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In principio dio creò IL cielo e la terra leggere IL Libro della Genesi


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Commento (per i catechisti)


In Gen 2,4b-25 troviamo un secondo racconto della creazione, ben diverso, nello stile e nel contenuto, da quello di Gen 1,1-2,4a. I due racconti, in realtà, sono entrambi necessari: Gen 1, infatti, ri­sponde alle domande degli ebrei che si chiedono perché il mondo è fatto così, da dove viene e chi lo ha creato. Gen 2-3, invece, risponde piuttosto ad altre domande: chi è l’uomo? Perché l’essere umano esiste come maschio e femmina? Qual è il senso della coppia umana? Perché nel mondo c’è il male? Nasce per spiegare come mai questa logica (dono di Dio - peccato dell’uomo - perdono) è sempre stata presente nella storia. Fin dalle origini del mondo Dio ha offerto all’uomo la salvezza, lo ha creato e lo ha posto in una situazione ideale (il giardino dell’Eden); ma l’uomo si è chiuso di fronte ai doni di Dio, lo ha abbandonato e ha sperimentato così le conseguenze del peccato, ma, allo stesso tempo, anche il perdono del Signore. Così il testo di Gen 2,4b-25 rappresenta la parte positiva, l’azione di Dio e il suo progetto a favore dell’umanità; Gen 3, invece, la parte negativa, la risposta dell’uomo e la conseguente azione di Dio che allo stesso tempo educa e offre la sua grazia. Nel momento stesso in cui la storia umana sembra avviata al fallimento, quando l’uomo scopre la realtà del suo essere peccatore, Dio dimostra la sua misericordia.

Nei versetti 4b-17 il narratore intende descrivere l’azione di Dio, con sette verbi (plasmò, soffiò, piantò, vi collocò, fece germogliare, prese, pose) che indicano la pienezza dell’agire divino; il culmine dell’azione di Dio è però nella parola che egli rivolge all’uomo, l’ottavo verbo della serie: diede questo comando (v. 16). Prima dell’intervento di Dio, la terra è vuota e arida; manca l’acqua e manca l’uomo, che possa coltivare la terra. Al v. 7 la creazione dell’uomo è descritta in modo suggestivo: il Signore Dio plasmò (è il verbo del vasaio) l’essere umano con polvere dal suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente; l’uomo è una creatura fragile, modellata con la polvere dalle mani sapienti di Dio, così come egli vuole. E’ legato alla terra, come suggerisce il suo nome, ha’adam, in rapporto al termine “suolo” (ebraico ’adamâh). ha’adam non significa “Adamo”, ma “l’essere umano”, ovvero l’umanità in generale (in ebraico ha è l’articolo, “il”, che mai si mette davanti ai nomi propri).

Dio colloca l’uomo che ha plasmato in un giardino, laddove l’uomo potrà vivere in comunione con Dio, con l’altro uomo, con la natura. Tra i tanti alberi che sono nel giardino e che sono dati all’uomo, due alberi avranno una parte importante nella storia: il primo è l’albero della vita, che sta in mezzo al giardino, di cui l’uomo può mangiare; il secondo è l’albero della conoscenza del bene e del male, che rappresenta la libertà morale, la capacità di decidere da soli che cosa è bene e che cosa è male. Il fatto che l’uomo non possa mangiare il frutto di quest’albero ci ricorda che solo Dio è in grado di decidere che cosa è bene e che cosa è male e che la libertà non consiste nell’arrogarsi, da parte dell’uomo, una totale autonomia morale che escluda Dio dal suo orizzonte. L’uomo creato da Dio è posto nel giardino “per lavorarlo e custodirlo”. Dunque la vocazione dell’uomo è il lavoro; lavorare non è una condanna caduta sull’uomo dopo il suo peccato, ma uno dei fini per il quale l’uomo è posto nel giardino: collaborare all’opera della creazione. Il verbo “lavorare” nella lingua ebraica indica anche il “servire” Dio nel culto; mentre “custodire”, alla lettera “fare la guardia”, indica il “custodire i precetti di Dio”.

I vv. 16-17 contengono la prima istruzione che Dio dà all’uomo; egli ha a disposizione “tutti gli alberi del giardino”, compreso quello della vita. L’unico limite della libertà dell’uomo, infatti, è Dio stesso. Mangiare il frutto del secondo albero (v. 17), quello della conoscenza del bene e del male significa arrogarsi il diritto di mettersi al posto di Dio, eliminare di fatto Dio dalla propria vita, credendo di poter decidere da soli ciò che è bene e ciò che è male. Il testo non dice: “se tu mangerai quel frutto io ti farò morire”, ma “se tu mangerai quel frutto certamente morirai”! Morire non rinvia qui alla morte fisica, ma all’aver distrutto la propria esistenza. L’uomo, senza Dio, è ormai lontano dalla vita e può trovare, al termine del suo percorso, soltanto la rovina.

Il racconto della creazione della donna inizia con la descrizione del progetto di Dio sull’uomo: “non è bene che l’uomo sia solo”. L’uomo è stato creato per vivere insieme ad altri uomini, per dialogare con qualcuno diverso da sé, per trovare “un aiuto che stia di fronte a lui” (come dice letteralmente il testo). Il termine “aiuto” indica qualcosa senza il quale non si può vivere; un aiuto che sta “di fronte” all’uomo, per far capire che è posta sul suo stesso piano, né superiore né inferiore a lui. L’uomo e la donna sono allora due “tu” collocati da Dio allo stesso livello e destinati alla vita in comune. La scenetta relativa a Dio che porta davanti all’uomo tutti gli animali ha un significato preciso; si vuol far capire che l’uomo è realmente collaboratore di Dio nel creato (“dà il nome” agli animali) e che gli animali non bastano per completare la solitudine dell’uomo. “Dare il nome” nella Bibbia vuol dire indicae una identità, un ruolo, una funzione.

Dio agisce poi creando la donna; la “costruisce” utilizzando una delle costole dell’uomo. Questa curiosa immagine richiede un’attenta interpretazione, per non rischiare di definire la donna come un derivato dell’uomo, una sorta di sottoprodotto della creazione, come talora si è pensato. In realtà, la creazione della donna dalla costola ha forse dietro di sé l’eco di un mito del tempo, il mito sumerico nel quale si narra della dea Nin-ti, la “signora della costola” ovvero la “signora della vita”, dato che il termine ti significa sia “costola” sia “vita”. La costola, dunque, è simbolo di vita. La donna è così strettamente connessa con la vita, della quale è portatrice, ed è in un profondo rapporto con l’uomo.

Dio “la conduce all’uomo”. Non è l’uomo a incontrare la donna, né la donna a conquistare l’uomo; è invece Dio a far incontrare i due sessi. In questo modo il testo vuole sottolineare, una volta di più, come dietro al mistero della sessualità vi sia l’opera del Signore. L’essere coppia è, per usare un linguaggio per noi più chiaro, una vera vocazione all’amore.

Di fronte alla donna appena creata l’uomo esplode in un canto di lode: “Questa, questa volta, osso dalle mie ossa, carne dalla mia carne! Questa sarà chiamata donna (in ebraico ’ishah) perché dall’uomo (’ish) è stata tratta, questa!” (traduzione letterale, più corretta). Nella frase dell’uomo c’è il riconoscimento della pari dignità della donna; “osso dalle mie ossa e carne dalla mia carne” significa prima di tutto affermare una stretta relazione di parentela e di comunione reciproca; in secondo luogo, tenendo conto che le ossa simboleggiano la forza e la carne la debolezza, il testo ci vuole suggerire che la donna partecipa della stessa debolezza e della stessa forza dell’uomo. Solo di fronte all’altro sesso l’uomo scopre la sua vera identità. Per la prima volta, nel testo genesiaco l’essere umano (’adam) viene chiamato “uomo/maschio” (’ish) e l’altro sesso, invece, “donna” (’ishah). Il gioco di parole è in italiano intraducibile, ma è molto chiaro in ebraico: i due termini ebraici, ’ish e ’ishah, sono popolarmente sentiti come se fossero lo stesso nome, al maschile e al femminile, come se in italiano dicessimo “uomo” e “uoma”, oppure “donno” e “donna”!

Il vs 24 è molto importante. Infatti, secondo l’uso ebraico non è l’uomo a lasciare il padre e la madre, ma è la donna che abbandona la famiglia d’origine per entrare in quella del marito. Qui viene chiesto il contrario: non c’è coppia se prima non c’è stato un movimento di distacco da tutto ciò che sembra intoccabile, com’è, per l’uomo di quel tempo, la relazione con la famiglia d’origine. Inoltre, i due saranno “una carne sola”. Il testo non intende direttamente, come potrebbe sembrare, né l’unione sessuale né il suo frutto, i figli. La “carne”, nell’ottica della Bibbia ebraica, è la persona stessa vista nella sua dimensione corporea e nella sua relazione con gli altri, ciò che noi chiameremmo piuttosto il “corpo”. Il fine della coppia, allora, è formare un corpo solo, una sola realtà.

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