fatta da Luigi Sisto che ha studiato il fenomeno migratorio di una maestranza altamente specializzata quale quella dei liutai tedeschi364.

Tra il Settecento ed i primi decenni dell’Ottocento, i caratteri dei flussi migratori verso Napoli non subiscono profondi cambiamenti. La riprova di ciò è confermata dalla recente analisi fatta da Tiziana Avolio, Stefano Chianese e Nicola Guarino, che hanno dimostrato come, nel periodo fra il 1790 ed il 1840, più del cinquanta per cento degli immigrati in città continui a provenire da zone limitrofe365. Tuttavia, quasi nello stesso periodo, la città assiste a un progressivo insediamento di un’élite straniera composta da mercanti e imprenditori francesi, inglesi e svizzeri. Questi ultimi non si stabiliscono solamente a Napoli ma anche in altre parti del Meridione. Un inquadramento di queste migrazioni è offerto nelle analisi di Lorenzo Zichichi366, Luigia Caglioti367, Michela D’Angelo368. Il caso napoletano è stato poi approfondito da Caglioti e da Marco Rovinello369 che hanno ricostruito l’arrivo di questi stranieri e in particolare di quelli provenienti dall’area svizzero-tedesca e dalla Francia. Lo studio di Caglioti ha dimostrato come non possano essere assimilati a migranti tradizionali in quanto appartengono a una minoranza avvantaggiata, è provvista di capitali da utilizzare come strumento di mobilità sociale ascendente370. Un ulteriore esempio di questa migrazione d’élite è ben rappresentato dagli inglesi che, secondo gli studi di Barbara Dawes, nel primo Ottocento si stabiliscono a Napoli, dove si organizzano in comunità dotate di propri luoghi di ritrovo quali scuole e club371.

Un altro centro urbano che, fra la fine del Settecento ed i primi dell’Ottocento, registra l’arrivo di un’élite imprenditoriale è Milano dove si stabiliscono tessitori dalla Svizzera e banchieri ebrei da Mantova. Le opere di Germano Maifreda372 e Paolo Bernardini373 offrono un quadro preciso dell’insediamento di questi due gruppi.



Sempre verso la fine del Settecento, la Lombardia è una delle prime regioni in cui si portano avanti sistematiche indagini ufficiali per conoscere l’entità e lo spettro dei movimenti migratori. Lo studio di Rosalba Canetta sull’inchiesta del 1789 promossa dal governo austriaco ha stabilito come Como, Cremona, Lodi, Mantova e Pavia siano i principali centri urbani nei quali è più forte un flusso migratorio verso le aree esterne della Lombardia374.

Conclusioni
La rassegna storiografica fatta fino ad ora ha cercato di tracciare ed evidenziare le principali migrazioni ed i fenomeni di mobilità interni alla penisola italiana fra il 1500 ed i primi decenni del 1800. Dall’analisi emerge un quadro estremamente complesso e multiforme in cui alcune aree o centri urbani sono soggetti a flussi migratori che hanno origine nel basso medioevo. Questa eterogeneità dei fenomeni migratori ha inevitabilmente portato la storiografia a privilegiare un approccio regionale nell’ultimo decennio. Tuttavia, come si è già anticipato precedentemente, questo approccio risente dello scarso apporto fornito dai volumi enaudiani sulla storia delle singole regioni. Infatti, pochi di essi riescono a fornire un quadro completo tramite il quale si possano collegare i flussi migratori d’età moderna con quelli contemporanei. Ciò contrasta con il modello analitico regionale che invece è già stato elaborato in Spagna nella prima metà degli anni Novanta quando è stata pubblicata la collezione di saggi curata da Eiras Roel e Ofelia Rey Castelao. Quest’opera fornisce un quadro dettagliato delle migrazioni interne avvenute nelle regioni spagnole fra il 1500 ed il 1900375. Un’altra grave lacuna di cui soffre la storiografia migratoria italiana è la mancanza di una guida archivistica che possa fornire delle indicazioni sulle fonti primarie per lo studio delle migrazioni interne in età moderna. Questo gap è stato invece in parte colmato dalla storiografia migratoria francese che fra il 1993 ed il 1999 ha realizzato due guide di ricerca sulla documentazione, conservata in archivi pubblici e privati, relativa allo studio dell’immigrazione in Francia nel periodo che va dal XVI al XX secolo376.

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