Ana səhifə

In principio dio creò IL cielo e la terra leggere IL Libro della Genesi


Yüklə 234.5 Kb.
səhifə7/13
tarix26.06.2016
ölçüsü234.5 Kb.
1   2   3   4   5   6   7   8   9   10   ...   13

Commento (per i catechisti)


Il cap 3 è un testo tra i più noti e più travisati della tradizione cristiana. Chi non ha sentito parlare della “mela” mangiata da Eva e del peccato che avrebbe dato origine a tutti i guai possibili e immaginabili che hanno colpito l’umanità? Occorre fare molta attenzione; una lettura attenta ci aiuterà a scoprire, magari con nostra sorpresa, come il testo non parla né di mele, né di sesso, né di colpe che si ripercuotono sui figli. Non dobbiamo dimenticare che i capitoli 2 e 3 della Genesi formano un tutto ben compatto. Non è legittimo leggere il racconto del peccato dimenticandoci che prima ci è stato narrato il progetto positivo di Dio sull’uomo e sulla coppia (Gen 2, ma anche Gen 1!). Per troppo tempo la tradizione cristiana, insistendo sul tema del “peccato originale” ha trascurato il fatto che il testo genesiaco insiste sul progetto di Dio, descritto in Gen 2, che nessun peccato dell’uomo è capace di frantumare. Al centro del testo c’è una domanda che l’uomo si è sempre posto: perché il male?

Il testo del capitolo 3 si apre presentandoci la figura del serpente, descritto come “la più astuta delle bestie selvatiche create dal Signore Dio”. Ma chi è questo serpente? Il diavolo, risponderanno in molti, abituati come siamo a vedere le statue della Madonna con il serpente sotto i piedi. In realtà, l’identificazione tra il serpente di Gen 3 e il diavolo è tardiva e si trova soltanto nel libro della Sapienza (Sap 2,24) scritto alla fine del I sec. a.C., e nel capitolo 12 dell’Apocalisse, nel Nuovo Testamento. Nel testo genesiaco non c’è alcun cenno diretto al fatto che il serpente sia il diavolo. L’uso del serpente era presente in alcuni racconti dell’epoca, in particolare in un celebre mito del tempo, l’eroe che ne è il protagonista, Ghilgamesh, si reca nel giardino degli dèi in cerca dell’albero della vita, ma un serpente gli impedisce di cogliere il frutto dell’albero, perché la vita è riservata agli dèi, mentre per gli uomini è decretata solo la morte. Il serpente è un animale misterioso e pericoloso, appare come una potenza ostile all’uomo. Nel racconto della Genesi, invece, l’uomo può mangiare dell’albero della vita; il serpente non è alleato degli dèi, ma è chiaramente nemico di Dio e spinge l’uomo verso il secondo albero, quello della conoscenza del bene e del male. Il serpente è connesso nel mondo del tempo con la magia e con la religiosità cananaica; può rappresentare perciò la tentazione dell’idolatria. Infine, introducendo la figura del serpente, il narratore ci vuol suggerire che l’origine del male non è da vedersi in una fatalità o in un capriccio divino, ma nasce dal peccato degli uomini; allo stesso tempo c’è un mistero del male che è più grande degli uomini stessi e ne supera la comprensione; ecco l’ambiguità della figura del serpente ed ecco il motivo per cui la successiva tradizione ebraica e cristiana vi vedrà la figura del diavolo.

Il serpente si dimostra davvero astuto e, parlando alla donna, fa nascere in lei il sospetto che Dio sia un bugiardo, che vuole togliere all’uomo la sua libertà; ottiene questo risultato combinando mezze verità con abili modifiche al discorso divino. Intanto, scompare il nome di Dio, “Signore”; poi il serpente vuol far credere alla donna che dietro una apparente concessione (ciò che Dio ha detto all’uomo in Gen 2,16-17) è nascosto un reale divieto: Dio, in realtà, non vuole che gli uomini mangino gli alberi del suo giardino. Il serpente è un astuto maestro del sospetto: Dio odia la sua creatura e fa soltanto finta di lasciarla libera. In realtà è geloso del fatto che l’uomo possa diventare simile a lui! La donna, da parte sua, cade nella trappola, proprio nel momento in cui si illude di poter difendere Dio: anche lei non lo chiama più per nome (“Signore”) e si permette di modificarne le parole. Infatti sappiamo che non è vero che Dio abbia posto un divieto sull’albero che sta “in mezzo al giardino”; alla luce di Gen 2,8-9 quest’albero “in mezzo al giardino” è in realtà l’albero della vita e di quest’albero l’uomo può mangiare! La donna sta confondendo i due alberi e pone “in mezzo al giardino” l’albero della conoscenza del bene e del male; inoltre, Dio non ha detto che quest’albero non può essere “toccato”, ma soltanto che non è possibile mangiarne i frutti. La donna è in realtà caduta nella trappola del serpente e inizia a vedere Dio come un ostacolo alla propria libertà.

Di fronte alla risposta della donna, il serpente torna alla carica: Dio mente, “voi non morirete affatto”. Nelle parole del serpente appaiono i desideri più grandi che l’uomo si è sempre illuso di realizzare: la vita per sempre (“non morirete affatto!”), il mettersi al posto di Dio (“sarete come Dio”) e il sapere tutto (“i vostri occhi si apriranno”), decidendo da soli della propria felicità (“conoscerete il bene e il male”). Qui sta la vera radice di ogni peccato dell’uomo: il desiderio di realizzare se stesso al di fuori di un rapporto con Dio, sentito come un limite alla propria libertà. Non si tratta tanto di disubbidienza, quanto del rifiuto di una libertà che trova in Dio il proprio significato. E per di più, alla luce di Gen 1,26, il testo è persino ironico: l’uomo, infatti, è già come Dio, è creato a sua immagine e a sua somiglianza. Il serpente è riuscito nel suo intento e la donna mangia così il frutto proibito, offrendolo poi all’uomo.

Il v. 7 ci descrive la prima conseguenza del peccato, che è certamente una sorpresa: la scoperta della propria nudità. Eppure l’uomo e la donna erano già nudi (Gen 2,24), ciò di cui essi si accorgono è che adesso, dopo aver distrutto il rapporto con Dio, l’altro ci mette paura e non si è più in grado di accettarlo così com’è, nella sua povertà e nella sua umanità. La stessa sessualità assume un volto negativo e l’uomo cerca di nascondersi usando la propria abilità tecnica: cucirsi della foglie di fico. Il serpente aveva ragione; gli occhi dei due si sono aperti, ma la scoperta è terribile: l’altro è diventato un nemico dal quale nascondersi.

Gen 3,8-25 ci presenta prima il dialogo tra Dio e l’uomo volto alla presa di coscienza da parte dell’uomo di quanto avvenuto e poi le conseguenze del peccato commesso dall’uomo e dalla donna: dopo la colpa, l’essere umano è una creatura ferita nella sua relazione con Dio, con l’altro, con il mondo.

Il vs 8 ci presenta il Signore come una presenza familiare, che cammina nel giardino alla brezza del giorno, ma il giardino non è più un luogo di incontro, ma è adesso un luogo che incute paura. Di fronte alla fuga dell’uomo, Dio non lancia accuse, ma cerca di porre l’essere umano di fronte alle proprie responsabilità: “dove sei?”, cioè “dove sei arrivato? Che cosa vorresti fare, adesso?”. Dio offre all’uomo la possibilità di riconoscersi colpevole, ma l’uomo riesce a confessare soltanto la propria paura. Dio continua a venire incontro all’uomo: “che hai fatto?”; ma l’uomo non raccoglie questo ulteriore invito e risponde contrattaccando: è stata “ la donna che tu mi hai posto accanto”! In altre parole: io non ne ho colpa e, in fondo, è tutta colpa tua. Qui sta la vera gravità del peccato dell’uomo: il rifiuto di riconoscersi colpevole, di assumersi le proprie responsabilità. La stessa cosa fa la donna, scaricando la sua colpa sul serpente, ma quest’ultimo non viene interrogato da Dio.

Perché allora il mondo contiene oggi tanta sofferenza e tanto dolore? La risposta a questa domanda è cercata dall’autore di queste pagine attraverso la storia della condanna del serpente, della donna, dell’uomo. Il peccato ha introdotto nel mondo una disarmonia che non era stata voluta da Dio. Il serpente viene maledetto cioè separato dal mondo di Dio, cioè dalla vita, ne viene dichiarato il fallimento e la rovina. L’umanità (ossia la stirpe della donna) sarà sempre in lotta con il serpente. Viene poi ricordata la sentenza contro la donna, colpita nel suo essere moglie e madre: i dolori del parto e la sua condizione di inferiorità rispetto all’uomo. Allo stesso modo, ai vv. 17-18, l’uomo viene colpito nel suo essere lavoratore. Il “coltivare e custodire” il giardino (Gen 2,15) non è più vissuto in un rapporto di comunione con il creato; l’aver voluto “mangiare” il frutto dell’albero, l’aver preteso di dominare sulla realtà, ha frantumato il rapporto con la natura, che ora si ribella e si rivela ostile all’uomo. Il lavoro non è affatto una condanna; lo è ciò che il lavoro può diventare quando l’uomo crede di poter sfruttare il creato. Infine, il richiamo alla condizione mortale: “polvere sei e polvere ritornerai”. E’ cambiato anche il rapporto dell’uomo con la morte, che d’ora in poi assume un aspetto tragico e diviene non più il passaggio a un’altra vita, bensì il segno del proprio limite invalicabile di creatura.

Sorprendentemente, la scena della condanna si chiude con due piccole note di speranza. In primo luogo, il nome dato alla donna, in ebraico hawwah, Eva, dal verbo ebraico hayah, “vivere”. Inoltre, Dio non caccia l’uomo dal giardino nudo e quindi privato della sua dignità. Lo riveste di tuniche di pelli, segno cioè di una nuova dignità donata all’uomo dalla tenerezza divina. Questa storia ci aiuta perciò a valorizzare i piccoli segni di speranza che Dio dissemina sul nostro cammino.

Il racconto si conclude con l’aiuto di un linguaggio mitico (v. la figura dei “cherubini”), con la cacciata dell’uomo dal giardino: l’uomo ha preteso di essere uguale a Dio; la morte fisica sarà d’ora in poi sperimentata come una rottura, un dramma che separa l’uomo da Dio.


1   2   3   4   5   6   7   8   9   10   ...   13


Verilənlər bazası müəlliflik hüququ ilə müdafiə olunur ©atelim.com 2016
rəhbərliyinə müraciət