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Il nome della rosa


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« Ma voi non avete escluso che Adelmo possa essere precipitato da una delle finestre della biblioteca. E come posso ragionare sulla sua morte se non vedo il luogo in cui potrebbe aver avuto inizio la storia della sua morte? »

« Frate Guglielmo, » disse l’Abate in tono conciliante, « un uomo che ha descritto il mio cavallo Brunello senza vederlo e la morte di Adelmo senza saperne quasi nulla, non avrà difficoltà a ragionare su luoghi a cui non ha accesso.

Guglielmo si piegò in un inchino: « Siete saggio anche quando siete severo. Come volete. »

« Se mai fossi saggio, lo sarei perché so essere severo, » rispose l’Abate.

« Un’ultima cosa, » chiese Guglielmo. « Ubertino? »

« E’ qui. Vi attende. Lo troverete in chiesa. »

« Quando? »

« Sempre, » sorrise l’Abate. « Sapete che, benché molto dotto, non è uomo da apprezzare la biblioteca. La ritiene una lusinga del secolo... Sta per lo più in chiesa a meditare, a pregare... »

« E’ vecchio? » chiese Guglielmo esitando.

« Da quando non lo vedete? »

« Da molti anni. »

« E’ stanco. Molto distaccato dalle cose di questo mondo. Ha sessantotto anni. Ma credo abbia ancora l’animo della sua gioventù. »

« Lo cercherò subito, vi ringrazio. »

L’Abate gli chiese se non voleva unirsi alla comunità per il desinare, dopo sesta. Guglielmo disse che aveva appena mangiato, e molto confortevolmente, e che avrebbe preferito vedere subito Ubertino. L’Abate salutò.

Stava uscendo dalla cella quando si levò dalla corte un urlo straziante, come di persona ferita a morte, cui seguirono altri lamenti altrettanto atroci. « Cos’è?! » chiese Guglielmo, sconcertato. « Nulla, » rispose l’Abate sorridendo. « In questa stagione si stanno uccidendo i maiali. Un lavoro per i porcai. Non è di questo sangue che dovrete occuparvi. »

Uscì, e fece torto alla sua fama di uomo accorto. Perché il mattino seguente... Ma frena la tua impazienza, lingua mia petulante. Ché nel giorno di cui dico, e prima di notte, avvennero ancora molte cose di cui sarà bene riferire.

Sesta.


Dove Adso ammira il portale della chiesa e Guglielmo ritrova Ubertino da Casale.
La chiesa non era maestosa come altre che vidi in seguito a Strasburgo, a Chartres, a Bamberga e a Parigi. Assomigliava piuttosto a quelle che già avevo visto in Italia, poco inclini a elevarsi vertiginosamente verso il cielo e saldamente posate a terra, spesso più larghe che alte; se non che a un primo livello essa era sormontata, come una rocca, da una serie di merli quadrati, e sopra a questo piano si elevava una seconda costruzione, più che una torre, una solida seconda chiesa, sovrastata da un tetto a punta e traforata di severe finestre. Robusta chiesa abbaziale come ne costruivano i nostri antichi in Provenza e Linguadoca, lontana dalle arditezze e dall’eccesso di ricami propri dello stile moderno, che solo in tempi più recenti, credo, si era arricchita, sopra il coro, di una guglia arditamente puntata verso la volta celeste.

Due colonne diritte e pulite antistavano l’ingresso, che appariva a prima vista come un solo grande arco: ma dalle colonne si dipartivano due strombature che, sormontate da altri e molteplici archi, conducevano lo sguardo, come nel cuore di un abisso, verso il portale vero e proprio, che si intravvedeva nell’ombra, sovrastato da un gran timpano, retto ai lati da due piedritti e al centro da un pilastro scolpito, che suddivideva l’entrata in due aperture, difese da porte di quercia rinforzate di metallo. In quell’ora del giorno il sole pallido batteva quasi a picco sul tetto e la luce cadeva di sghimbescio sulla facciata senza illuminare il timpano: così che, superate le due colonne, ci trovammo di colpo sotto la volta quasi silvestre delle arcate che si dipartivano dalla sequenza di colonne minori che proporzionalmente rinforzavano i contrafforti. Abituati finalmente gli occhi alla penombra, di colpo il muto discorso della pietra istoriata, accessibile com’era immediatamente alla vista e alla fantasia di chiunque (perché pictura est laicorum literatura), folgorò il mio sguardo e mi immerse in una visione di cui ancor oggi a stento la mia lingua riesce a dire.

Vidi un trono posto nel cielo e uno assiso sul trono. Il volto dell’Assiso era severo e impassibile, gli occhi spalancati e dardeggianti su di una umanità terrestre giunta alla fine della sua vicenda, i capelli e la barba maestosi che ricadevano sul volto e sul petto come le acque di un fiume, in rivoli tutti uguali e simmetricamente bipartiti. La corona che portava sul capo era ricca di smalti e di gemme, la tunica imperiale color porpora gli si disponeva in ampie volute sulle ginocchia, intessuta di ricami e merletti in fili d’oro e d’argento. La mano sinistra, ferma sulle ginocchia, teneva un libro sigillato, la destra si levava in attitudine non so se benedicente o minacciosa. Il volto era illuminato dalla tremenda bellezza di un nimbo cruciforme e fiorito, e vidi brillare intorno al trono e sopra il capo dell’Assiso un arcobaleno di smeraldo. Davanti al trono, sotto i piedi dell’Assiso, scorreva un mare di cristallo e intorno all’Assiso, intorno al trono e sopra il trono, quattro animali terribili — vidi — terribili per me che li guardavo rapito, ma docili e dolcissimi per l’Assiso, di cui cantavano le lodi senza riposo.

Ovvero, non tutti potevano dirsi terribili, perché bello e gentile mi apparve l’uomo che alla mia sinistra (e alla destra dell’Assiso) porgeva un libro. Ma orrenda mi parve dal lato opposto un’aquila, il becco dilatato, le piume irte disposte a lorìca, gli artigli possenti, le grandi ali aperte. E ai piedi dell’Assiso, sotto alle due prime figure, altre due, un toro e un leone, ciascuno del due mostri serrando tra gli artigli e gli zoccoli un libro, il corpo volto all’esterno del trono ma il capo verso il trono, come torcendo le spalle e il collo in un impeto feroce, i fianchi palpitanti, gli arti di bestia che agonizzi, le fauci spalancate, le code avvolte e ritorte come serpenti e terminanti all’apice in lingue di fiamma. Entrambi alati, entrambi coronati da un nimbo, malgrado l’apparenza formidabile non erano creature dell’inferno, ma del cielo, e se tremendi apparivano era perché ruggivano in adorazione di un Venturo che avrebbe giudicato i vivi e i morti.

Attorno al trono, a fianco dei quattro animali e sotto i piedi dell’Assiso, come visti in trasparenza sotto le acque del mare di cristallo, quasi a riempire tutto lo spazio della visione, composti secondo la struttura triangolare del timpano, elevandosi da una base di sette più sette, poi a tre più tre e quindi a due più due, a lato del trono, stavano ventiquattro vegliardi, su ventiquattro piccoli troni, rivestiti di vesti bianche e coronati d’oro. Chi aveva in mano una viella, chi una coppa di profumi, e uno solo suonava, tutti gli altri rapiti in estasi, il volto rivolto all’Assiso di cui cantavano le lodi, le membra anch’esse contorte come quelle degli animali, in modo da poter tutti vedere l’Assiso, ma non in modo belluino, bensì con movenze di danza estatica — come dovette danzare Davide intorno all’arca — in modo che dovunque essi fossero le loro pupille, contro la legge che governava la statura dei corpi, convergessero nello stesso fulgidissimo punto. Oh, quale concento di abbandoni e di slanci, di posture innaturali eppure aggraziate, in quel mistico linguaggio di membra miracolosamente liberate dal peso della materia corporale, signata quantità infusa di nuova forma sostanziale, come se il sacro stuolo fosse battuto da un vento impetuoso, soffio di vita, frenesia di dilettazione, giubilo allelujatico divenuto prodigiosamente, da suono che era, immagine.

Corpi e membra abitati dallo Spirito, illuminati dalla rivelazione, sconvolti i volti dallo stupore, esaltati gli sguardi dall’entusiasmo, infiammate le gote dall’amore, dilatate le pupille dalla beatitudine, folgorato l’uno da una dilettosa costernazione, trafitto l’altro da un costernato diletto, chi trasfigurato dalla meraviglia, chi ringiovanito dal gaudio, eccoli tutti cantare con l’espressione dei visi, col panneggio delle tuniche, col piglio e la tensione degli arti, un cantico nuovo, le labbra semiaperte in un sorriso di lode perenne. E sotto i piedi dei vegliardi, e inarcati sopra di essi e sopra il trono e sopra il gruppo tetramorfo, disposti in bande simmetriche, a fatica distinguibili l’uno dall’altro tanto la sapienza dell’arte li aveva resi tutti mutuamente proporzionati, uguali nella varietà e variegati nell’unità, unici nella diversità e diversi nella loro atta coadunazione, in mirabile congruenza delle parti con dilettevole soavità di tinte, miracolo di consonanza e concordia di voci tra sé dissimili, compagine disposta a modo delle corde della cetra, consenziente e cospirante continuata cognazione per profonda e interna forza atta a operare l’univoco nel gioco stesso alterno degli equivoci, ornato e collazione di creature irreducibili a vicenda e a vicenda ridotte, opera di amorosa connessione retta da una regola celeste e mondana a un tempo (vincolo e stabile nesso di pace, amore, virtù, regime, potestà, ordine, origine, vita, luce, splendore, specie e figura), equalità numerosa risplendente per il rilucere della forma sopra le parti proporzionate della materia — ecco che si intrecciavano tutti i fiori e le foglie e i viticci e i cespi e i corimbi di tutte le erbe di cui si adornano i giardini della terra e del cielo, la viola, il citiso, la serpilla, il giglio, il ligustro, il narciso, la colocasia, l’acanto, il malobatro, la mirra e gli opobalsami.



Ma, mentre l’anima mia, rapita da quel concerto di bellezze terrene e di maestosi segnali soprannaturali, stava per esplodere in un cantico di gioia, l’occhio, accompagnando il ritmo proporzionato dei rosoni fioriti ai piedi dei vegliardi, cadde sulle figure che, intrecciate, facevano tutt’uno con il pilastro centrale che sosteneva il timpano. Cos’erano e che simbolico messaggio comunicavano quelle tre coppie di leoni intrecciati a croce trasversalmente disposta, rampanti come archi, puntando le zampe posteriori sul terreno e poggiando le anteriori sul dorso del proprio compagno, la criniera arruffata in volute anguiformi, la bocca aperta in un ringhio minaccioso, legati al corpo stesso del pilastro da una pasta, o un nido, di viticci? A calmare il mio spirito, come erano forse posti ad ammaestrare la natura diabolica dei leoni e a trasformarla in simbolica allusione alle cose superiori, sui lati del pilastro, erano due figure umane, innaturalmente lunghe quanto la stessa colonna e gemelle di altre due che simmetricamente da ambo i lati le fronteggiavano sui piedritti istoriati ai lati esterni, ove ciascuna delle porte di quercia aveva i propri stipiti: erano dunque quattro figure di vegliardi, dai cui parafernali riconobbi Pietro e Paolo, Geremia e Isaia, contorti anch’essi come in un passo di danza, le lunghe mani ossute levate a dita tese come ali, e come ali le barbe e i capelli mossi da un vento profetico, le pieghe delle vesti lunghissime agitate dalle lunghissime gambe dando vita a onde e volute, opposti ai leoni ma della stessa materia dei leoni. E mentre ritraevo l’occhio affascinato da quella enigmatica polifonia di membra sante e di lacerti infernali, vidi a lato del portale, e sotto le arcate profonde, talora istoriati sui contrafforti nello spazio tra le esili colonne che li sostenevano e adornavano, e ancora sulla folta vegetazione dei capitelli di ciascuna colonna, e di lì ramificandosi verso la volta silvestre delle multiple arcate, altre visioni orribili a vedersi, e giustificate in quel luogo solo per la loro forza parabolica e allegorica o per l’insegnamento morale che trasmettevano: e vidi una femmina lussuriosa nuda e scarnificata, rosa da rospi immondi, succhiata da serpenti, accoppiata a un satiro dal ventre rigonfio e dalle gambe di grifo coperte di ispidi peli, la gola oscena, che urlava la propria dannazione, e vidi un avaro, rigido della rigidità della morte sul suo letto sontuosamente colonnato, ormai preda imbelle di una coorte di demoni di cui uno gli strappava dalla bocca rantolante l’anima in forma di infante (ahimè mai più nascituro alla vita eterna), e vidi un orgoglioso cui un demone s’installava sulle spalle ficcandogli gli artigli negli occhi, mentre altri due golosi si straziavano in un corpo a corpo ripugnante, e altre creature ancora, testa di capro, pelo di leone, fauci di pantera, prigionieri in una selva di fiamme di cui quasi potevi sentire l’alito ardente. E intorno a loro, frammisti a loro, sopra di loro e sotto ai loro piedi, altri volti e altre membra, un uomo e una donna che si afferravano per i capelli, due aspidi che risucchiavano gli occhi di un dannato, un uomo ghignante che dilatava con le mani adunche le fauci di un’idra, e tutti gli animali del bestiario di Satana, riuniti a concistoro e posti a guardia e corona del trono che li fronteggiava, a cantarne la gloria con la loro sconfitta, fauni, esseri dal doppio sesso, bruti dalle mani con sei dita, sirene, ippocentauri, gorgoni, arpie, incubi, dracontopodi, minotauri, linci, pardi, chimere, cenoperi dal muso di cane che lanciavano fuoco dalle narici, dentetiranni, policaudati, serpenti pelosi, salamandre, ceraste, chelidri, colubri, bicipiti dalla schiena armata di denti, iene, lontre, cornacchie, coccodrilli, idropi dalle corna a sega, rane, grifoni, scimmie, cinocefali, leucroti, manticore, avvoltoi, parandri, donnole, draghi, upupe, civette, basilischi, ypnali, presteri, spectafichi, scorpioni, sauri, cetacei, scitali, anfisbene, jaculi, dipsadi, ramarri, remore polipi, murene e testuggini. L’intera popolazione degli inferi pareva essersi data convegno per far da vestibolo, selva oscura, landa disperata dell’esclusione, all’apparizione dell’Assiso del timpano, al suo volto promettente e minaccioso, essi, gli sconfitti dell’Armageddon, di fronte a chi verrà a separare definitivamente i vivi dai morti. E tramortito (quasi) da quella visione, incerto ormai se mi trovassi in un luogo amico o nella valle del giudizio finale, sbigottii, e a stento trattenni il pianto, e mi parve di udire (o udii davvero?) quella voce e vidi quelle visioni che avevano accompagnato la mia fanciullezza di novizio, le mie prime letture dei libri sacri e le notti di meditazione nel coro di Melk, e nel deliquio dei miei sensi debolissimi e indeboliti udii una voce potente come di tromba che diceva « quello che vedi scrivilo in un libro » (e questo ora sto facendo), e vidi sette lampade d’oro e in mezzo alle lampade Uno simile a figlio d’uomo, cinto al petto con una fascia d’oro, candidi la testa e i capelli come lana candida, gli occhi come fiamma di fuoco, i piedi come bronzo ardente nella fornace, la voce come il fragore di molte acque, e teneva nella destra sette stelle e dalla bocca gli usciva una spada a doppio taglio. E vidi una porta aperta nel cielo e Colui che era assiso mi parve come diaspro e sardonio e un’iride avvolgeva il trono e dal trono uscivano lampi e tuoni. E l’Assiso prese nelle mani una falce affilata e gridò: « Vibra la tua falce e mieti, è giunta l’ora di mietere perché è matura la messe della terra »; e Colui che era assiso vibrò la sua falce e la terra fu mietuta.

Fu allora che compresi che d’altro non parlava la visione, se non di quanto stava avvenendo nell’abbazia e avevamo colto dalle labbra reticenti dell’Abate — e quante volte nei giorni seguenti non tornai a contemplare il portale, sicuro di vivere la vicenda stessa che esso raccontava. E compresi che ivi eravamo saliti per essere testimoni di una grande e celeste carneficina.

Tremai, come fossi bagnato dalla pioggia gelida d’inverno. E udii un’altra voce ancora, ma questa volta essa veniva dalle mie spalle ed era una voce diversa, perché partiva dalla terra e non dal centro sfolgorante della mia visione; e anzi spezzava la visione perché anche Guglielmo (a quel punto mi riavvidi della sua presenza), sino ad allora perduto anch’egli nella contemplazione, si volgeva come me.
L’essere alle nostre spalle pareva un monaco, anche se la tonaca sudicia e lacera lo faceva assomigliare piuttosto a un vagabondo, e il suo volto non era dissimile da quello dei mostri che avevo appena visto sui capitelli. Non mi è mai accaduto in vita, come invece accadde a molti miei confratelli, di essere visitato dal diavolo, ma credo che se esso dovesse apparirmi un giorno, incapace per decreto divino di celare appieno la sua natura anche quando volesse farsi simile all’uomo, esso non avrebbe altre fattezze di quelle che mi presentava in quell’istante il nostro interlocutore. La testa rasata, ma non per penitenza, bensì per l’azione remota di qualche viscido eczema, la fronte bassa, ché se egli avesse avuto capelli sul capo essi si sarebbero confusi con le sopracciglia (che aveva dense e incolte), gli occhi erano rotondi, con le pupille piccole e mobilissime, e lo sguardo non so se innocente o maligno, e forse entrambe le cose, a tratti e in momenti diversi. Il naso non poteva dirsi tale se non perché un osso si dipartiva dalla metà degli occhi ma come si staccava dal volto subito ne rientrava, trasformandosi in null’altro che due oscure caverne, narici amplissime e folte di peli. La bocca, unita alle narici da una cicatrice, era ampia e sgraziata, più estesa a destra che a sinistra, e tra il labbro superiore, inesistente, e l’inferiore, prominente e carnoso, emergevano con ritmo irregolare denti neri e aguzzi come quelli di un cane.

L’uomo sorrise (o almeno così credetti) e levando il dito come per ammonire, disse:



« Penitenziagite! Vide quando draco venturus est a rodegarla l’anima tua! La mortz est super nos! Prega che vene lo papa santo a liberar nos a malo de todas le peccata! Ah ah, ve piase ista negromanzia de Domini Nostri Iesu Christi! Et anco jois m’es dols e plazer m’es dolors... Cave el diabolo! Semper m’aguaita in qualche canto per adentarme le carcagna. Ma Salvatore non est insipiens! Bonum monasterium, et aqui se magna et se priega dominum nostrum. Et el resto valet un figo seco. Et amen. No? »

Dovrò, nel prosieguo di questa storia, parlare ancora, e molto, di questa creatura e riferirne i discorsi. Confesso che mi riesce molto difficile farlo perché non saprei dire ora, come non compresi mai allora, che genere di lingua egli parlasse. Non era il latino, in cui ci esprimevamo tra uomini di lettere all’abbazia, non era il volgare di quelle terre, né altro volgare che mai avessi udito. Credo di avere dato una pallida idea dei suo modo di parlare riferendo poco sopra (così come me le ricordo) le prime parole che udii da lui. Quando più tardi appresi della sua vita avventurosa e dei vari luoghi in cui era vissuto, senza trovar radici in alcuno, mi resi conto che Salvatore parlava tutte le lingue, e nessuna. Ovvero si era inventata una lingua propria che usava i lacerti delle lingue con cui era entrato in contatto — e una volta pensai che la sua fosse, non la lingua adamica che l’umanità felice aveva parlato, tutti uniti da una sola favella, dalle origini del mondo sino alla Torre di Babele, e nemmeno una delle lingue sorte dopo il funesto evento della loro divisione, ma proprio la lingua babelica del primo giorno dopo il castigo divino, la lingua della confusione primeva. Né d’altra parte potrei chiamare lingua la favella di Salvatore, perché in ogni lingua umana vi sono delle regole e ogni termine significa ad placitum una cosa, secondo una legge che non muta, perché l’uomo non può chiamare il cane una volta cane e una volta gatto, né pronunciare suoni a cui il consenso delle genti non abbia assegnato un senso definito, come accadrebbe a chi dicesse la parola « blitiri ». E tuttavia, bene o male, io capivo cosa Salvatore volesse intendere, e così gli altri. Segno che egli parlava non una, ma tutte le lingue, nessuna nel modo giusto, prendendo le sue parole ora dall’una ora dall’altra. Mi avvidi pure in seguito che egli poteva nominare una cosa ora in latino ora in provenzale, e mi resi conto che, più che inventare le proprie frasi, egli usava disiecta membra di altre frasi, udite un giorno, a seconda della situazione e delle cose che voleva dire, come se riuscisse a parlare di un cibo, intendo, solo con le parole delle genti presso cui aveva mangiato quel cibo, ed esprimere la sua gioia solo con sentenze che aveva udito emettere da gente gioiosa, il giorno che egli aveva provato parimenti gioia. Era come se la sua favella fosse quale la sua faccia, messa insieme con pezzi di facce altrui, o come vidi talora dei preziosi reliquiari (si licet magnis componere parva, o alle cose divine le diaboliche) che nascevano dai detriti di altri oggetti sacri. In quel momento, in cui lo incontrai per la prima volta, Salvatore mi apparve, e per il volto, e per il modo di parlare, un essere non dissimile dagli incroci pelosi e ungulati che avevo appena visto sotto il portale. Più tardi mi accorsi che l’uomo era forse di buon cuore e di umore faceto. Più tardi ancora... Ma andiamo per ordine. Anche perché, non appena egli ebbe parlato, il mio maestro lo interrogò con molta curiosità.

« Perché hai detto penitenziagite? » chiese.

« Domine frate magnificentisimo, » rispose Salvatore con una sorta di inchino, « Jesus venturus est et li homini debent facere penitentia. No? »

Guglielmo lo guardò fissamente: « Sei venuto qui da un convento di minoriti? »

« No intendo. »

« Chiedo se sei vissuto tra i frati di santo Francesco, chiedo se hai conosciuto i cosiddetti apostoli... »

Salvatore impallidì, ovvero il suo volto abbronzato e belluino divenne grigio. Fece un profondo inchino, pronunciò a mezze labbra un « vade retro », si segnò devotamente e fuggì voltandosi indietro ogni tanto.

« Cosa gli avete chiesto? » domandai a Guglielmo.

Egli restò un poco soprappensiero. « Non importa, te lo dirò dopo. Ora entriamo. Voglio trovare Ubertino. »

Era da poco trascorsa l’ora sesta. Il sole, pallido, penetrava da occidente, e quindi da poche e sottili finestre, nell’interno della chiesa. Una striscia sottile di luce toccava ancora l’altare maggiore, il cui paliotto mi parve rilucere di un fulgore aureo. Le navate laterali erano immerse nella penombra.

Presso all’ultima cappella prima dell’altare, nella navata di sinistra, si ergeva una esile colonna su cui stava una Vergine in pietra, scolpita nello stile dei moderni, dal sorriso ineffabile, il ventre prominente, il bambino in braccio, vestita di un abito grazioso, con un sottile corsetto. Ai piedi della Vergine, in preghiera, quasi prostrato, stava un uomo, vestito con gli abiti dell’ordine cluniacense.

Ci appressammo. L’uomo, udendo il rumore dei nostri passi, alzò il volto. Era un vegliardo, col volto glabro, il cranio senza capelli, i grandi occhi celesti, una bocca sottile e rossa, la pelle candida, il teschio ossuto a cui la pelle aderiva come fosse una mummia conservata nel latte. Le mani erano bianche, dalle dita lunghe e sottili. Sembrava una fanciulla avvizzita da una morte precoce. Posò su di noi uno sguardo dapprima smarrito, come lo avessimo disturbato in una visione estatica, poi il volto gli si illuminò di gioia.

« Guglielmo! » esclamò. « Fratello mio carissimo! » Si alzò a fatica e si fece incontro al mio maestro, abbracciandolo e baciandolo sulla bocca. « Guglielmo! » ripeté, e gli occhi gli si inumidirono di pianto. « Quanto tempo! Ma ti riconosco ancora! Quanto tempo, quante vicende! Quante prove che il Signore ci ha imposto! » Pianse. Guglielmo gli rese l’abbraccio, evidentemente commosso. Ci trovavamo davanti a Ubertino da Casale.

Di lui avevo già sentito parlare e a lungo, anche prima di venire in Italia, e ancor più frequentando i francescani della corte imperiale. Qualcuno mi aveva persino detto che il più grande poeta di quei tempi, Dante Alighieri da Firenze, morto da pochi anni, aveva composto un poema (che io non potei leggere perché era scritto nel volgare toscano) a cui avevano posto mano e cielo e terra, e di cui molti versi altro non erano che una parafrasi di brani scritti da Ubertino nel suo « Arbor vitae crucifixae ». Né questo era il solo titolo di merito di quell’uomo famoso. Ma per permettere al mio lettore di capire meglio l’importanza di quell’incontro, dovrò cercare di ricostruire le vicende di quegli anni, così come le avevo comprese e durante il mio breve soggiorno nell’Italia centrale, da parole sparse del mio maestro, e ascoltando i molti colloqui che Guglielmo aveva avuto con abati e monaci nel corso del nostro viaggio

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