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Il nome della rosa


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Rientrammo nell’Edificio e gettammo appena una occhiata al refettorio, che attraversammo per portarci verso il torrione orientale. Dei due torrioni, in cui si allargava il refettorio, il settentrionale ospitava un camino, l’altro una scala a forma di chiocciola che menava allo scriptorium, e cioè al secondo piano. Di lì i monaci si recavano ogni giorno al lavoro, oppure da due scale, meno agevoli ma ben riscaldate, che salivano a spirale dietro al camino e al forno della cucina.

Guglielmo chiese se avremmo trovato qualcuno nello scriptorium anche se era domenica. Severino sorrise e disse che il lavoro, per il monaco benedettino, è preghiera. La domenica gli uffici duravano più a lungo, ma i monaci addetti ai libri passavano ugualmente alcune ore lassù, di solito impiegate in fruttiferi scambi di osservazioni dotte, consigli, riflessioni sulle sacre scritture.

Dopo nona.

Dove si visita lo scriptorium e si conoscono molti studiosi, copisti e rubricatori nonché un vegliardo cieco che attende l’Anticristo.


Mentre salivamo vidi che il mio maestro osservava le finestre che davano luce alla scala. Stavo probabilmente diventando abile come lui, perché mi avvidi subito che la loro disposizione difficilmente avrebbe consentito a qualcuno di raggiungerle. D’altra parte neppure le finestre che si aprivano nel refettorio (le uniche che dal primo piano dessero sullo strapiombo) parevano facilmente raggiungibili, dato che sotto di esse non vi erano mobili di sorta.

Arrivati al sommo della scala entrammo, per il torrione orientale, allo scriptorium e quivi non potei trattenere un grido di ammirazione. Il secondo piano non era bipartito come quello inferiore e si offriva quindi ai miei sguardi in tutta la sua spaziosa immensità. Le volte, curve e non troppo alte (meno che in una chiesa, più tuttavia che in ogni altra sala capitolare che mai vidi), sostenute da robusti pilastri, racchiudevano uno spazio soffuso di bellissima luce, perché tre enormi finestre si aprivano su ciascun lato maggiore, mentre cinque finestre minori traforavano ciascuno dei cinque lati esterni di ciascun torrione, otto finestre alte e strette, infine, lasciavano che la luce entrasse anche dal pozzo ottagonale interno.

L’abbondanza di finestre faceva sì che la gran sala fosse allietata da una luce continua e diffusa, anche se si era in un pomeriggio d’inverno. Le vetrate non erano colorate come quelle delle chiese, e i piombi di riunione fissavano riquadri di vetro incolore, perché la luce entrasse nel modo più puro possibile, non modulata dall’arte umana, e servisse al suo scopo, che era di illuminare il lavoro della lettura e della scrittura. Vidi altre volte e in altri luoghi molti scriptoria, ma nessuno in cui così luminosamente rifulgesse, nelle colate di luce fisica che facevano risplendere l’ambiente, lo stesso principio spirituale che la luce incarna, la « claritas », fonte di ogni bellezza e sapienza, attributo inscindibile di quella proporzione che la sala manifestava. Perché tre cose concorrono a creare la bellezza: anzitutto l’integrità o perfezione, e per questo reputiamo brutte le cose incomplete; poi la debita proporzione ovvero la consonanza; e infine la clarità e la luce, e infatti chiamiamo belle le cose di colore nitido. E siccome la visione del bello comporta la pace, e per il nostro appetito è la stessa cosa acquetarsi nella pace, nel bene o nel bello, mi sentii pervaso di grande consolazione e pensai quanto dovesse essere piacevole lavorare in quel luogo.

Quale apparve ai miei occhi, in quell’ora meridiana, esso mi sembrò un gioioso opificio di sapienza. Vidi poi in seguito a San Gallo uno scriptorium di simili proporzioni, separato dalla biblioteca (in altri luoghi i monaci lavoravano nel luogo stesso dove erano custoditi i libri), ma non come questo bellamente disposto. Antiquarii, librarii, rubricatori e studiosi stavano seduti ciascuno al proprio tavolo, un tavolo sotto ciascuna delle finestre. E siccome le finestre erano quaranta (numero veramente perfetto dovuto alla decuplicazione del quadragono, come se i dieci comandamenti fossero stati magnificati dalle quattro virtù cardinali) quaranta monaci avrebbero potuto lavorare all’unisono, anche se in quel momento erano appena una trentina. Severino ci spiegò che i monaci che lavoravano allo scriptorium erano dispensati dagli uffici di terza, sesta e nona per non dover interrompere il loro lavoro nelle ore di luce, e arrestavano le loro attività solo al tramonto, per vespro.

I posti più luminosi erano riservati agli antiquarii, gli alluminatori più esperti, ai rubricatori e ai copisti. Ogni tavolo aveva tutto quanto servisse per miniare e copiare: corni da inchiostro, penne fini che alcuni monaci stavano affinando con un coltello sottile, pietrapomice per rendere liscia la pergamena, regoli per tracciare le linee su cui si sarebbe distesa la scrittura. Accanto a ogni scriba, o al culmine del piano indinato di ogni tavolo, stava un leggìo, su cui posava il codice da copiare, la pagina coperta da mascherine che inquadravano la linea che in quel momento veniva trascritta. E alcuni avevano inchiostri d’oro e di altri colori. Altri invece stavano solo leggendo libri, e trascrivevano appunti su loro privati quaderni o tavolette.

Non ebbi peraltro il tempo di osservare il loro lavoro, perché ci venne incontro il bibliotecario, che già sapevamo essere Malachia da Hildesheim. Il suo volto cercava di atteggiarsi a una espressione di benvenuto, ma non potei trattenermi dal fremere di fronte a una così singolare fisionomia. La sua figura era alta e, benché estremamente magra, le sue membra erano grandi e sgraziate. Come procedeva a grandi passi, avvolto nelle nere vesti dell’ordine, v’era qualcosa di inquietante nel suo aspetto. Il cappuccio, che venendo di fuori aveva ancora levato, gettava un’ombra sul pallore del suo volto e conferiva un non so che di doloroso ai suoi grandi occhi melanconici. Vi erano nella sua fisionomia come le tracce di molte passioni che la volontà aveva disciplinato ma che sembravano aver fissato quei lineamenti che ora avevano cessato di animare. Mestizia e severità predominavano nelle linee del suo volto e i suoi occhi erano così intensi che a un solo sguardo potevano penetrare il cuore di chi gli parlava, e leggergli i segreti pensieri, così che difficilmente si poteva tollerare la loro indagine e si era tentati di non incontrarli una seconda volta.

Il bibliotecario ci presentò a molti dei monaci che stavano in quel momento al lavoro. Di ciascuno Malachia ci disse anche il lavoro che stava compiendo e di tutti ammirai la profonda devozione al sapere e allo studio della parola divina. Conobbi così Venanzio da Salvemec, traduttore dal greco e dall’arabo, devoto di quell’Aristotele che certamente fu il più saggio di tutti gli uomini. Bencio da Upsala, un giovane monaco scandinavo che si occupava di retorica. Berengario da Arundel, l’aiuto del bibliotecario. Aymaro da Alessandria, che stava ricopiando opere che solo per pochi mesi sarebbero state in prestito alla biblioteca, e poi un gruppo di miniatori di vari paesi, Patrizio da Clonmacnois, Rabano da Toledo, Magnus da Iona, Waldo da Hereford.

L’elenco potrebbe certo continuare e nulla vi è di più meraviglioso dell’elenco, strumento di mirabili ipotiposi. Ma devo venire all’argomento delle nostre discussioni, dal quale emersero molte indicazioni utili per capire la sottile inquietudine che aleggiava tra i monaci, e un non so che di inespresso che gravava su tutti i loro discorsi.

Il mio maestro iniziò a discorrere con Malachia lodando la bellezza e l’operosità dello scriptorium e chiedendogli notizie sull’andamento del lavoro che ivi si compiva perché, disse con molta accortezza, aveva udito parlare ovunque di quella biblioteca e avrebbe voluto esaminare molti dei libri. Malachia gli spiegò quello che già l’Abate aveva detto, che il monaco chiedeva al bibliotecario l’opera da consultare e questi sarebbe andato a reperirla nella biblioteca superiore, se la richiesta fosse stata giusta e pia. Guglielmo domandò come poteva conoscere il nome dei libri custoditi negli armaria soprastanti, e Malachia gli mostrò, fissato da una catenella d’oro al suo tavolo, un voluminoso codice coperto di elenchi fittissimi.

Guglielmo infilò le mani nel saio, dove esso si apriva sul petto a formare una sacca, e ne trasse un oggetto che già gli avevo visto tra le mani, e sul volto, nel corso del viaggio. Era una forcella, costruita così da potere stare sul naso di un uomo (e meglio ancora sul suo, così prominente e aquilino) come un cavaliere sta in groppa al suo cavallo o come un uccello su un trespolo. E ai due lati della forcella, in modo da corrispondere agli occhi, si espandevano due cerchi ovali di metallo, che rinserravano due mandorle di vetro spesse come fondi di bicchiere. Con quelli sugli occhi Guglielmo, di preferenza, leggeva, e diceva di vedere meglio di quanto natura lo avesse dotato, o di quanto l’età sua avanzata, specie quando declinava la luce del giorno, gli consentisse. Né gli servivano per vedere da lontano, che anzi aveva l’occhio acutissimo, ma per vedere da vicino. Con quelli egli poteva leggere manoscritti vergati in lettere sottilissime, che quasi faticavo anch’io a decifrare. Mi aveva spiegato che, giunto che fosse l’uomo oltre la metà della vita, anche se la sua vista era stata sempre ottima, l’occhio si induriva e riluttava ad adattar la pupilla, così che molti sapienti erano come morti alla lettura e alla scrittura dopo la loro cinquantesima primavera. Grave iattura per uomini che avrebbero potuto dare il meglio della loro intelligenza per molti anni ancora. Per cui si doveva lodare il Signore che qualcuno avesse scoperto e fabbricato quello strumento. E me lo diceva per sostenere le idee del suo Ruggiero Bacone, quando diceva che lo scopo della sapienza era anche prolungare la vita umana.

Gli altri monaci guardarono Guglielmo con molta curiosità, ma non ardirono porgli domande. E io mi avvidi che, anche in un luogo così gelosamente e orgogliosamente dedicato alla lettura e alla scrittura, quel mirabile strumento non era ancora penetrato. E mi sentii fiero di essere al seguito di un uomo che aveva qualcosa con cui stupire altri uomini famosi nel mondo per la loro saggezza.

Con quegli oggetti sugli occhi, Guglielmo si chinò sugli elenchi stilati nel codice. Guardai anch’io, e scoprimmo titoli di libri mai uditi, e altri di celeberrimi, che la biblioteca possedeva.

« ’De pentagono Salomonis’, ’Ars loquendi et intelligendi in lingua hebraica’, ’De rebus metallicis’ di Ruggero da Hereford, ’Algebra’ di Al Kuwarizmi, resa in latino da Roberto Anglico, le ’Puniche’ di Silio Italico, i ’Gesta francorum’, ’De laudibus sanctae crucis’ di Rabano Mauro, e ’Flavii Claudii Giordani de aetate mundi et hominis reservatis singulis litteris per singulos libros ab A usque ad Z’, » lesse il mio maestro. « Splendide opere. Ma in che ordine sono registrate? » Citò da un testo che non conoscevo ma che era certo familiare a Malachia: « ’Habeat Librarius et registrum omnium librorum ordinatum secundum facultates et auctores, reponeatque eos separatim et ordinate cum signaturis per scripturam applicatis.’ Come fate a conoscere il luogo di ciascun libro? »

Malachia gli mostrò delle annotazioni che fiancheggiavano ciascun titolo. Lessi: iii, IV gradus, V in prima graecorum; ii, V gradus, VII in tertia anglorum, e così via. Capii che il primo numero indicava la posizione del libro nello scaffale o gradus, indicato dal secondo numero, l’armadio essendo indicato dal terzo numero, e capii pure che le altre espressioni designavano una stanza o corridoio della biblioteca, e ardii chiedere maggiori notizie su queste ultime distinctiones. Malachia mi guardò severamente: « Forse non sapete, o avete dimenticato, che l’accesso alla biblioteca è consentito solo al bibliotecario. E dunque è giusto e sufficiente che solo il bibliotecario sappia decifrare queste cose. »

« Ma in che ordine sono riportati i libri in questo elenco? » chiese Guglielmo. « Non per argomenti, mi pare. » Non accennò a un ordine per autori che seguisse la stessa sequenza delle lettere dell’alfabeto, perché è accorgimento che ho visto messo in opera solo negli ultimi anni, e allora si usava poco.

« La biblioteca affonda la sua origine nel profondo dei tempi, » disse Malachia, « e i libri sono registrati secondo l’ordine delle acquisizioni, delle donazioni, del loro ingresso nelle nostre mura. »

« Difficili da trovare, » osservò Guglielmo.

« Basta che il bibliotecario li conosca a memoria e sappia per ogni libro il tempo in cui arrivò. Quanto agli altri monaci possono fidarsi della sua memoria, » e pareva parlasse di un altro che non fosse lui stesso; e compresi che egli parlava della funzione che in quel momento indegnamente ricopriva, ma che era stata ricoperta da cento altri, ormai scomparsi, che si erano tramandati l’un l’altro il loro sapere.

« Ho capito, » disse Guglielmo. « Se io dunque cercassi qualcosa, senza sapere cosa, sul pentagono di Salomone, voi sapreste indicarmi che esiste il libro di cui ho appena letto il titolo, e potreste individuarne la posizione al piano superiore. »

« Se voi doveste veramente apprendere qualcosa sul pentagono di Salomone, » disse Malachia. « Ma ecco un libro per darvi il quale preferirei prima chiedere il consiglio dell’Abate. »

« Ho saputo che uno dei vostri miniatori più valenti, » disse allora Guglielmo, « è scomparso di recente. L’Abate mi ha molto parlato della sua arte. Potrei vedere i codici che miniava? »

« Adelmo da Otranto, » disse Malachia guardando Guglielmo con diffidenza, « lavorava, a causa della sua giovane età, solo sui marginalia. Aveva una immaginazione molto vivace e da cose note sapeva comporre cose ignote e sorprendenti, come chi unisse un corpo umano a una cervice equina. Ma ecco laggiù i suoi libri. Nessuno ha ancora toccato il suo tavolo. »

Ci appressammo a quello che era stato il posto di lavoro di Adelmo, dove giacevano ancora i fogli di un salterio riccamente miniati. Erano folia di vellum finissimo — regina Ira le pergamene — e l’ultimo era ancora fissato al tavolo. Appena sfregato con pietrapomice e ammorbidito col gesso, era stato reso liscio con la plana e, dai minuscoli fori prodotti ai lati con uno stilo sottile, erano state tracciate tutte le linee che dovevano guidare la mano dell’artista. La prima metà era stata già ricoperta di scrittura e il monaco aveva iniziato ad abbozzarvi le figure ai margini. Già finiti erano invece gli altri fogli, e guardandoli né io né Guglielmo riuscimmo a trattenere un grido di ammirazione. Si trattava di un salterio ai margini del quale si delineava un mondo rovesciato rispetto a quello cui ci hanno abituati i nostri sensi. Come se al limine di un discorso che per definizione è il discorso della verità, si svolgesse profondamente legato a quello, per mirabili allusioni in aenigmate, un discorso menzognero su un universo posto a testa in giù, dove i cani fuggono davanti alla lepre e i cervi cacciano il leone. Piccole teste a zampa d’uccello, animali con mani umane sulle terga, teste chiomate dalle quali spuntavano piedi, dragoni zebrati, quadrupedi dal collo serpentino che si allacciava in mille nodi inestricabili, scimmie dalle corna cervine, sirene a forma di volatile con ali membranose sul dorso, uomini senza braccia con altri corpi umani che spuntavano loro sulla schiena a mo’ di gobba, e figure con la bocca dentata sul ventre, umani con la testa equina ed equini con gambe umane, pesci con ali d’uccello e uccelli con coda di pesce, mostri a corpo unico e doppia testa o testa unica e corpo doppio, vacche a coda di gallo dalle ali di farfalla, donne dal capo squamato come il dorso di un pesce. chimere bicefale interallacciate con libellule dal muso di lucertola, centauri, dragoni, elefanti, manticore, sciapodi sdraiati su rami d’albero, grifoni dalla cui coda si generava un arciere in assetto di guerra, creature diaboliche dal collo senza fine, sequenze di animali antropomorfi e di nani zoomorfi si associavano, talora sulla stessa pagina, a scene di vita campestre dove vedevi rappresentata, con vivacità impressionante, sì che avresti creduto che le figure fossero vive, tutta la vita dei campi, aratori, raccoglitori di frutti, mietitori, filatrici, seminatori accanto a volpi e faine armate di balestre che scalavano una città turrita difesa da scimmie. Qua una lettera iniziale si piegava a L e nella parte inferiore generava un dragone, là una grande V che dava inizio alla parola « verba » produceva come naturale viticchio del suo tronco una serpe dalle mille volute, a sua volta generante altre serpi quali pampini e corimbi.

Accanto al salterio v’era, evidentemente terminato da poco, uno squisito libro d’ore, dalle dimensioni incredibilmente piccole, sì che avresti potuto tenerlo nel palmo della mano. Esigua la scrittura, le miniature marginali erano a malapena visibili a prima vista e chiedevano che l’occhio le esaminasse da vicino per apparire in tutta la loro bellezza (e ti chiedevi con quale strumento sovrumano il miniatore le avesse tracciate per ottenere effetti di tanta vivacità in uno spazio così ridotto). Gli interi margini del libro erano invasi da minuscole figure che si generavano, quasi per naturale espansione, dalle volute terminali delle lettere splendidamente tracciate: sirene marine, cervi in fuga, chimere, torsi umani senza braccia che fuoriuscivano come lombrichi dal corpo stesso dei versetti. In un punto, quasi a continuare i tre « Sanctus, Sanctus, Sanctus » ripetuti su tre linee diverse, vedevi tre figure belluine dalle teste umane, di cui due si piegavano l’una verso il basso e l’altra verso l’alto per unirsi in un bacio che non avresti esitato a definire inverecondo se non fossi stato persuaso che, anche se non perspicuo, un profondo significato spirituale doveva certamente giustificare quella raffigurazione in quel punto.

Io seguivo quelle pagine combattuto tra l’ammirazione muta e il riso, perché le figure inclinavano necessariamente all’ilarità, benché commentassero pagine sante. E frate Guglielmo le esaminava sorridendo, e commentò: « Babewyn, così li chiamano nelle mie isole. »

« Babouins, come li chiamano nelle Gallie, » disse Malachia. « E infatti Adelmo ha appreso la sua arte nel vostro paese, benché dopo abbia studiato anche in Francia. Babbuini, ovvero scimmie dell’Africa. Figure di un mondo rovesciato, dove le case sorgono sulla punta di una guglia e la terra sta sopra il cielo. »

Io mi ricordai di alcuni versi che avevo udito nel vernacolo delle mie terre e non potei trattenermi dal pronunciarli:
Aller Wunder si geswigen,

das herde himel hat ubersrigen,

daz sult ir vür ein Wunder wigen.
E Malachia continuò, citando dallo stesso testo:
Erd ob un himel unter

das sult ir hân besunder

Vür aller Wunder ein Wunder.
« Bravo Adso, » continuò il bibliotecario, « effettivamente queste immagini ci parlano di quella regione dove si arriva cavalcando un’oca blu, dove si trovano sparvieri che pescano dei pesci in un ruscello, orsi che inseguono falconi nel cielo, gamberi che volano con le colombe e tre giganti presi in trappola e morsicati da un gallo. »

E un pallido sorriso illuminò le sue labbra. Allora gli altri monaci, che avevano seguito la conversazione con una certa timidezza, si misero a ridere di cuore, come se avessero atteso il consenso del bibliotecario. Il quale si rabbuiò, mentre gli altri seguitavano a ridere, lodando l’abilità del povero Adelmo e indicandosi l’un l’altro le figure più inverosimili. E fu mentre tutti ancora ridevano che udimmo alle nostre spalle una voce, solenne e severa.

« Verba vana aut risui apta non loqui. »

Ci voltammo. Chi aveva parlato era un monaco curvo per il peso degli anni, bianco come la neve, non dico solo il pelo, ma pure il viso, e le pupille. Mi avvidi che era cieco. La voce era ancora maestosa e le membra possenti anche se il corpo era rattrappito dal peso dell’età. Ci fissava come se ci vedesse, e sempre anche in seguito lo vidi muoversi e parlare come se possedesse ancora il bene della vista. Ma il tono della voce era invece di chi possieda solo il dono della profezia.

« L’uomo venerando d’età e sapienza che vedete, » disse Malachia a Guglielmo indicandogli il nuovo venuto, « è Jorge da Burgos. Più vecchio di chiunque viva nel monastero, salvo Alinardo da Grottaferrata, egli è colui a cui moltissimi tra i monaci affidano il carico dei loro peccati nel segreto della confessione. » Poi, volgendosi al vegliardo: « Quello che sta davanti a voi è frate Guglielmo da Baskerville, nostro ospite. »

« Spero che non vi siate adirato per le mie parole, » disse il vecchio in tono brusco. « Ho udito persone che ridevano su cose risibili e ho ricordato loro uno dei principi della nostra regola. E come dice il salmista, se il monaco si deve astenere dai discorsi buoni per il voto di silenzio, a quanto maggior ragione deve sottrarsi ai discorsi cattivi. E come ci sono discorsi cattivi ci sono immagini cattive. E sono quelle che mentono circa la forma della creazione e mostrano il mondo al contrario di ciò che deve essere, è sempre stato e sempre sarà nei secoli dei secoli sino alla consunzione dei tempi. Ma voi venite da altro ordine, dove mi dicono è vista con indulgenza anche la giocondità più inopportuna. » Alludeva a quanto tra i benedettini si diceva delle bizzarrie di santo Francesco di Assisi e forse anche delle bizzarrie attribuite a fraticelli e spirituali d’ogni sorta, che dell’ordine francescano erano i più recenti e imbarazzanti germogli. Ma frate Guglielmo fece mostra di non raccogliere l’insinuazione.

« Le immagini marginali inducono sovente al sorriso, ma per fini di edificazione, » rispose. « Come nei sermoni per toccare l’immaginazione delle pie folle occorre inserire exempla, non di rado faceti, così anche il discorso delle immagini deve indulgere a queste nugae. Per ogni virtù e per ogni peccato c’è un esempio tratto dai bestiari, e gli animali si fanno figura del mondo umano. »

« Oh sì, » motteggiò il vecchio, ma senza sorridere, « ogni immagine è buona per invogliare alla virtù, perché il capolavoro della creazione, messo a capo in giù, diventi materia di riso. E così la parola di Dio si manifesta attraverso l’asino che suona la lira, l’allocco che ara con lo scudo, i buoi che si attaccano da soli all’aratro, i fiumi che risalgono le correnti, il mare che s’incendia, il lupo che si fa eremita! Cacciate la lepre col bue, fatevi insegnar grammatica dalle civette, che i cani morsichino le pulci, gli orbi guardino i muti e i muti domandino pane, la formica partorisca un vitello, volino i polli arrosto, le focacce crescano sui tetti, i pappagalli tengano lezione di retorica, le galline fecondino i galli, mettete il carro avanti i buoi, fate dormire il cane nel letto e tutti camminino a testa in giù! Cosa vogliono tutte queste nugae? Un mondo inverso e opposto a quello stabilito da Dio, sotto pretesto di insegnare i precetti divini! »

« Ma l’Areopagita insegna, » disse umilmente Guglielmo, « che Dio può essere nominato solo attraverso le cose più difformi. E Ugo di San Vittore ci ricordava che quanto più la similitudine si fa dissimile, tanto più la verità ci è rivelata sotto il velame di figure orribili e indecorose, tanto meno l’immaginazione si placa nel godimento carnale ed è obbligata a cogliere i misteri che si celano sotto la turpitudine delle immagini... »

« Conosco l’argomento! E ammetto con vergogna che è stato l’argomento principe del nostro ordine, quando gli abati cluniacensi si battevano contro i cistercensi. Ma san Bernardo aveva ragione: a poco a poco l’uomo che rappresenta mostri e portenti di natura per rivelare le cose di Dio per speculum et in aenigmate, prende gusto alla natura stessa delle mostruosità che crea e si diletta di quelle, e per quelle, né vede più che attraverso quelle. Basta che guardiate, voi che avete ancora la vista, ai capitelli del vostro chiostro, » e accennò con la mano fuori dalle finestre, verso la chiesa, « sotto gli occhi dei monaci intenti alla meditazione, cosa significano quelle ridicole mostruosità, quelle deformi formosità e formose difformità? Quelle sordide scimmie? Quei leoni, quei centauri, quegli esseri semiumani, con la bocca sul ventre, un piede solo, le orecchie a vela? Quelle tigri maculate, quei guerrieri in lotta, quei cacciatori che soffiano nel corno, e quei molti corpi in una sola testa e molte teste in un solo corpo? Quadrupedi con la coda di serpente, e pesci con la testa di quadrupede, e qui un animale che davanti pare un cavallo e dietro un caprone, e là un equino con le corna e via via, ormai è più piacevole per il monaco leggere i marmi che non i manoscritti, e ammirare le opere dell’uomo anziché meditare sulla legge di Dio. Vergogna, per il desiderio dei vostri occhi e per i vostri sorrisi! »

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