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Il nome della rosa


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« Ma questo lo scriveva Michele Psello nel libro sulle operazioni dei demoni, trecento anni fa! Chi ti ha raccontato queste cose?

« Essi, Bentivenga e gli altri, e sotto tortura! »

« C’è una sola cosa che eccita gli animali più del piacere, ed è il dolore. Sotto tortura vivi come sotto l’impero di erbe che danno visioni. Tutto quello che hai sentito raccontare, tutto quello che hai letto, ti torna alla mente, come se tu fossi rapito, non verso il cielo, ma verso l’inferno. Sotto tortura dici non solo quello che vuole l’inquisitore, ma anche quello che immagini possa dargli piacere, perché si stabilisce un legame (questo sì, veramente diabolico) tra te e lui... Queste cose le so, Ubertino, ho fatto parte anch’io di quei gruppi di uomini che credono di produrre la verità con il ferro incandescente. Ebbene, sappi, l’incandescenza della verità è di altra fiamma. Sotto tortura Bentivenga può avere detto le menzogne più assurde, perché non parlava più lui, ma la sua lussuria, i demoni dell’anima sua. »

« Lussuria? »

« Sì, c’è una lussuria del dolore, come c’è una lussuria dell’adorazione e persino una lussuria dell’umiltà. Se bastò così poco agli angeli ribelli per mutare il loro ardore d’adorazione e umiltà in ardore di superbia e di rivolta, cosa dire di un essere umano? Ecco, ora lo sai, fu questo pensiero che mi colse nel corso delle mie inquisizioni. E fu per questo che rinunciai a quella attività. Mi mancò il coraggio di inquisire sulle debolezze dei malvagi, perché scoprii che sono le stesse debolezze dei santi. »

Ubertino aveva ascoltato le ultime parole di Guglielmo come se non comprendesse quello che egli diceva. Dall’espressione del suo volto, sempre più ispirata ad affettuosa commiserazione, capii che egli riteneva Guglielmo preda di sentimenti molto colpevoli, che egli perdonava perché molto lo amava. Lo interruppe, e disse in tono assai amaro: « Non importa. Se sentivi così, hai fatto bene a fermarti. Bisogna combattere le tentazioni. Però mi mancò il tuo appoggio, e avremmo potuto sgominare quella mala banda. E invece sai che accadde, io stesso fui accusato di essere troppo debole con loro, e fui sospettato di eresia. Sei stato troppo debole anche tu, nel combattere il male. Il male, Guglielmo: non cesserà mai questa condanna, quest’ombra, questo fango che ci impedisce di toccare la sorgente? » Si appressò ancora più a Guglielmo, come se fosse timoroso che qualcuno lo udisse: « Anche qui, anche tra queste mura consacrate alla preghiera, lo sai? »

« Lo so, l’Abate mi ha parlato, mi ha anzi chiesto di aiutarlo a far luce. »

« E allora spia, scava, guarda con occhio di lince in due direzioni, la lussuria e la superbia... »

« La lussuria? »

« Sì, la lussuria. C’era qualcosa di... di femminile, e dunque di diabolico in quel giovane che è morto. Aveva occhi di fanciulla che cerchi commercio con un incubo. Ma ti ho detto anche la superbia, la superbia della mente, in questo monastero consacrato all’orgoglio della parola, alla illusione della sapienza... »

« Se sai qualcosa aiutami. »

« Non so nulla. Non c’è nulla che io « sappia ». Ma certe cose si sentono col cuore. Lascia parlare il tuo cuore, interroga i volti, non ascoltare le lingue... Ma suvvia, perché dobbiamo parare di queste tristezze e intimorire questo nostro giovane amico? » Mi guardò coi suoi occhi celesti, sfiorando la mia guancia con le sue dita lunghe e bianche, e quasi mi venne l’istinto di ritrarmi; mi trattenni e feci bene, perché l’avrei offeso, e la sua intenzione era pura. « Dimmi piuttosto di te, » disse volgendosi di nuovo a Guglielmo. « Cosa hai fatto dopo di allora? Sono passati... »

« Diciotto anni. Sono tornato nelle mie terre. Ho studiato ancora a Oxford. Ho studiato la natura. »

« La natura è buona perché è figlia di Dio, » disse Ubertino.

« E Dio deve essere buono, se ha generato la natura, » sorrise Guglielmo. « Ho studiato, ho incontrato amici molto saggi. Poi ho conosciuto Marsilio, mi hanno attratto le sue idee sull’impero, sul popolo, su una nuova legge per i regni della terra, e così sono finito in quel gruppo dei nostri confratelli che stanno consigliando l’imperatore. Ma queste cose le sai, ti avevo scritto. Ho esultato quando a Bobbio mi hanno detto che eri qui. Ti credevamo perduto. Ma ora che sei con noi potrai esserci di grande aiuto tra qualche giorno, quando arriverà anche Michele. Sarà uno scontro duro. »

« Non avrò molto da dire più di quel che dissi cinque anni fa ad Avignone. Chi verrà con Michele? »

« Alcuni che furono al capitolo di Perugia, Arnaldo d’Aquitania, Ugo da Newcastle... »

« Chi? » domandò Ubertino.

« Ugo da Novocastro, scusami, uso la mia lingua anche quando parlo in buon latino. E poi Guglielmo Alnwick. E da parte dei francescani avignonesi potremo contare su Girolamo, lo sciocco di Caffa, e verranno forse Berengario Talloni e Bonagrazia da Bergamo. »

« Speriamo in Dio, » disse Ubertino, « questi ultimi non vorranno inimicarsi troppo il papa. E chi ci sarà a sostenere le posizioni della curia, intendo, tra i duri di cuore? »

« Dalle lettere che mi sono pervenute immagino ci saranno Lorenzo Decoalcone... »

« Un uomo maligno. »

« Jean d’Anneaux... »

« Questo è sottile in teologia, guardatene. »

« Ce ne guarderemo. E infine Jean de Baune. »

« Se la vedrà con Berengario Talloni.

« Sì, credo proprio che ci divertiremo, » disse il mio maestro di ottimo umore. Ubertino lo guardò con un sorriso incerto.

« Non capisco mai quando voi inglesi parlate seriamente. Non c’è nulla di divertente in una questione così grave. Ne va della sopravvivenza dell’ordine, che è il tuo e che nel profondo del cuore è ancora il mio. Ma io scongiurerò Michele di non andare ad Avignone. Giovanni lo vuole, lo cerca, lo invita con troppa insistenza. Diffidate di quel vecchio francese. Oh Signore, in quali mani è caduta la tua chiesa! » Volse il capo verso l’altare. « Trasformata in meretrice, ammollita nel lusso, si avvoltola nella lussuria come una serpe in calore! Dalla purezza nuda della stalla di Bethlehem, legno come fu legno il lignum vitae della croce, ai baccanali d’oro e di pietra, guarda, anche qui, hai visto il portale, non ci si sottrae all’orgoglio delle immagini! Sono infine prossimi i giorni dell’Anticristo e io ho paura, Guglielmo! » Si guardò intorno, fissando lo sguardo sbarrato entro le navate oscure, come se l’Anticristo dovesse apparire da un momento all’altro, e io invero mi attendevo di scorgerlo. « I suoi luogotenenti sono già qui, mandati come Cristo mandò gli apostoli per il mondo! Stanno conculcando la Città di Dio, seducono con l’inganno, l’ipocrisia e la violenza. Sarà allora che Dio dovrà mandare i suoi servi, Elia ed Enoch, che egli ha conservato ancora in vita nel paradiso terrestre perché un giorno confondano l’Anticristo, e verranno a profetare vestiti di sacco, e predicheranno la penitenza con l’esempio e con la parola... »

« Sono già venuti, Ubertino, » disse Guglielmo, mostrando il suo saio di francescano.

« Ma non hanno ancora vinto, è il momento che l’Anticristo, pieno di furore, comanderà di uccidere Enoch ed Elia e i loro corpi perché ognuno possa vederli e tema di volerli imitare. Così come volevano uccidere me... »

In quel momento, atterrito, pensavo che Ubertino fosse in preda a una sorta di divina mania, e temetti per la sua ragione. Ora a distanza di tempo, sapendo quel che so, e cioè che qualche anno dopo fu misteriosamente ucciso in una città tedesca, e mai non si seppe da chi, sono più atterrito ancora, perché evidentemente quella sera Ubertino profetava.

« Lo sai, l’abate Gioacchino aveva detto la verità. Siamo giunti alla sesta era della storia umana, in cui appariranno due Anticristi, l’Anticristo mistico e l’Anticristo proprio, questo accade ora nella sesta epoca, dopo che è apparso Francesco a configurare nella sua stessa carne le cinque piaghe di Gesù Crocifisso. Bonifacio fu l’Anticristo mistico, e l’abdicazione di Celestino non fu valida, Bonifacio fu la bestia che viene dal mare le cui sette teste rappresentano le offese ai peccati capitali e le dieci corna le offese ai comandamenti, e i cardinali che lo attorniavano erano le locuste, il cui corpo è Appolyon! Ma il numero della bestia, se ne leggi il nome in lettere greche, è ’Benedicti’! » Mi fissò per vedere se avevo capito e alzò un dito ammonendomi. « Benedetto Undicesimo fu l’Anticristo proprio, la bestia che ascende dalla terra! Dio ha permesso che tale mostro di vizio e di iniquità governasse la sua chiesa perché le virtù del suo successore sfolgorassero di gloria! »

« Ma padre santo, » obbiettai con un filo di voce, facendomi coraggio, « il suo successore è Giovanni! »

Ubertino si posò una mano sulla fronte come per cancellare un sogno molesto. Respirava a fatica, era stanco. « Già. I calcoli erano errati, stiamo ancora attendendo il papa angelico... Ma intanto sono apparsi Francesco e Domenico. » Alzò gli occhi al cielo e disse come pregando (ma fui sicuro che stava recitando una pagina del suo grande libro sull’albero della vita): « Quorum primus seraphico calculo purgatus et ardore celico inflammatus totum incendere videbatur. Secundus vero verbo predicationis fecundus super mundi tenebras clarius radiavit... Sì, se queste sono state le promesse, il papa angelico dovrà venire. »

« E così sia Ubertino, » disse Guglielmo. « Intanto io sono qui per impedire che venga cacciato l’imperatore umano. Del tuo papa angelico parlava anche fra Dolcino... »

« Non pronunciare più il nome di quella serpe! » urlò Ubertino, e per la prima volta lo vidi trasformarsi, da accorato che era, in adirato. « Egli ha insozzato la parola di Gioacchino di Calabria e ne ha fatto fomite di morte e sporcizia! Messaggero dell’Anticristo, se mai ve ne furono. Ma tu Guglielmo parli così perché in verità non credi all’avvento dell’Anticristo e i tuoi maestri di Oxford ti hanno insegnato a idolatrare la ragione inaridendo le capacità profetiche del tuo cuore! »

« Ti sbagli Ubertino, » rispose con molta serietà Guglielmo. « Tu sai che venero più di ogni altro tra i miei maestri Ruggiero Bacone... »

« Che vaneggiava di macchine volanti, » motteggiò amaramente Ubertino.

« Che ha parlato chiaramente e limpidamente sull’Anticristo, ne ha avvertito i segni nella corruzione del mondo e nell’indebolimento della sapienza. Ma ha insegnato che vi è un solo modo per prepararci alla sua venuta: studiare i segreti della natura, usare del sapere per migliorare il genere umano. Puoi prepararti a combattere l’Anticristo studiando le virtù curative delle erbe, la natura delle pietre, e persino progettando le macchine volanti di cui sorridi. »

« L’Anticristo del tuo Bacone era un pretesto per coltivare l’orgoglio della ragione. »

« Santo pretesto.

« Nulla che sia pretestuoso è santo. Guglielmo, sai che ti voglio bene. Sai che confido molto in te. Castiga la tua intelligenza, impara a piangere sulle piaghe del Signore, butta via i tuoi libri. »

« Tratterrò soltanto il tuo, » sorrise Guglielmo. Ubertino sorrise anch’egli e lo minacciò col dito: « Sciocco di un inglese. E non ridere troppo dei tuoi simili. Anzi, quelli che non puoi amare, temili. E guardati dall’abbazia. Questo luogo non mi piace. »

« Voglio appunto conoscerlo meglio. » disse Guglielmo congedandosi, « andiamo Adso. »

« Io ti dico che non è buono, e tu dici che vuoi conoscerlo. Ah » disse Ubertino scuotendo la testa.

« A proposito, » disse ancora Guglielmo già a metà della navata, « chi è quel monaco che sembra un animale e parla la lingua di Babele? »

« Salvatore? » si voltò Ubertino che già si era inginocchiato. « Credo di averne fatto dono io a questa abbazia... Insieme al cellario. Quando lasciai il saio francescano tornai per qualche tempo nel mio vecchio convento a Casale, e lì trovai altri frati in angustie, perché la comunità li accusava di essere spirituali della mia setta... così si esprimevano. Mi adoperai in loro favore, ottenendo che potessero seguire il mio esempio. E due, Salvatore e Remigio, ne ho trovati proprio qui, quando vi arrivai l’anno scorso. Salvatore... Davvero, pare una bestia. Ma è servizievole. »

Guglielmo esitò un istante. « L’ho sentito dire penitenziagite. »

Ubertino tacque. Mosse una mano come per scacciare un pensiero molesto. « No, non credo. Sai come sono questi fratelli laici. Gente di campagna, che hanno udito forse qualche predicatore vagante, e non sanno cosa si dicono. A Salvatore avrei altro da rimproverare, è una bestia ghiotta e lussuriosa. Ma nulla, nulla contro l’ortodossia. No, il male dell’abbazia è un altro, cercalo in chi sa troppo, non in chi non sa nulla. Non costruire un castello di sospetti su una parola. »

« Non lo farei mai, » rispose Guglielmo. « Ho smesso di tare l’inquisitore proprio per non fare questo. Però mi piace ascoltare anche le parole, e poi ci penso su. »

« Tu pensi troppo. Ragazzo, » disse rivolgendosi a me, « non trarre troppi cattivi esempi dal tuo maestro. L’unica cosa a cui si deve pensare, e me ne rendo conto alla fine della mia vita, è la morte. Mors est quies viatoris — finis est omnis laboris. Lasciatemi pregare. »

Verso nona.

Dove Guglielmo ha un dialogo dottissimo con Severino erborista.


Ripercorremmo la navata centrale e uscimmo dal portale da cui eravamo entrati. Avevo ancora le parole di Ubertino, tutte, che mi ronzavano nella testa.

« E’ un uomo... strano, » ardii dire a Guglielmo.

« E’, o è stato, per molti aspetti, un grande uomo. Ma proprio per questo è strano. Sono solo gli uomini piccoli che sembrano normali. Ubertino avrebbe potuto diventare uno degli eretici che ha contribuito a fare bruciare, o un cardinale di santa romana chiesa. E’ andato vicinissimo a entrambe le perversioni. Quando parlo con Ubertino ho l’impressione che l’inferno sia il paradiso guardato dall’altra parte. »

Non capii cosa volesse dire: « Da che parte? » domandai.

« Eh già, » ammise Guglielmo, « si tratta di sapere se ci sono delle parti e se c’è un tutto. Ma non darmi ascolto. E non guardare più quel portale, » disse colpendomi lievemente sulla nuca mentre mi rigiravo attirato dalle sculture che avevo visto all’entrata. « Per quest’oggi ti hanno spaventato abbastanza. Tutti. »

Mentre mi rivoltavo verso l’uscita, vidi davanti a me un altro monaco. Poteva avere la stessa età di Guglielmo. Ci sorrise e ci salutò urbanamente. Disse che era Severino da Sant’Emmerano, ed era il padre erborista, che aveva cura dei balnea, dell’ospedale, e degli orti, e che si metteva al nostro servizio se avessimo voluto orientarci meglio nel recinto dell’abbazia.

Guglielmo lo ringraziò e disse che aveva già notato, entrando, il bellissimo orto, che gli pareva contenere non solo erbe commestibili, ma anche piante medicinali, per quanto si poteva vedere attraverso la neve.

« D’estate o di primavera, con la varietà delle sue erbe, e ciascuna adornata dei suoi fiori, questo orto canta meglio le lodi del Creatore, » disse Severino a mo’ di scusa. « Ma anche in questa stagione l’occhio dell’erborista vede attraverso i rami secchi le piante che verranno e può dirti che quest’orto è più ricco di quanto mai lo fu un erbario, e più variopinto, per quanto bellissime siano le miniature di quello. E poi anche in inverno crescono le erbe buone, e altre ne tengo raccolte e pronte nei vasi che ho in laboratorio. Così con le radici dell’acetosella si curano i catarri, e con decotto di radici di althea si fanno impacchi per le malattie della pelle, con la lappa si cicatrizzano gli eczemi, triturando e macinando il rizoma della bistorta si curano le diarree e alcuni mali delle donne, il pepe è un buon digestivo, la farfara va bene per la tosse, e abbiamo della buona genziana per digerire, e della glycyrrhiza, e del ginepro per farne un buon infuso, il sambuco da farne con la corteccia un decotto per il fegato, la saponaria da macerarne le radici in acqua fredda, per il catarro, e la valeriana di cui certo conoscete le virtù. »

« Avete erbe diverse e buone per climi diversi. Come mai? »

« Per un lato lo devo alla misericordia del Signore, che ha posto il nostro altopiano a cavallo di una catena che vede a meridione il mare, e ne riceve i venti caldi, e a settentrione la montagna più alta di cui riceve i balsami silvestri. E per un lato lo devo all’abito dell’arte, che ho indegnamente acquisito per volontà dei miei maestri. Certe piante crescono anche in clima avverso se ne curi il terreno circostante, e il nutrimento, e la crescita. »

« Ma avete anche piante buone solo per mangiare? » domandai.

« Mio giovane puledro affamato, non ci sono piante buone per il cibo che non siano anche per la cura, purché prese in giusta misura. Solo l’eccesso le rende causa di malattia. Prendi la zucca. E’ di natura fredda e umida e mitiga la sete, ma a mangiarla guasta ti provoca diarrea e devi restringere le tue viscere con un impasto di salamoia e senape. E le cipolle? Calde e umide, poche potenziano il coito, naturalmente per coloro che non han pronunciato i nostri voti, troppe ti dan pesantezza di capo e van combattute con latte e aceto. Buona ragione, » aggiunse con malizia, « perché un giovane monaco ne mangi sempre con parsimonia. Mangia invece aglio. Caldo e secco, è buono contro i veleni. Ma non esagerare, fa espellere troppi umori dal cervello. I fagioli invece producono urina e ingrassano, due cose molto buone. Ma danno cattivi sogni. Molto meno però di certe altre erbe, perché ve ne sono anche che provocano cattive visioni.

« Quali? » domandai.

« Eh, eh, il nostro novizio vuole sapere troppo. Queste sono cose che deve sapere solo l’erborista. se no qualsiasi sconsiderato potrebbe andare in giro a somministrar visioni, ovvero a mentire con le erbe.

« Ma basta un poco d’urtica, » disse allora Guglielmo, « o la roybra, o l’olieribus, e si è protetti contro le visioni. Spero che voi abbiate di queste buone erbe. »

Severino guardò il maestro di sottecchi: « Ti interessi di erboristeria? »

« Molto poco, » disse modestamente Guglielmo, « una volta ebbi tra le mani il ’Theatrum Sanitatis’ di Ububchasvm de Baldach... »

« Abul Asan al Muchtar ibn Botlan. »

« O Ellucasim Elimittar, come vuoi tu. Mi chiedo se se ne potrà trovare una copia qui. »

« E delle più belle, con molte immagini di preziosa fattura. »

« Sia lode al cielo. E il ’De virtutibus herbarum’ del Platearius? »

« Anche quello, e il ’De plantis’ di Aristotele tradotto da Alfredo di Sareshel. »

« Ho sentito dire che non sia veramente di Aristotele, » osservò Guglielmo, « come non era di Aristotele, si scoprì, il ’De causis’. »

« In ogni caso è un grande libro, » osservò Severino, e il mio maestro ne convenne con molto fervore senza chiedere se l’erborista parlasse del « De plantis » o del « De causis », due opere che non conoscevo ma che da quella conversazione conclusi essere grandissime entrambe.

« Sarò lieto, » concluse Severino, « di avere con te qualche onesta conversazione sulle erbe. »

« Io più di te, » disse Guglielmo, « ma non violeremo la regola del silenzio, che mi pare viga nel vostro ordine? »

« La regola, » disse Severino, « si è adattata nei secoli alle esigenze delle diverse comunità. La regola prevedeva la lectio divina ma non lo studio: eppure sai quanto il nostro ordine abbia sviluppato la ricerca sulle cose divine e sulle cose umane. Ancora, la regola prevede il dormitorio comune, ma talora è giusto, come da noi, che i monaci abbiano possibilità di riflessione anche durante la notte, e così ciascuno di essi ha la propria cella. La regola è molto severa riguardo al silenzio, e anche da noi non solo il monaco che fa opere manuali ma anche colui che scrive o che legge non deve conversare coi suoi fratelli. Ma l’abbazia è anzitutto una comunità di studiosi e spesso è utile che i monaci si scambino i tesori di dottrina che accumulano. Ogni conversazione che riguardi i nostri studi è ritenuta legittima e profittevole, purché non si svolga in refettorio o durante le ore degli uffici sacri. »

« Hai avuto occasione di parlare molto con Adelmo da Otranto? » chiese bruscamente Guglielmo.

Severino non parve sorpreso: « Vedo che l’Abate ti ha già parlato, » disse. « No. Con lui non mi intrattenevo sovente. Passava il tempo a miniare. L’ho udito talora discutere con altri monaci, Venanzio da Salvemec, o Jorge da Burgos, sulla natura del suo lavoro. E poi io non passo la giornata nello scriptorium, ma nel mio laboratorio, » e accennò all’edificio dell’ospedale.

« Capisco, » disse Guglielmo. « Dunque non sai se Adelmo avesse avuto visioni. »

« Visioni? »

« Come quelle che procurano le tue erbe, per esempio. »

Severino si irrigidì: « Ho detto che custodisco con molta cura le erbe pericolose. »

« Non dico questo, » si affrettò a precisare Guglielmo. « Parlavo di visioni in genere. »

« Non capisco, » insisté Severino.

« Pensavo che un monaco che si aggira di notte per l’Edificio, dove per ammissione dell’Abate possono accadere cose... tremende a chi vi entri in ore proibite, bene, dicevo, pensavo che potesse aver avuto visioni diaboliche che l’avessero spinto nel precipizio. »

« Ho detto che non frequento lo scriptorium, salvo quando mi serve qualche libro, ma di solito ho i miei erbari che conservo nell’ospedale. Ti ho detto, Adelmo era molto familiare di Jorge, di Venanzio e... naturalmente, di Berengario. »

Avvertii anch’io una lieve esitazione nella voce di Severino. Né sfuggì al mio maestro: « Berengario? E perché naturalmente? »

« Berengario da Arundel, l’aiuto bibliotecario. Erano coetanei, sono stati novizi insieme, era normale che avessero cose di cui parlare. Questo volevo dire. »

« Questo dunque volevi dire, » commentò Guglielmo. E mi stupii che non insistesse su quel punto. Infatti cambiò subito discorso. « Ma forse è ora che entriamo nell’Edificio. Ci fai da guida? »

« Con piacere, » disse Severino con un sollievo sin troppo evidente. Ci fece costeggiare l’orto e ci portò di fronte alla facciata occidentale dell’Edificio.

« Dalla parte dell’orto vi è il portale che dà adito alla cucina, » disse, « ma la cucina occupa solo la metà occidentale del primo piano, nella seconda metà vi è il refettorio. E dalla porta meridionale, a cui si arriva passando dietro il coro della chiesa, vi sono due altri portali che recano e alla cucina e al refettorio. Ma entriamo pure di qui, perché dalla cucina potremo poi passare dall’interno al refettorio. »

Come entrai nella vasta cucina mi avvidi che l’Edificio generava al suo interno, e per tutta la sua altezza, una corte ottagonale; come compresi dopo si trattava di una sorta di gran pozzo, privo di accessi, su cui si aprivano a ogni piano ampie finestre, come quelle che davano verso l’esterno. La cucina era un immenso androne pieno di fumo, dove già molti famigli si affrettavano a disporre i cibi per la cena. Su un grande tavolo due di essi preparavano un pasticcio di verdura, orzo, avena e segale, tagliuzzando rape, crescione, rapanelli e carote. Accanto, un altro dei cuochi aveva appena finito di cuocere alcuni pesci in una miscela di vino e acqua, e li slava ricoprendo con una salsa composta di salvia, prezzemolo, timo, aglio, pepe e sale.

In corrispondenza al torrione occidentale si apriva un enorme forno per il pane che già balenava di fiamme rossastre. Nel torrione meridionale, un immenso camino su cui bollivano dei pentoloni e giravano degli spiedi. Dalla porta che dava sull’aia dietro la chiesa entravano in quel momento i porcai portando le carni dei maiali scannati. Uscimmo anzi da quella porta e ci trovammo sull’aia, nella estremità orientale del pianoro, a ridosso delle mura, dove sorgevano molte costruzioni. Severino mi spiegò che la prima era l’insieme degli stabbi, poi sorgevano le stalle dei cavalli, poi quelle dei buoi, e i pollai, e il recinto coperto delle pecore. Davanti agli stabbi i porcai rimestavano in una gran giara il sangue dei porci appena sgozzati, affinché non si coagulasse. Se veniva rimestato bene e subito avrebbe poi resistito per i prossimi giorni, grazie al clima rigido, e infine se ne sarebbero fatti sanguinacci.

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