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Il nome della rosa


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Cercherò di dirne cosa avevo capito, anche se non son sicuro di dire bene queste cose. I miei maestri di Melk mi avevano detto sovente che è molto difficile per un nordico farsi idee chiare sulle vicende religiose e politiche d’Italia.

La penisola, in cui la potenza del clero era evidente più che in ogni altro paese, e in cui più che in ogni altro paese il clero ostentava potenza e ricchezza, aveva generato da almeno due secoli movimenti di uomini intesi a una vita più povera, in polemica coi preti corrotti, di cui rifiutavano persino i sacramenti, riunendosi in comunità autonome, al tempo stesso invise ai signori, all’impero e alle magistrature cittadine.

Infine era venuto santo Francesco, e aveva diffuso un amore di povertà che non contraddiceva ai precetti della chiesa, e per opera sua la chiesa aveva accolto il richiamo alla severità dei costumi di quegli antichi movimenti e li aveva purificati dagli elementi di disordine che si annidavano in essi. Avrebbe dovuto seguirne un’epoca di mitezza e santità, ma, come l’ordine francescano cresceva e attirava a sé gli uomini migliori, esso diveniva troppo potente e legato ad affari terreni, e molti francescani vollero riportarlo alla purezza di un tempo. Cosa assai difficile per un ordine che ai tempi in cui ero all’abbazia già contava più di trentamila membri sparsi in tutto il mondo. Ma così è, e molti di questi frati di san Francesco si opponevano alla regola che l’ordine si era data, dicendo che l’ordine aveva ormai assunto i modi di quelle istituzioni ecclesiastiche per riformare le quali era nato. E che questo era già avvenuto ai tempi in cui Francesco era in vita, e che le sue parole e i suoi propositi erano stati traditi. Molti di essi riscoprirono allora il libro di un monaco cistercense che aveva scritto agli inizi del Dodicesimo secolo dell’era nostra, chiamato Gioacchino e a cui si attribuiva spirito di profezia. Infatti egli aveva previsto l’avvento di un’era nuova, in cui lo spirito di Cristo, da tempo corrotto a opera dei suoi falsi apostoli, si sarebbe di nuovo realizzato sulla terra. E aveva annunciato tali scadenze che a tutti era parso chiaro che egli parlasse senza saperlo dell’ordine francescano. E di questo molti francescani si erano assai rallegrati, pare sin troppo, tanto che a metà secolo a Parigi i dottori della Sorbona condannarono le proposizioni di quell’abate Gioacchino, ma pare che lo fecero perché i francescani (e i domenicani) stavano diventando troppo potenti, e sapienti, nell’università di Francia, e si voleva eliminarli come eretici. Il che poi non si fece e fu un gran bene per la chiesa, perché ciò permise che fossero divulgate le opere di Tommaso d’Aquino e di Bonaventura da Bagnoregio, che certo non erano eretici. Dove si vede che anche a Parigi le idee erano confuse, o qualcuno voleva confonderle per fini suoi. E questo è il male che l’eresia fa al popolo cristiano, che rende oscure le idee e spinge tutti a diventare inquisitori per il proprio bene personale. Che poi quanto vidi all’abbazia (e di cui dirò dopo) mi ha fatto pensare che spesso sono gli inquisitori a creare gli eretici. E non solo nel senso che se li figurano quando non ci sono, ma che reprimono con tanta veemenza la tabe eretica da spingere molti a farsene partecipi, in odio a loro. Davvero, un circolo immaginato dal demonio, che Dio ci salvi.

Ma dicevo dell’eresia (se pur tale fosse stata) gioachimita. E si vide in Toscana un francescano, Gerardo da Borgo San Donnino, farsi voce delle predizioni di Gioacchino e impressionar molto l’ambiente dei minori. Sorse così tra loro una schiera di sostenitori della regola antica, contro la riorganizzazione dell’ordine tentata dal grande Bonaventura, che ne era poi divenuto generale. Nell’ultimo trentennio del secolo scorso, quando il concilio di Lione, salvando l’ordine francescano contro chi lo voleva abolire, gli concesse la proprietà di tutti i beni che aveva in uso, come già era di legge per gli ordini più antichi, alcuni frati nelle Marche si ribellarono, perché ritenevano che lo spirito della regola fosse stato definitivamente tradito, in quanto un francescano non deve possedere nulla, né personalmente, né come convento, né come ordine. Li misero in prigione a vita Non mi pare che predicassero cose contrarie al vangelo, ma quando entra in gioco il possesso delle cose terrene è difficile che gli uomini ragionino secondo giustizia. Mi dissero che anni dopo, il nuovo generale dell’ordine, Raimondo Gaufredi, trovasse questi prigionieri ad Ancona e, liberandoli, dicesse: « Volesse Dio che tutti noi e tutto l’ordine fossimo macchiati di tale colpa. » Segno che non è vero quel che dicono gli eretici e nella chiesa abitano ancora uomini di grande virtù.

C’era tra questi prigionieri liberati, Angelo Clareno, che si incontrò poi con un frate di Provenza, Pietro di Giovanni Olivi, che predicava le profezie di Gioacchino e poi con Ubertino da Casale, e di lì nacque il movimento degli spirituali. Saliva in quegli anni al soglio pontificio un eremita santissimo, Pietro da Morrone, che regnò come Celestino Quinto, e costui fu accolto con sollievo dagli spirituali: « Apparirà un santo, » era stato detto, « e osserverà gli insegnamenti di Cristo, sarà di angelica vita, tremate prelati corrotti. » Forse Celestino era di troppa angelica vita, o i prelati intorno a lui eran troppo corrotti, o non riusciva a sopportare la tensione di una guerra ormai troppo lunga con l’imperatore e con gli altri re d’Europa; fatto è che Celestino rinunciò alla sua dignità e si ritirò in romitaggio. Ma nel breve periodo del suo regno, meno di un anno, le speranze degli spirituali furono tutte soddisfatte: essi andarono da Celestino che fondò con loro la comunità detta dei fratres et pauperes heremitae domini Celestini. D’altra parte, mentre il papa doveva funger da mediatore tra i più potenti cardinali di Roma, ve ne furono alcuni come un Colonna e un Orsini, che segretamente sostenevano le nuove tendenze di povertà: scelta invero assai curiosa per uomini potentissimi che vivevano tra agi e ricchezze smodate, e non ho mai capito se semplicemente usassero degli spirituali per i loro fini di governo o in qualche modo si ritenessero giustificati nella loro vita carnale dal sostenere le tendenze spirituali; e forse erano vere entrambe le cose, per quel poco che io capisco delle cose italiane. Ma proprio per fare un esempio, Ubertino era stato accolto come cappellano dal cardinale Orsini quando, divenuto il più ascoltato degli spirituali, correva rischio di essere accusato come eretico. E lo stesso cardinale gli aveva fatto scudo ad Avignone.

Come avviene però in tali casi, da un lato Angelo e Ubertino predicavano secondo dottrina, dall’altro grandi masse di semplici accettavano questa loro predicazione e si diffondevano per il paese, al di là di ogni controllo. Così l’Italia fu invasa da questi fraticelli o frati dalla povera vita che parvero pericolosi a molti. Ormai era difficile distinguere i maestri spirituali, che tenevano contatto con le autorità ecclesiastiche, e i loro seguaci più semplici, che semplicemente ormai vivevano fuori dell’ordine, chiedendo l’elemosina e vivendo giorno per giorno del lavoro delle loro mani, senza trattenere proprietà alcuna. E questi sono coloro che la voce pubblica ormai chiamava fraticelli, non dissimili dai beghini francesi, che si ispiravano a Pietro di Giovanni Olivi.

Celestino Quinto fu sostituito da Bonifacio Ottavo e questo papa si affrettò a dimostrare scarsissima indulgenza per spirituali e fraticelli in genere: proprio negli ultimi anni del secolo che moriva segnò una bolla, « Firma cautela », con cui condannava in un sol colpo bizochi, girovaghi questuanti che si aggiravano al limite estremo dell’ordine francescano, e gli stessi spirituali, ovvero coloro che si sottraevano alla vita dell’ordine per darsi all’eremo.

Gli spirituali tentarono poi di ottenere il consenso di altri pontefici, come Clemente Quinto, per potersi staccare dall’ordine in modo non violento. Credo ci sarebbero riusciti, ma l’avvento di Giovanni Ventiduesimo tolse loro ogni speranza. Come fu eletto nel 1316 egli scrisse al re di Sicilia perché espellesse questi frati dalle sue terre, perché molti si erano rifugiati laggiù: e fece mettere in ceppi Angelo Clareno e gli spirituali di Provenza.

Non deve essere stata un’impresa facile e molti nella curia vi resistevano. Il fatto è che Ubertino e Clareno riuscirono a essere lasciati liberi di abbandonare l’ordine e furono accolti l’uno dai benedettini e l’altro dai celestini. Ma per quelli che rimasero a condurre la loro vita libera, Giovanni fu spietato e li fece perseguitare dall’inquisizione e molti furono bruciati.

Egli aveva capito però che per distruggere la mala pianta dei fraticelli, che minavano alle basi l’autorità della chiesa, bisognava condannare le proposizioni su cui essi basavano la loro fede. Essi sostenevano che Cristo e gli apostoli non avevano avuto alcuna proprietà né individuale né in comune, e il papa condannò come eretica questa idea. Cosa stupefacente, perché non si vede perché mai un papa debba ritenere perversa l’idea che Cristo fosse povero: ma è che proprio un anno prima si era svolto il capitolo generale dei francescani a Perugia, che aveva sostenuto questa opinione, e condannando gli uni il papa condannava anche l’altro. Come ho già detto, il capitolo arrecava gran pregiudizio alla sua lotta contro l’imperatore, questo è il fatto. Così da allora molti fraticelli, che non sapevano nulla né di impero né di Perugia, morirono bruciati.


Queste cose pensavo guardando un personaggio leggendario come Ubertino. Il mio maestro mi aveva presentato e il vecchio mi aveva accarezzato una gota, con una mano calda, quasi ardente. Al tocco di quella mano avevo capito molte delle cose che avevo udito su quel sant’uomo e altre che avevo letto nelle pagine di « Arbor Vitae », comprendevo il fuoco mistico che lo aveva divorato sin dalla giovinezza quando, pur studiando a Parigi, si era ritratto dalle speculazioni teologiche e aveva immaginato di essere trasformato nella penitente Maddalena; e i rapporti intensissimi che aveva avuto con la santa Angela da Foligno dalla quale era stato iniziato ai tesori della vita mistica e all’adorazione della croce; e perché i suoi superiori un giorno, preoccupati dall’ardore della sua predicazione, lo avessero inviato in ritiro alla Verna.

Scrutavo quel volto, dai tratti dolcissimi come quelli della santa con cui era stato in fraterno commercio di spiritualissimi sensi. Intuivo che doveva aver saputo assumere tratti ben più duri quando nel 1311 il concilio di Vienne, con la decretale « Exivi de paradiso » aveva eliminato i superiori francescani ostili agli spirituali, ma aveva imposto a questi di vivere in pace in seno all’ordine, e questo campione della rinuncia non aveva accettato quell’accorto compromesso e si era battuto perché fosse costituito un ordine indipendente, ispirato al massimo del rigore. Questo gran combattente aveva allora perduto la sua battaglia. perché in quegli anni Giovanni Ventiduesimo propugnava una crociata contro i seguaci di Pietro di Giovanni Olivi (tra cui lui stesso era annoverato) e condannava i frati di Narbona e Béziers. Ma Ubertino non aveva esitato a difendere di fronte al papa la memoria dell’amico, e il papa, soggiogato dalla sua santità, non aveva osato condannare lui (anche se aveva poi condannato gli altri). In quell’occasione anzi gli aveva offerto una via di salvezza prima consigliandogli e poi ordinandogli di entrare nell’ordine cluniacense. Ubertino, che doveva essere altresì abile (lui apparentemente così disarmato e fragile) nel conquistarsi protezioni e alleanze nella corte pontificia, aveva sì accettato di entrare nel monastero di Gemblach nelle Fiandre, ma credo non ci fosse mai neppure andato, ed era rimasto ad Avignone, sotto le insegne del cardinale Orsini, a difendere la causa dei francescani.

Solo negli ultimi tempi (e le voci che avevo udito erano imprecise) la sua fortuna a corte era tramontata, si era dovuto allontanare da Avignone mentre il papa faceva inseguire quest’uomo indomabile come eretico che per mundum discurrit vagabundus. Di lui, si diceva, non si aveva più traccia. Nel pomeriggio avevo appreso, dal dialogo tra Guglielmo e l’Abate, che egli era ora nascosto in questa abbazia. E ora lo vedevo davanti a me.

« Guglielmo, » stava dicendo, « erano sul punto di uccidermi, sai, ho dovuto fuggire nottetempo. »

« Chi ti voleva morto? Giovanni? »

« No. Giovanni non mi ha mai amato, ma mi ha sempre rispettato. In fondo è lui che mi ha offerto un modo di sfuggire al processo, dieci anni fa, imponendomi di entrare nei benedettini, e con questo metteva a tacere i miei nemici. Hanno mormorato a lungo, ironizzavano sul fatto che un campione della povertà entrasse in un ordine così ricco, e vivesse alla corte del cardinale Orsini... Guglielmo, tu sai quanto tenga alle cose di questa terra! Ma era il modo di restare ad Avignone e difendere i miei confratelli. Il papa ha timore dell’Orsini, non mi avrebbe mai torto un capello. Ancora tre anni fa mi ha mandato messaggero dal re di Aragona. »

« E allora chi ti voleva male? »

« Tutti. La curia. Hanno tentato di assassinarmi due volte. Hanno tentato di farmi tacere. Tu sai cosa è avvenuto cinque anni fa. Erano stati condannati da due anni i beghini di Narbona e Berengario Talloni, che pure era uno dei giudici, si era appellato al papa. Erano momenti difficili, Giovanni aveva già emesso due bolle contro gli spirituali e lo stesso Michele da Cesena aveva ceduto — a proposito, quando arriva? »

« Sarà qui tra due giorni. »

« Michele... E’ tanto che non lo vedo. Ora si è ravveduto, capisce cosa volevamo, il capitolo di Perugia ci ha dato ragione. Ma allora, ancora nel 1318 ha ceduto al papa e gli ha messo nelle mani cinque spirituali di Provenza che resistevano alla sottomissione. Bruciati, Guglielmo... Oh, è orribile! » Si nascose il capo tra le mani.

« Ma cosa è avvenuto esattamente dopo l’appello del Talloni? » chiese Guglielmo.

« Giovanni doveva riaprire il dibattito, capisci? Doveva, perché anche in curia c’erano uomini presi dal dubbio, anche i francescani della curia — farisei, sepolcri imbiancati, pronti a vendersi per una prebenda, ma erano presi dal dubbio. Fu allora che Giovanni mi chiese di stendere una memoria sulla povertà. Fu una cosa bella, Guglielmo, Dio mi perdoni la superbia... »

« L’ho letta, Michele me l’ha mostrata. »

« C’erano i titubanti, anche tra i nostri, il provinciale di Aquitania, il cardinale di San Vitale, il vescovo di Caffa... »

« Un imbecille, » disse Guglielmo.

« Riposi in pace, è volato a Dio due anni fa. »

« Dio non è stato così misericordioso. Fu una falsa notizia arrivata da Costantinopoli. E’ ancora tra noi, mi dicono che farà parte della legazione. Dio ci protegga! »

« Ma è favorevole al capitolo di Perugia, » disse Ubertino.

« Appunto. Appartiene a quella razza di uomini che sono sempre i migliori campioni del loro avversario. »

« A dire il vero, » disse Ubertino, « anche allora non giovò molto alla causa. E poi tutto finì in un nulla di fatto, ma almeno non si stabilì che l’idea era eretica, e questo fu importante. Per ciò gli altri non mi hanno mai perdonato. Hanno cercato di nuocermi in tutti i modi, hanno detto che fui a Sachsenhausen quando Ludovico tre anni fa proclamò Giovanni eretico. Eppure tutti sapevano che in luglio ero ad Avignone con l’Orsini... Trovarono che parti della dichiarazione dell’imperatore riflettevano le mie idee, che follia. »

« Mica tanto, » disse Guglielmo. « Le idee gliele avevo date io, traendole dalla tua dichiarazione di Avignone, e da alcune pagine dell’Olivi. »

« Tu? » esclamò, tra stupefatto e gioioso, Ubertino, « ma allora mi dai ragione! »

Guglielmo apparve imbarazzato: « Erano buone idee per l’imperatore, in quel momento, » disse evasivamente.

Ubertino lo guardò con diffidenza. « Ah, ma tu non ci credi veramente, vero? »

« Racconta ancora, » disse Guglielmo, « racconta come ti sei salvato da quei cani. »

« Oh sì, cani, Guglielmo. Cani rabbiosi. Mi trovai a combattere con lo stesso Bonagrazia, sai?’

« Ma Bonagrazia da Bergamo è con noi! »

« Ora, dopo che io gli ebbi parlato a lungo. Solo a quel punto si convinse e protestò contro la « Ad conditorem canonum ». E il papa lo ha imprigionato per un anno.

« Ho sentito che ora è vicino a un mio amico che è alla curia, Guglielmo di Occam. »

« L’ho conosciuto poco. Non mi piace. Un uomo senza fervore, tutta testa, niente cuore. »

« Ma è una bella testa. »

« Può darsi, e lo porterà all’inferno. »

« Allora lo rivedrò laggiù, e discuteremo di logica. »

« Taci Guglielmo, » disse Ubertino sorridendo con intenso affetto, « tu sei migliore dei tuoi filosofi. Se solo avessi voluto...’

« Cosa? »

« Quando ci vedemmo l’ultima volta in Umbria? Ricordi? Ero stato appena guarito dai miei mali per l’intercessione di quella donna meravigliosa... Chiara da Montefalco... » mormorò col volto radioso, « Chiara... Quando la natura femminile, per sua natura così perversa, si sublima nella santità, allora sa farsi il più alto veicolo della grazia. Sai come la mia vita sia stata ispirata alla castità più pura, Guglielmo, » (lo stava afferrando per un braccio, convulsamente) « sai con quale... feroce — sì, è la parola giusta — con quale feroce sete di penitenza ho tentato di mortificare in me i palpiti della carne, per farmi una sola trasparenza all’amore di Gesù Crocifisso... Eppure tre donne nella mia vita sono state per me tre messaggeri celesti, Angela da Foligno, Margherita da Città di Castello (che mi anticipò la fine del mio libro quando io non ne avevo scritto che un terzo), e infine Chiara da Montefalco. Fu un premio del cielo che io, proprio io, dovessi indagare sui suoi miracoli e proclamarne la santità alle folle, prima che santa madre chiesa si muovesse. E tu eri laggiù Guglielmo, e potevi aiutarmi in quella santa impresa, e non volesti... »

« Ma la santa impresa a cui mi invitavi era quella di mandare al rogo Bentivenga, Jacomo e Giovannuccio, » disse piano Guglielmo.

« Stavano offuscando la memoria di lei, con le loro perversioni. E tu eri inquisitore! »

« E proprio allora chiesi di essere sollevato da quell’incarico. La storia non mi piaceva. Non mi piacque, sarò franco, neppure il modo in cui inducesti Bentivenga a confessare i suoi errori. Hai fatto finta di volere entrare nella sua setta, se setta era, gli hai carpito i suoi segreti e lo hai fatto arrestare. »

« Ma così si procede contro i nemici di Cristo! Erano eretici, erano pseudo apostoli, puzzavano dello zolfo di fra Dolcino! »

« Erano gli amici di Chiara. »

« No Guglielmo, non sfiorare neppure con un’ombra la memoria di Chiara! »

« Ma circolavano nel suo gruppo... »

« Erano minoriti, si dicevano spirituali, e invece erano frati della comunità! Ma lo sai che fu chiaro, all’inchiesta, che Bentivenga da Gubbio si proclamava apostolo, e poi con Giovannuccio da Bevagna seduceva le monache dicendo loro che l’inferno non esiste, che si possono soddisfare desideri carnali senza offendere Dio, che si può ricevere il corpo di Cristo (Signore perdonami!) dopo aver giaciuto con una monaca, che al Signore fu più accetta Maddalena della vergine Agnese, che ciò che il volgo chiama demonio è Dio stesso, perché il demone è la sapienza e Dio è appunto sapienza! E fu la beata Chiara, dopo aver udito questi discorsi, ad avere quella visione in cui Dio stesso le disse che quelli erano malvagi seguaci dello Spiritus Libertatis! »

« Erano minoriti con la mente accesa dalle stesse visioni di Chiara, e spesso il passo tra visione estatica e frenesia di peccato è minimo, » disse Guglielmo.

Ubertino gli strinse le mani e gli occhi gli si velarono ancora di pianto: « Non dire questo, Guglielmo. Come puoi confondere il momento dell’amore estatico, che ti brucia le viscere col profumo dell’incenso, e lo sregolamento dei sensi che sa di zolfo? Bentivenga istigava a toccare le nude membra di un corpo, affermava che solo così si ottiene la liberazione dall’impero dei sensi, homo nudus cum nuda iacebat... »

« Et non commiscebantur ad invicem... »

« Bugie! Cercavano il piacere, se lo stimolo carnale si faceva sentire, essi non reputavano peccato che per quietarlo uomo e donna giacessero insieme, e l’uno toccasse e baciasse l’altro in ogni parte, e quello congiungesse il suo ventre nudo col ventre nudo di questa! »

Confesso che il modo con cui Ubertino stigmatizzava il vizio altrui non mi induceva a pensieri virtuosi. Il mio maestro dovette accorgersi che ero turbato, e interruppe il santo uomo.

« Sei uno spirito ardente, Ubertino, nell’amore di Dio come nell’odio contro il male. Quello che volevo dire è che c’è poca differenza tra l’ardore dei Serafini e l’ardore di Lucifero, perché nascono sempre da un’accensione estrema della volontà. »

« Oh, la differenza c’è, e io la so! » disse ispirato Ubertino. « Tu vuoi dire che tra volere il bene e volere il male c’è un piccolo passo, perché si tratta sempre di dirigere la stessa volontà. Questo è vero. Ma la differenza è nell’oggetto, e l’oggetto è riconoscibile limpidamente. Di qui Dio, di là il diavolo. »

« E io temo di non saper più distinguere, Ubertino. Non fu la tua Angela da Foligno a raccontare di quel giorno che, rapita in ispirito stette nel sepolcro di Cristo? Non disse come dapprima ne baciò il petto e lo vide giacere con gli occhi chiusi, poi baciò la sua bocca e sentì salire da quelle labbra un inenarrabile odore di dolcezze, e dopo una breve pausa posò la sua gota sulla gota di Cristo e il Cristo avvicinò la sua mano alla gota di lei e la strinse a sé e — essa così disse — la sua letizia diventò altissima?... »

« Che c’entra questo con l’impeto dei sensi? » domandò Ubertino. « Fu esperienza mistica, e il corpo era quello di Nostro Signore. »

« Forse mi sono abituato a Oxford, » disse Guglielmo. « dove anche l’esperienza mistica era di altro genere... »

« Tutta nella testa, » sorrise Ubertino.

« O negli occhi. Dio sentito come luce, nei raggi del sole, nelle immagini degli specchi, nel diffondersi dei colori sopra le parti della materia ordinata, nei riflessi del giorno sulle foglie bagnate... Non è questo amore più vicino a quello di Francesco quando loda Dio nelle sue creature, fiori, erbe, acqua, aria? Non credo che da questo tipo di amore possa venire alcuna insidia. Mentre non mi piace un amore che trasferisce nel colloquio con l’Altissimo i brividi che si provano nei contatti della carne... »

« Tu bestemmi Guglielmo! Non è la stessa cosa. C’è un salto, immenso, verso il basso, tra l’estasi del cuore amante di Gesù Crocifisso e l’estasi corrotta degli pseudo apostoli di Montefalco... »

« Non erano pseudo apostoli, erano fratelli del Libero Spirito, l’hai detto tu stesso. »

« E che differenza fa? Tu non hai saputo tutto di quel processo, io stesso non ho ardito mettere agli atti certe confessioni, per non sfiorare neppure per un istante con l’ombra del demonio l’atmosfera di santità che Chiara aveva creato in quel luogo. Ma ho saputo certe cose, certe cose, Guglielmo! Si riunivano nottetempo in una cantina, prendevano un fanciullo appena nato, se lo gettavano l’un l’altro sinché moriva, di percosse... o di altro... E chi lo riceveva vivo per l’ultima volta, e tra le sue mani moriva, diventava il capo della setta... E il corpo del bambino veniva lacerato, e mescolato alla farina, per farne ostie blasfeme! »

« Ubertino, » disse fermamente Guglielmo, « queste cose sono state dette, molti secoli fa, dai vescovi armeni, della setta dei pauliciani. E dei bogomili. »

« E che conta? Il demonio è ottuso, segue un ritmo nelle sue insidie e nelle sue seduzioni, ripete i propri riti a distanza di millenni, egli è sempre lo stesso, proprio per questo lo si riconosce come il nemico! Ti giuro, accendevano delle candele, la notte di Pasqua, e portavano nella cantina delle fanciulle. Poi spegnevano le candele e si gettavano su di esse, anche se erano legate loro da vincoli di sangue.. E se da questo amplesso nasceva un bambino, ricominciava il rito infernale, tutti intorno a un vaso pieno di vino, che chiamavano il barilotto, a inebriarsi, e tagliavano a pezzi il bambino, e ne versavano il sangue in una coppa, e buttavano bambini ancora vivi sul fuoco, e mescevano le ceneri del bambino, il suo sangue, e ne bevevano! »

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