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Il nome della rosa


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Il gran vecchio si fermò ansimando. E io ammirai la vivida memoria con cui, forse cieco da tanti anni, ancora rimemorava le immagini della cui turpitudine ci parlava. Tanto che sospettai che esse lo avessero molto sedotto quando le aveva viste, se sapeva descriverle ancora con tanta passione. Ma mi è sovente accaduto di trovare le rappresentazioni più seducenti del peccato proprio nelle pagine di quegli uomini di incorruttibile virtù che ne condannavano il fascino e gli effetti. Segno che questi uomini sono mossi da tale ardore di testimonianza della verità che non esitano, per amor di Dio, a conferire al male tutte le seducenze di cui si ammanta, per render meglio gli uomini edotti dei modi con cui il maligno li incanta. E di fatto le parole di Jorge mi stimolarono una gran voglia di vedere le tigri e le scimmie del chiostro, che non avevo ancora ammirato. Ma Jorge interruppe il corso dei miei pensieri perché riprese, con tono meno eccitato, a parlare.

« Nostro Signore non ha avuto bisogno di tante stoltezze per indicarci la retta via. Nulla nelle sue parabole muove al riso, o al timore. Adelmo invece, che ora piangete morto, godeva talmente delle mostruosità che miniava, che aveva perduto di vista le cose ultime di cui dovevano essere figura materiale. E ha percorso tutti, tutti dico, » e la sua voce si fece solenne e minacciosa, « i sentieri della mostruosità. Onde Dio sa punire. »

Scese un pesante silenzio sui presenti. Ardì di romperlo Venanzio da Salvemec.

« Venerabile Jorge, » disse, « la vostra virtù vi rende ingiusto. Due giorni prima che Adelmo morisse voi eravate presente a un dotto dibattito che ebbe luogo proprio qui nello scriptorium. Adelmo si preoccupava che l’arte sua, indulgendo a rappresentazioni bizzarre e fantastiche, fosse tuttavia intesa alla gloria di Dio, strumento di conoscenza delle cose celesti. Frate Guglielmo citava poco fa l’Areopagita, sulla conoscenza per difformità. E Adelmo citò quel giorno un’altra altissima autorità, quella del dottore d’Aquino, quando disse che conviene che le cose divine siano esposte più in figura di corpi vili che in figura di corpi nobili. Prima perché è più facilmente liberato l’animo umano dall’errore; è chiaro infatti che certe proprietà non possono essere attribuite alle cose divine, ciò che sarebbe dubbio se queste fossero indicate con figure di nobili cose corporee. In secondo luogo perché questo modo rappresentativo più si conviene alla conoscenza che di Dio abbiamo su questa terra: egli ci si manifesta infatti più in quello che non è che in quello che è, e perciò le similitudini di quelle cose che più si allontanano da Dio ci portano a una più esatta opinione di lui, perché così sappiamo che egli è al di sopra di ciò che diciamo e pensiamo. E in terzo luogo perché così sono meglio celate le cose di Dio alle persone indegne. Insomma, si trattava quel giorno di capire in che modo si possa scoprire la verità attraverso espressioni sorprendenti, e argute, ed enigmatiche. E io gli ricordai che nell’opera del grande Aristotele avevo trovato parole assai chiare a questo riguardo... »

« Non ricordo, » interruppe seccamente Jorge, « sono molto vecchio. Non ricordo. Posso avere ecceduto in severità. Ora è tardi, debbo andare. »

« E’ strano che non ricordiate, » insistette Venanzio, « fu una dotta e bellissima discussione, in cui intervennero anche Bencio e Berengario. Si trattava di sapere infatti se le metafore, e i giochi di parole, e gli enigmi, che pure paiono immaginati dai poeti per puro diletto, non inducano a speculare sulle cose in modo nuovo e sorprendente, e io dicevo che anche questa è una virtù che si richiede al saggio... E c’era anche Malachia... »

« Se il venerabile Jorge non ricorda, abbi rispetto per la sua età e per la stanchezza della sua mente... peraltro sempre così viva, » intervenne qualcuno dei monaci che seguivano la discussione. La frase era stata pronunziata in modo agitato almeno all’inizio, perché chi aveva parlato, accorgendosi che per invitare al rispetto del vecchio, di fatto ne metteva in luce una debolezza, aveva poi rallentato l’impeto del proprio intervento, finendo quasi in un sussurro di scusa. A parlare era stato Berengario da Arundel, l’aiuto bibliotecario. Era un giovane dal volto pallido, e osservandolo mi ricordai della definizione che Ubertino aveva dato di Adelmo: i suoi occhi parevano quelli di una donna lasciva. Intimidito dagli sguardi di tutti che ora si posavano su di lui, teneva le dita delle mani allacciate come chi voglia reprimere un’interna tensione.

Singolare fu la reazione di Venanzio. Guardò Berengario in modo tale che quello abbassò gli occhi: « Va bene fratello, » disse, « se la memoria è un dono di Dio anche la capacità di dimenticare può essere molto buona, e va rispettata. Ma la rispetto nell’anziano confratello a cui parlavo. Da te mi attendevo un ricordo più vivo intorno alle cose accadute quando stavamo qui, insieme con un tuo carissimo amico... »

Non potrei dire se Venanzio avesse calcato il tono sulla parola « carissimo ». Sta di fatto che avvertii un’atmosfera di imbarazzo tra gli astanti. Ciascuno volgeva l’occhio da una parte diversa e nessuno lo dirigeva su Berengario, che era arrossito violentemente. Intervenne subito Malachia, con autorità: « Venite, frate Guglielmo, » disse, « vi mostrerò altri libri interessanti. »

Il gruppo si sciolse. Scorsi Berengario lanciare a Venanzio uno sguardo carico di rancore, e Venanzio rispondergli del pari, con muta sfida. Io, vedendo che il vecchio Jorge si stava allontanando, mosso da un senso di rispettosa reverenza, mi chinai a baciargli la mano. Il vecchio ricevette il bacio, posò la mano sul mio capo e domandò chi fossi. Quando gli dissi il mio nome il suo volto si rischiarò.

« Porti un nome grande e bellissimo, » disse. « Sai chi fu Adso da Montier-en-Der? » domandò. Io, lo confesso, non lo sapevo. Così Jorge soggiunse: « Fu l’autore di un libro grande e tremendo, il « Libellus de Antichristo », in cui egli vide cose che sarebbero accadute, e non fu ascoltato abbastanza. »

« Il libro fu scritto prima del millennio, » disse Guglielmo. « e quelle cose non si sono avverate... »

« Per chi non ha occhi per vedere, » disse il cieco. « Le vie dell’Anticristo sono lente e tortuose. Egli arriva quando noi non lo prevediamo, e non perché il calcolo suggerito dall’apostolo fosse errato, ma perché noi non ne abbiamo appreso l’arte. » Poi gridò, ad altissima voce, il volto verso la sala, facendo rimbombare le volte dello scriptorium: « Egli sta venendo! Non perdete gli ultimi giorni ridendo sui mostriciattoli dalla pelle maculata e dalla coda ritorta! Non dissipate gli ultimi sette giorni! »

Vespri.


Dove si visita il resto dell’abbazia, Guglielmo trae alcune conclusioni sulla morte di Adelmo, si parla col fratello vetraio di vetri per leggere e di fantasmi per chi vuol leggere troppo.
A quel punto sonarono per vespro e i monaci si accinsero a lasciare i loro tavoli. Malachia ci fece capire che anche noi dovevamo andare. Egli sarebbe rimasto con il suo aiutante, Berengario, a riordinare le cose e (così si espresse) a predisporre la biblioteca per la notte. Guglielmo gli chiese se avrebbe poi chiuso le porte.

« Non ci sono porte che difendano l’accesso allo scriptorium dalla cucina e dal refettorio, né alla biblioteca dallo scriptorium. Più forte di alcuna porta deve essere l’interdetto dell’Abate. E i monaci debbono avvalersi e della cucina e del refettorio sino a compieta. A quel punto, a impedire che estranei o animali, per i quali l’interdetto non vale, possano entrare nell’Edificio, io stesso chiudo i portali da basso, che conducono e alle cucine e al refettorio, e da quell’ora l’Edificio rimane isolato. »

Scendemmo. Mentre i monaci si avviavano verso il coro il mio maestro decise che il Signore ci avrebbe perdonato se non avessimo assistito all’ufficio divino (il Signore ebbe molto a perdonarci nei giorni seguenti!) e mi propose di camminare un poco con lui per il pianoro, affinché ci familiarizzassimo con il luogo.

Uscimmo dalle cucine, attraversammo il cimitero: v’erano pietre tombali più recenti, e altre che recavano i segni del tempo, raccontando vite di monaci vissuti nei secoli passati. Le tombe erano senza nome, sormontate da croci di pietra.

Il tempo si stava guastando. Si era levato un vento freddo e il cielo si faceva caliginoso. Si indovinava un sole che tramontava dietro gli orti e già si faceva scuro verso oriente, dove ci dirigemmo, costeggiando il coro della chiesa e raggiungendo la parte posteriore del pianoro. Ivi, quasi a ridosso del muro di cinta, dove esso si saldava al torrione orientale dell’Edificio, c’erano gli stabbi e i porcai stavano ricoprendo la giara col sangue dei maiali. Notammo che dietro gli stabbi il muro di cinta era più basso, sì che vi ci si poteva affacciare. Oltre lo strapiombo delle mura, il terreno che digradava vertiginosamente al di sotto era ricoperto di una terraglia che la neve non riusciva completamente a nascondere. Mi resi conto che si trattava del deposito dello strame, che veniva gettato da quel luogo, e discendeva sino al tornante da cui si diramava il sentiero lungo il quale si era avventurato il fuggiasco Brunello. Dico strame, perché si trattava di una gran frana di materia puteolente, il cui odore arrivava sino al parapetto da cui mi affacciavo; evidentemente i contadini venivano ad attingervi dal basso onde usarne per i campi. Ma alle deiezioni degli animali e degli uomini, si mescolavano altri rifiuti solidi, tutto il rifluire di materie morte che l’abbazia espelleva dal proprio corpo, per mantenersi limpida e pura nel suo rapporto con la sommità del monte e col cielo.

Nelle stalle accanto i cavallari stavano riconducendo gli animali alla greppia. Percorremmo il cammino lungo il quale si estendevano, dalla parte del muro, le varie stalle, e a destra, a ridosso del coro, il dormitorio dei monaci, e poi le latrine. Là dove il muro orientale piegava verso meridione, all’angolo della cinta, v’era l’edificio delle fucine. Gli ultimi fabbri stavano riponendo i loro attrezzi e spegnendo i mantici, per avviarsi all’ufficio divino. Guglielmo si mosse con curiosità verso una parte delle fucine, quasi separata dal resto del laboratorio, dove un monaco stava riponendo le proprie cose. Sul suo tavolo vi era una bellissima collezione di vetri multicolori, di piccole dimensioni, ma lastre più ampie erano addossate al muro. Davanti a lui stava un reliquiario ancora incompiuto, di cui esisteva solo la carcassa in argento, ma sulla quale egli stava evidentemente incastonando vetri e altre pietre, che con i suoi strumenti aveva ridotto alle dimensioni di una gemma.

Conoscemmo così Nicola da Morimondo, maestro vetraio dell’abbazia. Ci spiegò che nella parte posteriore della fucina si soffiava anche vetro, mentre in quella anteriore, dove stavano i fabbri, si fissavano i vetri ai piombi di riunione per farne vetrate. Ma, aggiunse, la grande opera vetraria, che abbelliva la chiesa e l’Edificio, era già stata compiuta almeno due secoli addietro. Ora ci si limitava a lavori minori, o alla riparazione dei guasti del tempo.

« E con gran fatica, » aggiunse, « perché non si riesce più a trovare i colori di un tempo, specie il blu che potete ancora ammirare nel coro, di una qualità così limpida, che a sole alto riversa nella navata una luce di paradiso. I vetri della parte occidentale della navata, rifatti non molto tempo fa, non sono della stessa qualità, e lo si vede nei giorni estivi. E’ inutile, » soggiunse, « non abbiamo più la saggezza degli antichi, è finita l’epoca dei giganti! »

« Siamo nani, » ammise Guglielmo, « ma nani che stanno sulle spalle di quei giganti, e nella nostra pochezza riusciamo talora a vedere più lontano di loro sull’orizzonte. »

« Dimmi cosa facciamo meglio che essi non abbiano saputo fare! » esclamò Nicola. « Se scenderai nella cripta della chiesa dove è custodito il tesoro dell’abbazia, troverai reliquiari di una tale squisita fattura che il mostriciattolo che io sto ora miseramente costruendo, e accennò alla propria opera sul tavolo, « ti parrà scimmia di quelli! »

« Non sta scritto che i maestri vetrai debbano continuare a costruire finestre e gli orafi reliquiari, se i maestri del passato han saputo produrne di tanto belli e destinati a durare nei secoli. Altrimenti, la terra si riempirebbe di reliquiari, in un’epoca in cui i santi da cui trar reliquie sono così rari, » motteggiò Guglielmo. « Né si dovranno saldare all’infinito finestre. Ma ho visto in vari paesi opere nuove fatte col vetro che ci fan pensare a un mondo di domani in cui il vetro sia non solo al servizio degli uffici divini ma anche aiuto alla debolezza dell’uomo. Ti voglio mostrare un’opera dei giorni nostri, di cui mi onoro di possedere un utilissimo esemplare. » Mise le mani nel saio e ne trasse le sue lenti che lasciarono stupito il nostro interlocutore.

Nicola prese la forcella che Guglielmo gli porgeva con grande interesse: « Oculi de vitro cum capsula! » esclamò. « Ne avevo udito parlare da un certo fra Giordano che conobbi a Pisa! Diceva che non erano passati vent’anni da che erano stati inventati. Ma parlai con lui più di venti anni fa. »

« Credo che siano stati inventati molto prima, » disse Guglielmo, « ma sono di difficile fabbricazione, e ci vogliono maestri vetrai molto esperti. Costano tempo e lavoro. Dieci anni fa un paio di questi vitrei ab oculis ad legendum sono stati venduti a Bologna per sei soldi. Io ne ebbi un paio in dono da un grande maestro, Salvino degli Armati, più di dieci anni fa, e li ho conservati gelosamente per tutto questo tempo, come fossero — quali ormai sono — parte del mio stesso corpo. »

« Spero me li lascerai esaminare uno di questi giorni, non mi spiacerebbe produrne di simili, » disse emozionato Nicola.

« Certo, » acconsentì Guglielmo, « ma bada che lo spessore del vetro deve cambiare a seconda dell’occhio a cui si deve adattare, e bisogna tentare molte di queste lenti per provarle sul paziente, sino a che non si trova lo spessore buono. »

« Che meraviglia! » continuava Nicola. « Eppure molti parlerebbero di stregoneria e manipolazione diabolica... »

« Puoi certo parlare per queste cose di magìa, » acconsentì Guglielmo. « Ma vi sono due forme di magìa. C’è una magìa che è opera del diavolo e che mira alla rovina dell’uomo attraverso artifici di cui non è lecito parlare. Ma c’è una magìa che è opera divina, là dove la scienza di Dio si manifesta attraverso la scienza dell’uomo, che serve a trasformare la natura, e uno dei cui fini è prolungare la vita stessa dell’uomo. E questa è magia santa, a cui i sapienti dovranno sempre più dedicarsi, non solo per scoprire cose nuove ma per riscoprire tanti segreti di natura che la sapienza divina aveva rivelato agli ebrei, ai greci, ad altri popoli antichi e persino oggi agli infedeli (e non ti dico quante cose meravigliose di ottica e scienza della visione vi siano nei libri degli infedeli!). E di tutte queste conoscenze una scienza cristiana dovrà reimpossessarsi, e riprenderla ai pagani e agli infedeli tamquam ab iniustis possessoribus. »

« Ma perché coloro che posseggono questa scienza non la comunicano a tutto il popolo di Dio? »

« Perché non tutto il popolo di Dio è pronto ad accettare tanti segreti, ed è spesso accaduto che i depositari di questa scienza siano stati scambiati per maghi legati da parto col demonio, pagando con la loro vita il desiderio che avevano avuto di rendere gli altri partecipi del loro tesoro di conoscenza. Io stesso, durante processi in cui si sospettava qualcuno di commercio col demonio, ho dovuto guardarmi dall’usare queste lenti, ricorrendo a segretari volonterosi che mi leggessero le scritture di cui abbisognavo, perché altrimenti, in un momento in cui la presenza del diavolo era così invadente, e tutti ne respiravano, per così dire, l’odore di zolfo, io stesso sarei stato visto come amico degli inquisiti. E infine, avvertiva il grande Ruggiero Bacone, non sempre i segreti della scienza debbono andare nelle mani di tutti, ché alcuni potrebbero usarne per cattivi propositi. Spesso il sapiente deve far apparire come magici libri che magici non sono, ma appunto di buona scienza, per proteggerli da occhi indiscreti. »

« Tu temi dunque che i semplici possano fare cattivo uso di questi segreti? » chiese Nicola.

« Per quanto riguarda i semplici, temo solo che possano esserne terrorizzati, confondendoli con quelle opere del diavolo di cui troppo spesso parlano loro i predicatori. Vedi, mi è accaduto di conoscere medici abilissimi che avevano distillato medicamenti capaci di guarire immantinenti una malattia. Ma costoro davano il loro unguento o infuso ai semplici accompagnandolo con parole sacre e salmodiando frasi che parevano preghiere. Non perché queste preghiere avessero potere di guarire, ma perché credendo che la guarigione venisse dalle preghiere i semplici inghiottissero l’infuso o si cospargessero con l’unguento, e così guarissero, senza prestare troppa attenzione alla sua forza effettiva. E poi anche perché l’animo, bene eccitato dalla fiducia nella formula devota, si disponesse meglio all’azione corporale del medicamento. Ma spesso i tesori della scienza vanno difesi non contro i semplici bensì contro altri sapienti. Si fanno oggi macchine prodigiose, di cui un giorno ti parlerò, con cui veramente si può dirigere il corso della natura. Ma guai se esse cadessero nelle mani di uomini che le usassero per estendere il loro potere terreno e saziare la loro brama di possesso. Mi dicono che nel Cataio un saggio ha miscelato una polvere che può produrre, a contatto col fuoco, un grande rombo e una gran fiamma, distruggendo tutte le cose per braccia e braccia intorno. Mirabile artificio, se venisse usato per deviare il corso dei fiumi o frantumare la roccia là dove vi sia da dissodare il terreno. Ma se qualcuno la usasse per recar nocumento ai propri nemici? »

« Forse sarebbe bene, se fossero nemici del popolo di Dio, » disse devotamente Nicola.

« Forse, » ammise Guglielmo. « Ma chi è oggi il nemico del popolo di Dio? Ludovico imperatore o Giovanni papa? »

« Oh mio Signore! » disse tutto spaventato Nicola, « non vorrei proprio decidere da solo una cosa tanto dolorosa! »

« Vedi? » disse Guglielmo. « Talora è bene che certi segreti restino ancora coperti da discorsi occulti. I segreti della natura non si trasportano in pelli di capra o di pecora. Aristotele dice nel libro dei segreti che a comunicar troppi arcani della natura e dell’arte si infrange un sigillo celeste e che molti mali potrebbero seguirne. Il che non vuol dire che i segreti non debbano essere svelati, ma che compete ai sapienti decidere quando e come. »

« Per cui è bene che in luoghi come questo, » disse Nicola, « non tutti i libri siano alla portata di tutti. »

« Questa è un’altra storia, » disse Guglielmo. « Si può peccare per eccesso di loquacità e per eccesso di reticenza. Io non volevo dire che occorre nascondere le fonti della scienza. Questo mi pare anzi un gran male. Volevo dire che, trattando di arcani da cui può nascere sia il bene che il male, il sapiente ha diritto e dovere di usare un linguaggio oscuro, comprensibile solo ai suoi simili. La via della scienza è difficile ed è difficile distinguervi il bene dal male. E spesso i sapienti dei tempi nuovi sono solo nani sulle spalle di nani. »

L’amabile conversazione col mio maestro doveva aver posto Nicola in vena di confidenze. Pertanto ammiccò a Guglielmo (come a dire: io e te ci intendiamo perché parliamo delle stesse cose) e alluse: « Però laggiù, » e accennò all’Edificio, « i segreti della scienza sono ben difesi da opere di magìa... »

« Sì? » disse Guglielmo ostentando indifferenza. « Porte sbarrate, divieti severi, minacce, immagino.

« Oh no, di più... »

« Cosa per esempio? »

« Ecco, io non so con esattezza, io mi occupo di vetri e non di libri, ma nell’abbazia circolano storie... strane... »

« Di che genere? »

« Strane. Diciamo, di un monaco che nottetempo ha voluto avventurarsi in biblioteca, per cercare qualcosa che Malachia non aveva voluto dargli, e ha visto serpenti, uomini senza testa, e uomini con due teste. Per poco non usciva pazzo dal labirinto... »

« Perché parli di magìa e non di apparizioni diaboliche? »

« Perché anche se sono un povero maestro vetraio non sono così sprovveduto. Il diavolo (Dio ci salvi!) non tenta un monaco con serpenti e uomini bicefali. Se mai con visioni lascive, come coi padri del deserto. E poi, se è male mettere mano su certi libri, perché il diavolo dovrebbe distogliere un monaco dal commettere il male? »

« Mi sembra un buon entimema, » ammise il mio maestro.

« E infine, quando aggiustavo le vetrate nell’ospedale, mi sono divertito a sfogliare alcuni dei libri di Severino. C’era un libro di segreti scritto credo da Alberto Magno; fui attratto da alcune miniature curiose, e lessi delle pagine sul modo in cui puoi ungere lo stoppino di una lampada a olio, e i suffumigi che ne provengono procurano visioni. Avrai notato, o meglio non avrai ancora notato perché non hai ancora passato una notte all’abbazia, che durante le ore buie il piano superiore dell’Edificio è illuminato. Dalle vetrate, in certi punti, traspare una luce fievole. Molti si son chiesti cosa sia, e si è parlato di fuochi fatui, o delle anime dei bibliotecari monaci trapassati che tornano a visitare il loro regno. Molti qui ci credono. Io penso che siano lampade preparate per le visioni. Sai, se prendi il grasso dell’orecchio di un cane e ne ungi uno stoppino, chi respira il fumo di quella lampada crederà di avere una testa di cane, e se avrà qualcuno accanto lo vedrà con testa di cane. E c’è un altro unguento che fa sì che coloro che girano intorno alla lampada si sentano grandi come elefanti. E con gli occhi di un pipistrello e di due pesci di cui non ricordo il nome, e il fiele di un lupo, fai uno Stoppino che bruciando ti farà vedere gli animali di cui hai preso il grasso. E con la coda di lucertola fai vedere tutte le cose intorno come d’argento, e con il grasso di un serpente nero e un frammento di lenzuolo funebre, la stanza apparirà piena di serpenti. Io lo so. Qualcuno nella biblioteca è molto astuto... »

« Ma non potrebbero essere le anime dei bibliotecari trapassati che fanno queste magìe? »

Nicola ristette perplesso e inquieto: « A questo non avevo pensato. Può darsi. Dio ci protegga. E’ tardi, vespro è già iniziato. Addio. » E si diresse verso la chiesa.

Proseguimmo lungo il lato sud: a destra l’albergo dei pellegrini e la sala capitolare col giardino, a sinistra i frantoi, il mulino, i granai, le cantine, la casa dei novizi. E tutti che si affrettavano verso la chiesa.

« Cosa pensate di quello che ha detto Nicola? » chiesi.

« Non so. Nella biblioteca accade qualcosa, e non credo siano le anime dei bibliotecari trapassati... »

« Perché? »

« Perché immagino siano stati così virtuosi che oggi se ne stanno nel regno dei cieli a contemplare il volto della divinità, se questa risposta ti può soddisfare. Quanto alle lampade, se ci sono le vedremo. E quanto agli unguenti di cui ci parlava il nostro vetraio, ci sono modi più facili per procurare visioni, e Severino li conosce molto bene, te ne sei accorto oggi. E’ certo che nell’abbazia non si vuole che si penetri la notte in biblioteca e che molti invece hanno tentato o tentano di farlo. »

« E il nostro delitto ha a che fare con questa storia? »

« Delitto? Più ci penso e più mi convinco che Adelmo si è ucciso. »

« E perché? »

« Ti ricordi stamane quando ho notato il deposito dello strame? Mentre salivamo il tornante dominato dal torrione orientale avevo notato in quel punto i segni lasciati da una frana: ovvero, una parte di terreno, più o meno là dove si ammassa lo strame, era franata rotolando sin sotto il torrione. Ed ecco perché questa sera, quando abbiamo guardato dall’alto, lo strame ci è apparso poco coperto di neve, ovvero appena coperto dall’ultima di ieri, non da quella dei giorni scorsi. Quanto al cadavere di Adelmo, l’Abate ci ha detto che era lacerato dalle rocce, e sotto il torrione orientale, appena la costruzione finisce a strapiombo, crescono pini. Le rocce sono invece proprio nel punto in cui la parete del muro finisce, formando come una sorta di gradino, e dopo inizia la calata dello strame. »

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