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Il nome della rosa


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« E allora? »

« E allora pensa se non sia più... come dire?... meno dispendioso per la nostra mente pensare che Adelmo, per ragioni ancora da appurare, si sia gettato sponte sua dal parapetto del muro, sia rimbalzato sulle rocce e, morto o ferito che fosse, sia precipitato nello strame. Poi la frana, dovuta all’uragano di quella sera, ha fatto scivolare e lo strame e parte del terreno e il corpo del poveretto sotto il torrione orientale. »

« Perché dite che è una soluzione meno dispendiosa per la nostra mente? »

« Caro Adso, non occorre moltiplicare le spiegazioni e le cause senza che se ne abbia una stretta necessità. Se Adelmo è caduto dal torrione orientale bisogna che sia penetrato in biblioteca, che qualcuno lo abbia colpito prima perché non opponesse resistenza, che abbia trovato il modo di salire con un corpo esanime sulle spalle sino alla finestra, che l’abbia aperta e abbia precipitato giù lo sciagurato. Con la mia ipotesi ci bastano invece Adelmo, la sua volontà, e una frana. Tutto si spiega utilizzando un minor numero di cause. »

« Ma perché si sarebbe ucciso? »

« Ma perché lo avrebbero ucciso? In ogni caso occorre trovare delle ragioni. E che ce ne siano mi sembra indubbio. Nell’Edificio si respira aria di reticenza, tutti ci tacciono qualcosa. Per intanto abbiamo già raccolto alcune insinuazioni, assai vaghe in verità, su qualche strano rapporto che intercorreva tra Adelmo e Berengario. Vuol dire che terremo d’occhio l’aiuto bibliotecario. »

Mentre così si parlava, l’ufficio dei vespri era terminato. I servi tornavano alle loro mansioni prima di ritirarsi per la cena, i monaci si avviavano al refettorio. Il cielo era ormai buio e stava iniziando a nevicare. Una neve leggera, a piccoli fiocchi soffici, che avrebbe continuato, credo, per gran parte della notte, perché il mattino seguente tutto il pianoro sarebbe stato coperto da una coltre candida, come dirò.

Io avevo fame e accolsi con sollievo l’idea di andare a mensa.

Compieta.

Dove Guglielmo e Adso godono della lieta ospitalità dell’Abate e della corrucciata conversazione di Jorge.
Il refettorio era illuminato da grandi torce. I monaci sedevano lungo una fila di tavole, dominata dal tavolo dell’Abate, posto perpendicolarmente a essi su una vasta pedana. Dalla parte opposta un pulpito, su cui aveva già preso posto il monaco che avrebbe fatto la lettura durante la cena. L’Abate ci attendeva presso una fontanella con un panno bianco per asciugarci le mani dopo il lavabo, giusta i consigli antichissimi di san Pacomio.

L’Abate invitò Guglielmo alla sua tavola e disse che per quella sera, dato che ero anch’io ospite fresco, avrei goduto dello stesso privilegio, anche se ero un novizio benedettino. I giorni seguenti, mi disse paternamente, avrei potuto sedermi a tavola coi monaci, o se il mio maestro mi avesse affidato qualche incarico, passare prima o dopo i pasti in cucina, dove i cuochi si sarebbero presi cura di me.

I monaci stavano ora in piedi ai tavoli, immobili col cappuccio abbassato sul viso e le mani sotto lo scapolare. L’Abate si appressò alla sua tavola e pronunciò il « Benedicite ». Il cantore dal pulpito intonò « Edent pauperes ». L’Abate diede la sua benedizione e ciascuno si sedette.

La regola del nostro fondatore prevede un desinare assai parco, ma lascia all’Abate decidere di quanto cibo abbiano effettivamente bisogno i monaci. D’altra parte ormai nelle nostre abbazie si indulge maggiormente ai piaceri della tavola. Non parlo di quelle che, purtroppo, si sono trasformate in covi di ghiottoni; ma anche quelle ispirate a criteri di penitenza e di virtù forniscono ai monaci, intenti quasi sempre a gravosi lavori dell’intelletto, un nutrimento non molle ma robusto. D’altro canto la mensa dell’Abate è sempre privilegiata, anche perché non di rado vi seggono degli ospiti di riguardo, e le abbazie sono orgogliose dei prodotti della loro terra e delle loro stalle, e della perizia dei loro cucinieri.

Il pasto dei monaci si svolse in silenzio, come di costume, gli uni comunicando agli altri con il nostro consueto alfabeto delle dita. I novizi e i monaci più giovani venivano serviti per primi, subito dopo che i piatti destinati a tutti erano passati dalla mensa dell’Abate.

Alla tavola dell’Abate sedevano con noi Malachia, il cellario e i due monaci più anziani, Jorge da Burgos, il vegliardo cieco che avevo già conosciuto nello scriptorium e il vecchissimo Alinardo da Grottaferrata: quasi centenario, claudicante e d’aspetto fragile, e — mi parve — assente di spirito. Ci disse di lui l’Abate che, novizio già in quella abbazia, sempre vi aveva vissuto e ne ricordava almeno ottant’anni di vicende. L’Abate ci disse queste cose sottovoce all’inizio, perché in seguito ci si attenne all’uso del nostro ordine e si seguì in silenzio la lettura. Ma, come dissi, alla tavola dell’Abate ci si prendevano alcune licenze, e ci avvenne di lodare i piatti che ci furono offerti, mentre l’Abate celebrava le qualità del suo olio, o del suo vino. Anzi una volta, mescendoci da bere, ci ricordò quei brani della regola in cui il santo fondatore aveva osservato che certo il vino non conviene ai monaci, ma poiché non si possono persuadere i monaci dei tempi nostri a non bere, che almeno non bevano sino alla sazietà, perché il vino spinge all’apostasia anche i saggi, come ricorda l’Ecclesiastico. Benedetto diceva « ai tempi nostri » e si riferiva ai suoi, ormai lontanissimi: figuriamoci ai tempi in cui cenavamo all’abbazia, dopo tanto decadimento di costumi (e non parlo dei tempi miei, in cui ora scrivo, se non che qui a Melk si indulge maggiormente alla birra!): insomma, si bevette senza esagerare ma non senza gusto.

Mangiammo carni allo spiedo, dei maiali appena uccisi, e mi avvidi che per altri cibi non si usava grasso di animali né olio di ravizzone, ma del buon olio d’oliva, che veniva da terreni che l’abbazia possedeva a piedi del monte verso il mare. L’Abate ci fece gustare (riservato alla sua mensa) quel pollo che avevo visto preparare in cucina. Notai che, cosa assai rara, egli disponeva anche di una forchetta di metallo, che nella forma mi ricordava le lenti del mio maestro: uomo di nobile estrazione il nostro ospite non voleva lordarsi le mani col cibo, e ci offrì anzi il suo strumento almeno per prendere le carni dal piatto grande e porle nelle nostre ciotole. Io rifiutai, ma vidi che Guglielmo accettò di buon grado e si servì con disinvoltura di quell’arnese da signori, forse per non provare all’Abate che i francescani erano persone di scarsa educazione e di estrazione umilissima.

Entusiasta com’ero per tutti quei buoni cibi (dopo alcuni giorni di viaggio in cui ci eravamo nutriti come potevamo), mi ero distratto dal corso della lettura che intanto devotamente proseguiva. Vi fui richiamato da un vigoroso grugnito d’assenso di Jorge, e mi avvidi che si era al punto in cui veniva sempre letto un capitolo della Regola. Mi resi conto del perché Jorge fosse tanto soddisfatto, dopo averlo ascoltato nel pomeriggio. Diceva infatti il lettore: « Imitiamo l’esempio del profeta che dice: ho deciso, veglierò sul mio cammino per non peccare con la mia lingua, ho posto un bavaglio alla mia bocca, sono ammutolito umiliandomi, mi sono astenuto dal parlare anche di cose oneste. E se in questo passo il profeta ci insegna che talvolta per amore del silenzio ci si dovrebbe astenere persino dai discorsi leciti, quanto di più dobbiamo astenerci dai discorsi illeciti per evitare la pena di questo peccato! » E poi proseguiva: « Ma le volgarità, le scempiaggini e le buffonerie noi le condanniamo alla reclusione perpetua, in ogni luogo, e non permettiamo che il discepolo apra la bocca per fare discorsi di tal fatta. »

« E questo valga per i marginalia di cui si diceva oggi, » non si trattenne dal commentare Jorge a bassa voce. « Giovanni Boccadoro ha detto che Cristo non ha mai riso. »

« Nulla nella sua natura umana lo vietava, » osservò Guglielmo, « perché il riso, come insegnano i teologi, è proprio dell’uomo. »

« Forte potuit sed non legitur eo usus fuisse, » disse recisamente Jorge, citando Pietro Cantore.

« Manduca, jam coctum est, » sussurrò Guglielmo.

« Cosa? » chiese Jorge, che credeva che egli alludesse a qualche cibo che gli veniva porto.

« Sono le parole che secondo Ambrogio furono pronunziate da san Lorenzo sulla graticola, quando invitò i carnefici a girarlo dall’altra parte, come ricorda anche Prudenzio nel ’Peristephanon’, » disse Guglielmo con l’aria di un santo. « San Lorenzo sapeva dunque ridere e dir cose ridicole, sia pure per umiliare i propri nemici. »

« Il che dimostra che il riso è cosa assai vicina alla morte e alla corruzione del corpo, » ribatté in un ringhio Jorge, e devo ammettere che si comportò da buon loico.

A quel punto l’Abate ci invitò bonariamente al silenzio. La cena peraltro stava terminando. L’Abate si alzò e presentò Guglielmo ai monaci. Ne lodò la saggezza, ne palesò la fama, e avverti che era stato pregato di investigare sulla morte di Adelmo, invitando i monaci a rispondere alle sue domande e ad avvertire i loro sottoposti, per tutta l’abbazia, a fare altrettanto. E a facilitargli le ricerche, purché, aggiunse, le sue richieste non contravvenissero alle regole del monastero. Nel qual caso si sarebbe dovuto ricorrere alla sua autorizzazione.

Finita la cena i monaci si disposero ad avviarsi al coro per l’ufficio di compieta. Si calarono di nuovo il cappuccio sul viso e si allinearono davanti alla porta, in stazione. Poi si mossero in lunga fila, attraversando il cimitero ed entrando nel coro dal portale settentrionale.

Ci avviammo con l’Abate. « A quest’ora si chiudono le porte dell’Edificio? » domandò Guglielmo.

« Appena i servi avranno pulito il refettorio e le cucine, il bibliotecario stesso chiuderà tutte le porte, sprangandole dall’interno. »

« Dall’interno? E lui da dove esce? »

L’Abate fissò Guglielmo per un attimo, serio in volto: Certo non dorme in cucina, » disse bruscamente. E affrettò il passo.

« Bene bene, » mi sussurrò Guglielmo, « dunque esiste un’altra entrata, ma noi non la dobbiamo conoscere. » Io sorrisi tutto fiero della sua deduzione, ed egli mi rimbrottò: « E non ridere. Hai visto che entro queste mura il riso non gode di buona reputazione. »

Entrammo nel coro. Una sola lampada ardeva, su un robusto tripode di bronzo, alto come due uomini. I monaci si posero negli stalli in silenzio, mentre il lettore leggeva un passaggio di una omelia di san Gregorio.

Poi l’Abate fece un segno e il cantore intonò « Tu autem Domine miserere nobis ». L’Abate rispose « Adjutorium nostrum in nomine Domini » e tutti fecero coro con « Qui fecit coelum et terram ». Quindi iniziò il canto dei salmi: « Quando invoco rispondimi o Dio della mia giustizia; Ti ringrazierò Signore con tutto il mio cuore, Su benedite il Signore, servi tutti del Signore ». Noi non ci eravamo posti negli stalli, e ci eravamo ritratti nella navata principale. Fu di lì che scorgemmo improvvisamente Malachia emergere dal buio di una cappella laterale.

« Tieni d’occhio quel punto, » mi disse Guglielmo. « Potrebbe esserci un passaggio che porta all’Edificio. »

« Sotto il cimitero? »

« E perché no? Anzi, ripensandoci, ci dovrà essere da qualche parte un ossario, è impossibile che da secoli seppelliscano tutti i monaci in quel lembo di terra. »

« Ma volete veramente entrare di notte in biblioteca? » domandai atterrito.

« Dove ci sono i monaci defunti e i serpenti e le luci misteriose, mio buon Adso? No, ragazzo. Ci pensavo oggi, e non per curiosità ma perché mi ponevo il problema di come fosse morto Adelmo. Ora, come ti ho detto, propendo per una spiegazione più logica, e tutto sommato vorrei rispettare le usanze di questo luogo. »

« Allora perché volete sapere? »

« Perché la scienza non consiste solo nel sapere quello che si deve o si può fare, ma anche nel sapere quello che si potrebbe fare e che magari non si deve fare. Ecco perché oggi dicevo al maestro vetraio che il sapiente deve in qualche modo celare i segreti che scopre, perché altri non ne facciano cattivo uso, ma bisogna scoprirli, e questa biblioteca mi pare piuttosto un luogo dove i segreti rimangono coperti. »

Con queste parole si avviò fuori della chiesa, perché l’ufficio era terminato. Eravamo entrambi molto stanchi e andammo nella nostra cella. Io mi rannicchiai in quello che Guglielmo chiamò scherzosamente il mio « loculo » e mi addormentai subito.


SECONDO GIORNO.

Mattutino.

Dove poche ore di mistica felicità sono interrotte da un sanguinosissimo evento.


Simbolo talora del demonio, talora del Cristo risorto, nessun animale è più infido del gallo. L’ordine nostro ne conobbe di infingardi, che non cantavano al levar del sole. E d’altra parte, specie nelle giornate invernali, l’ufficio di mattutino ha luogo quando ancora la notte è piena e la natura tutta addormentata, perché il monaco deve alzarsi nell’oscurità e a lungo nell’oscurità pregare attendendo il giorno e illuminando le tenebre con la fiamma della devozione. Perciò saggiamente la consuetudine predispose dei veglianti che non si coricassero con i confratelli, ma trascorressero la notte recitando ritmicamente quel numero esatto di salmi che desse loro la misura del tempo trascorso, così che, allo scadere delle ore votate al sonno degli altri, agli altri dessero il segno della veglia.

Pertanto quella notte fummo svegliati da coloro che percorrevano il dormitorio e la casa dei pellegrini suonando una campanella, mentre uno andava di cella in cella gridando il « Benedicamus Domino » a cui ciascuno rispondeva « Deo gratias ».

Guglielmo e io ci attenemmo all’uso benedettino: in meno di mezz’ora ci apprestammo ad affrontare la nuova giornata, quindi scendemmo in coro dove i monaci attendevano prostrati a terra, recitando i primi quindici salmi, sino a che non entrarono i novizi condotti dal loro maestro. Quindi ciascuno si assise nel proprio stallo e il coro intonò « Domine labia mea aperies et os meum annuntiabit laudem tuam ». Il grido salì verso le volte della chiesa come la supplica di un fanciullo. Due monaci salirono al pulpito e diedero voce al salmo novantaquattro, « Venite exultemus », a cui seguirono gli altri prescritti. E io provai l’ardore di una fede rinnovata.

I monaci erano negli stalli, sessanta figure rese uguali dal saio e dal cappuccio, sessanta ombre a mala pena illuminate dal fuoco del gran tripode, sessanta voci intese alle lodi dell’Altissimo. E udendo questo commovente concento, vestibolo alle delizie del paradiso, mi chiesi se davvero l’abbazia fosse luogo di misteri celati, di illeciti tentativi di svelarli, e di cupe minacce. Perché essa invece ora mi appariva come ricettacolo di santi, cenacolo di virtù, reliquiario di sapienza, arca di prudenza, torre di saggezza, recinto di mansuetudine, bastione di fortezza, turibolo di santità.

Dopo sei salmi iniziò la lettura della sacra scrittura. Alcuni monaci ciondolavano per il sonno e uno dei veglianti della notte si aggirava tra gli stalli con una piccola lampada per ridestare chi si fosse addormentato. Se qualcuno veniva sorpreso in preda a sopore, per penitenza prendeva la lampada e continuava il giro di controllo. Quindi riprese il canto di altri sei salmi. Poi l’Abate diede la sua benedizione, l’ebdomadario disse le preghiere, tutti si inchinarono verso l’altare in un minuto di raccoglimento, di cui nessuno, che non abbia vissuto queste ore di mistico ardore e di intensissima pace interiore, può comprendere la dolcezza. Infine, il cappuccio di nuovo sul viso, tutti si sedettero e intonarono solennemente il « Te Deum ». Anch’io lodai il Signore perché mi aveva liberato dai miei dubbi affrancandomi dal senso di disagio in cui la prima giornata all’abbazia mi aveva gettato. Siamo esseri fragili, mi dissi, anche tra questi monaci dotti e devoti il maligno fa circolare piccole invidie, sottili inimicizie, ma si tratta di fumo che si dirada al vento impetuoso della fede, appena tutti si riuniscono nel nome del Padre e Cristo scende ancora tra loro.
Tra mattutino e laudi il monaco non torna in cella, anche se la notte è ancora fonda. I novizi seguirono il loro maestro nella sala capitolare a studiare i salmi, alcuni dei monaci restarono in chiesa ad accudire agli arredi sacri, i più passeggiarono meditando in silenzio nel chiostro, e così facemmo Guglielmo e io. I servi dormivano ancora e continuavano a dormire quando, il cielo ancora scuro, ritornammo nel coro per le laudi.

Ricominciò il canto dei salmi, e uno in particolare, di quelli previsti per il lunedì, mi ripiombò nei miei primitivi timori: « La colpa si è impadronita dell’empio, dell’intimo del suo cuore — non v’è timore di Dio negli occhi suoi — agisce con frode al suo cospetto — in modo che la sua lingua diventi odiosa. » Mi parve di cattivo presagio che la regola avesse prescritto proprio per quel giorno un ammonimento così terribile. Né calmò i miei palpiti di inquietudine, dopo i salmi di lode, la consueta lettura dell’Apocalisse, e mi tornarono alla mente le figure del portale che mi avevano tanto soggiogato il cuore e lo sguardo il giorno prima. Ma dopo il responsorio, l’inno e il versetto, quando stava iniziando il cantico del vangelo, scorsi dietro alle finestre del coro, proprio sopra all’altare, un chiarore pallido che già faceva rilucere le vetrate dei loro diversi colori, sino ad allora mortificati dalla tenebra. Non era ancora l’aurora, che avrebbe trionfato durante prima, proprio mentre avremmo cantato « Deus qui est sanctorum splendor mirabilis » e « Iam lucis orto sidere ». Era appena il primo flebile annuncio dell’alba invernale, ma fu abbastanza, e fu abbastanza a rinfrancarmi il cuore la lieve penombra che nella navata ora stava sostituendo il buio notturno.

Cantavamo le parole del libro divino e, mentre testimoniavamo del verbo venuto a illuminare le genti, mi parve che l’astro diurno in tutto il suo fulgore stesse invadendo il tempio. La luce, ancora assente, mi parve rilucere nelle parole del cantico, giglio mistico che si schiudeva odoroso tra le crociere delle volte. « Grazie o Signore per questo momento di gaudio inenarrabile, » pregai silenziosamente, e dissi al mio cuore « e tu stolto di che temi? »

All’improvviso alcuni clamori si levavano dalla parte del portale settentrionale. Mi domandai come mai i servi, preparandosi al lavoro, disturbassero così le sacre funzioni. In quel punto entrarono tre porcai, col terrore sul viso, e si appressarono all’Abate sussurrandogli qualcosa. L’Abate dapprima li calmò con un gesto, come se non volesse interrompere l’ufficio: ma altri servi entrarono, le grida si fecero più forti: « E’ un uomo, un uomo morto! » diceva qualcuno, e altri: « Un monaco, non hai visto i calzari? »

Gli oranti tacquero, l’Abate uscì precipitosamente, facendo cenno al cellario che lo seguisse. Guglielmo andò dietro a loro, ma ormai anche gli altri monaci abbandonavano i loro stalli e si precipitavano fuori.

Il cielo era ora chiaro, e la neve per terra rendeva ancora più luminoso il pianoro. Sul retro del coro, davanti agli stabbi, dove dal giorno innanzi troneggiava il grande recipiente col sangue dei maiali, uno strano oggetto di forma quasi cruciforme spuntava dal bordo dell’orcio, come fossero due pali infitti al suolo, da ricoprire di stracci per spaventare gli uccelli.

Erano invece due gambe umane, le gambe di un uomo ficcato a testa in giù nel vaso di sangue.
L’Abate ordinò che si traesse dal liquido infame il cadavere (perché purtroppo nessuna persona viva avrebbe potuto restare in quella oscena posizione). I porcai esitanti si appressarono al bordo e bruttandosi di sangue ne trassero la povera cosa sanguinolenta. Come mi era stato detto, rimestato a dovere subito dopo esser stato versato, e lasciato al freddo, il sangue non si era raggrumato, ma lo strato che ricopriva il cadavere tendeva ora a solidificarsi, ne inzuppava le vesti, ne rendeva il volto irriconoscibile. Si appressò un servo con un secchio di acqua e ne gettò sul volto a quella misera spoglia. Qualcun altro si chinò con un panno a pulirne i lineamenti. E apparve ai nostri occhi il volto bianco di Venanzio da Salvemec, il sapiente di cose greche con cui avevamo discorso nel pomeriggio davanti ai codici di Adelmo.

« Forse Adelmo si è suicidato, » disse Guglielmo fissando quel volto, « ma non certo costui, né si può pensare che si sia issato per accidente sino al bordo dell’orcio e sia caduto per errore. »

L’Abate gli si appressò: « Frate Guglielmo, come vedete qualcosa accade all’abbazia, qualcosa che richiede tutta la vostra saggezza. Ma vi scongiuro, agite presto! »

« Era presente in coro durante l’ufficio? » domandò Guglielmo additando il cadavere.

« No, » disse l’Abate. « Avevo notato che il suo stallo era vuoto. »

« Nessun altro era assente? »

« Non mi pare. Non ho notato nulla. »

Guglielmo esitò prima di formulare la nuova domanda, e la fece in un sussurro, attento che gli altri non udissero: « Berengario era al suo posto? »

L’Abate lo guardò con inquieta ammirazione, quasi a significare che egli fosse colpito al vedere il mio maestro nutrire un sospetto che egli stesso aveva per un istante nutrito, ma per più comprensibili ragioni. Poi disse rapido: « C’era, sta in prima fila, quasi alla mia destra. »

« Naturalmente, » disse Guglielmo, « tutto questo non significa nulla. Non credo che nessuno per entrare in coro sia passato dietro all’abside, e quindi il cadavere poteva già essere qui da varie ore, almeno da dopo che si era andati tutti a dormire. »

« Certo, i primi servi si alzano con l’alba e per questo l’hanno scoperto solo ora. »

Guglielmo si chinò sul cadavere, come se fosse uso a trattare corpi morti. Intinse il panno che giaceva accanto nell’acqua del secchio e deterse meglio il viso di Venanzio. Frattanto gli altri monaci si affollavano spaventati, formando un cerchio vociante a cui l’Abate stava imponendo il silenzio. Tra di loro si fece strada Severino, a cui era affidata la cura dei corpi dell’abbazia, e si chinò presso il mio maestro. Io, per udire il loro dialogo, e per aiutare Guglielmo che aveva bisogno di aver un nuovo panno pulito intriso nell’acqua, mi unii a loro, superando il mio terrore e il mio disgusto.

« Hai mai visto un annegato? » chiese Guglielmo.

« Molte volte, » disse Severino. « E se indovino quello che vuoi intendere, non hanno questo volto, i loro lineamenti sono gonfi. »

« Allora l’uomo era già morto quando qualcuno lo ha buttato nella giara. »

« Perché avrebbe dovuto far questo? »

« Perché avrebbe dovuto ucciderlo? Siamo di fronte all’opera di una mente distorta. Ma ora occorre vedere se ci siano ferite o contusioni sul corpo. Propongo di portarlo nei balnea, di spogliarlo, lavarlo ed esaminarlo. Ti raggiungerò presto. »

E mentre Severino, ricevuta licenza dall’Abate, faceva trasportare il corpo dai porcai, il mio maestro chiese che i monaci fossero fatti rientrare in coro seguendo la strada da cui erano venuti, e che i servi si ritirassero nello stesso modo, in modo che lo spiazzo rimanesse deserto. L’Abate non gli chiese il perché di questo suo desiderio e lo accontentò. Rimanemmo così soli, accanto all’orcio dal quale il sangue aveva debordato durante la macabra operazione di ricupero, la neve intorno tutta rossa, sciolta in più punti dall’acqua che era stata sparsa, e una gran chiazza scura dove il cadavere era stato disteso.

« Un bel pasticcio, » disse Guglielmo accennando al gioco complesso di orme lasciato tutto intorno dai monaci e dai servi. « La neve, caro Adso, è una ammirevole pergamena sulla quale i corpi degli uomini lasciano scritture leggibilissime. Ma questo è un palinsesto mal raschiato e forse non ci leggeremo nulla di interessante. Da qui alla chiesa, è stato un gran accorrere di monaci, da qui allo stabbio e alle stalle sono venuti i servi a frotte. L’unico spazio intatto è quello che va dagli stabbi all’Edificio. Vediamo se troviamo qualcosa di interessante. »

« Ma cosa vorreste trovare? » chiesi.

« Se non si è buttato da solo nel recipiente, qualcuno ve lo ha portato, immagino già morto. E chi trasporta il corpo di un altro lascia tracce profonde nella neve. E allora cerca se trovi qui intorno delle tracce che ti paiano diverse da quelle lasciate da questi monaci vociferatori che ci hanno rovinato la nostra pergamena. »

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