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E. M. S. Anno II n. 3 Settembre-Dicembre 2010 Ricerche/Articles


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Egli infine coglie l'occasione per fornire una breve summa delle caratteristiche del buon sovrano che dovrebbe essere dotato di «nobile sentire» – [...]– e di «sincerità dell'ani-mo» – –, non simulare, ma mostrare autenticamente la propria pietà –  –, dovrebbe da ultimo rispondere a determinati principi e non essere «senza regole» (); il confronto a contrariis con la vita e l'operato di Andronico appare quanto mai stridente.

La descrizione dell'atto finale con cui si conclude l'ampia sezione della Narrazione Cronologica dedicata a questo personaggio, torna a presentarlo a guisa di bestia; questa volta, però, il suo essere fiera non è più assimilabile a quella figura di cui, negli anni dell'ascesa al trono e del regno, Niceta raccontava le nefandezze volte a sradicare «tutta la piantagione imperiale» (Chr. Dieg., IX, 12, 4) e della quale denigrava la condotta violenta e feroce, ma è solo ciò che miseramente rimane di un corpo un tempo prestante (Chr. Dieg., XI, 8, 11) e ormai fiaccato dalle terribili torture68 – «che si tralascia di raccontare» (Chr. Dieg., XI, 8, 9) – cui il decaduto imperatore viene sottoposto prima della morte:
Dopo alcuni giorni Andronico [...] fu gettato come carogna di una bestia [] sotto una volta dell'Ippodromo (Chr. Dieg., XI, 8, 14).69
Tutto ciò in virtù del fatto che egli è «finito in un istante come un sogno al risveglio, annullata nella città la sua immagine» (Chr. Dieg., XI, 8, 13).70

Segue il racconto dello scempio delle effigi dell'imperatore perpetrato dalla folla di Bisanzio cui, seppur metaforicamente, anche Niceta stesso sembra partecipare: l'utilizzo dell'espressione  e la descrizione dello stato di abbandono in cui, per un certo tempo, versa il cadavere, paiono infatti gli ultimi sarcastici71 richiami a chi, tanto nella vita pubblica, quanto in quella privata, per lui altro non è stato, se non un tiranno ferino e selvaggio.


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Abstract
Metafore bizantine del tiranno: Niceta Coniata e la "bestia" Andronico I Comneno
(THE BYZANTINE METAPHORS OF THE TYRANT: NIKETAS CHONIATES AND THE “BEAST” ANDRONIKOS I KOMNENOS)
Keywords: tyrant, metaphors, Niketas Choniates, Andronikos, Byzantium
This paper deals with the section of Chronikè Diéghesis that Niketas Choniates devoted to the Byzantine emperor Andronikos I Komnenos (1183-1185). According to the author, the emperor could be regarded as a wild and bloody tyrant. This image became a sort of tyrant’s model for some western political thinkers such as Egnatius, Bodin and Crucé. The analysis focuses on the political metaphors used to describe the politics of Andronikos in order to explain his political project. Although Niketas was a fierce opponent of Andronikos’s government, considering the emperor a cruel tyrant and criticizing his regime of terror, he gives a complex and not only negative judgment about him.
Andrea Catanzaro

Università degli Studi di Genova

Facoltà di Scienze Politiche

Dipartimento di Scienze Politiche e Sociali (DISPOS)

catanzaro.andrea@fastwebnet.it

ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100302

ISSN 2036-3907 EISSN 2037-0520 DOI: 10.4406/storiaepolitica20100302

Arap El Ma’ani


Note su un manoscritto inedito

di Raphaël Zakhur (1759-1831).

Contributo alla storia della fortuna

del Principe di Machiavelli nel mondo arabo.


Voi fate gran romore in Italia del vostro Machiavelli. Lo feci tradurre […] per sapere che cosa mai vada egli dicendo; ma confesso che l’ho trovato al di sotto della aspettazione mia e della sua fama […].72
Il mio interesse per l’argomento fu risvegliato dal convegno su “Traduzione e Divulgazione: Le prime versioni del Principe in età moderna”, svoltosi all’Università di Genova il 30 settembre 2008. Sentendo parlare delle prime traduzioni del Principe nelle diverse lingue occidentali sorse in me spontanea la domanda a quando risalisse la prima traduzione in lingua araba, ammesso ve ne fosse una: sarebbe stato interessante indagare quando, come e perché si fosse giunti a questa traduzione e soprattutto capire come fosse stato accolto il testo del Machiavelli, sotto tanti aspetti innovatore se non rivoluzionario, in quella particolare realtà arabo-islamica della quale avevo avuto modo di sperimentare in prima persona gli stereotipi religiosi e culturali.

All’inizio disponevo di pochissimi elementi e di nessuna certezza, e mi venne mosso il giustificato rilievo che la letteratura occidentale aveva fatto il suo ingresso nel mondo arabo molto tardi, tanto che, per poter leggere in lingua araba opere del Cinquecento, soprattutto italiano e francese, e dei secoli seguenti, si era dovuto attendere in alcuni casi l’Ottocento, in altri addirittura il Novecento, secolo nel quale in diversi paesi del mondo arabo-islamico comparvero appunto le prime traduzioni di importanti testi occidentali.

Dalle primissime ricerche sembrò che effettivamente la prima traduzione araba del Principe dovesse collocarsi nel 1912, e fosse quella redatta da Mohammad Lutfi Gum’ah,73 poi però, grazie a ulteriori indagini, mi imbattei in una traduzione del Principe risalente ai primi decenni del secolo XIX ed eseguita su incarico di un personaggio che rivestì estrema importanza nel contesto storico arabo-egiziano, Mohammad Alì o, secondo la pronuncia turca, Mehemet Alì (1770-1849), che fu viceré d’Egitto dal 1805 al 1849. Subito immaginai che questa traduzione potesse realmente essere la prima in assoluto in lingua araba. Cominciai dunque a studiare il personaggio, la vita e l'azione politica di Mohammad Alì, per scoprire innanzitutto come fosse giunto a conoscere l’esistenza del trattato del Machiavelli e capire quali motivi l’avessero indotto ad interessarsi all’autore italiano fino a commissionarne una traduzione.

Da semplice membro di un contingente di trecento uomini inviato dal Sultano dell’Impero Ottomano perché si unisse al corpo militare turco nella lotta contro le truppe francesi di Napoleone74, Mohammad Alì divenne viceré d’Egitto. Egli aveva sempre creduto in un destino nazionale dell’Egitto, ma dovette creare tutto dal nulla, e per questo considerava questo paese come suo patrimonio personale che intendeva accrescere e difendere ad ogni costo.


Les dons personnels de Méhémet Ali faisaient de lui une exception; […] son intelligence rapide e sa capacité a saisir le faits d’une situation historique lui permettaient d’èliminer impitoyablement les obstacles, qui auraient pu bloquer l’action d’un esprit plus introspectif et moins audacieux. (Fargette 1996: 28).
Un’amicizia che si rivelò importantissima nella vita di Mohammad Alì fu quella stretta con un commerciante francese, un certo Monsieur Lion, uomo di grande esperienza che gli parlò del mondo moderno: società, politica ed economia. La sete di apprendimento del giovane Mohammad Alì fece il resto75 e da qui nacque il suo interesse per l’Occidente e l’arte politica.

Per la sua astuzia,76 prudenza77 e violenza,78 Mohammad Ali viene spesso descritto da taluni biografi come “machiavellico”; fu accostato al principe delineato da Machiavelli anche dai suoi ospiti più celebri e dai suoi più intimi collaboratori che videro in lui un uomo dal carattere pieno di contraddizioni: in certe circostanze dava l’impressione di essere molto cortese, affascinante e di grande eleganza; in altre si mostrava violento e disumano, pronto a tutto79 pur di difendere i suoi interessi. La sua condotta politica però non era lo specchio di una personalità lacerata, ma derivava dalla consapevolezza che in politica è sufficiente una frase imprudente o un gesto avventato per segnare la fine di un potere e forse di una vita: quindi Mohammad Alì si mostrò molto prudente nei suoi approcci, capace di alternare secondo il caso adulazione e finta umiltà con grande sangue freddo, brutalità e qualche necessario pentimento,80 facendo talvolta il doppio e persino il triplo gioco, frequenti voltafaccia e rovesciamenti di alleanze nel momento meno atteso in modo che il nemico di ieri diventasse l’alleato di oggi e magari tornasse a essere il nemico di domani.


S’il a l’esprit d’aventure, il n’a rien d’un aventurier. Ses décisions sont toujours mûrement réfléchies et discutée […] Il compense heureusement une instruction aussi faible par une mémoire prodigieuse et un instinct très sùr en ce qui concerne la connaissance des hommes et l’appréciation des situations politiques. Doué d’une intuition et d’une imagination exceptionnelles, il sera à même, grâce a ses vues prospectives de concevoir les plus vastes desseins que son énergie et se ténacité lui permettront de mettre à exécution. Son solide bon sens lui interdira d’aller trop loin et lui permettra d’esquisser de prudentes volte-face. (Fargette 1996: 25).
Dobbiamo però chiederci in quale ambiente vivesse Mohammad Alì e soprattutto quale fosse il terreno che avrebbe dovuto accogliere il pensiero del Machiavelli. Si tratta di un contesto arabo-islamico che opprime l’intelletto e la capacità di riflessione e limita il libero uso della ragione (adopero il presente perché la situazione non è cambiata in questi ultimi tempi):
[…] toute liberté de réflexion personnelle leur étant interdite [agli Arabi] … On ne leur enseigne pas davantage à rédiger des textes. Les enseignements concernent surtout les matières religieuses, à la rigueur juridico-religieuses. Mais ni philosophie, ni langues étrangères à l’exception du Turc et du Persan, ni histoire, ni géographie; les étudiants ne reçoivent par principe aucune ouverture sur l’univers extérieur au monde musulman. Les mathématiques sont limitées à des notions d’arithmétique, utiles pour le calcul des héritages et le partage des propriétés [...] L’astronomie est réduite à l’astrologie ou aux sciences divinatoires […] bien qu’interdites en principe […] (Fargette 1996:200).
Tuttavia Mohammad Alì, benché musulmano di religione, era grande ammiratore del mondo occidentale,81 non si lasciò fermare da preconcetti culturali o religiosi e scelse la strada dell’apertura all’Occidente, ossia di imitare il modello occidentale per modernizzare il suo paese. A questo scopo mantenne costanti rapporti con tutti i diplomatici europei in Egitto e con tutti gli ospiti stranieri che visitavano il paese.82 Nei suoi frequenti incontri con loro era solito chiedere notizie sugli sviluppi politici e scientifici dei loro paesi, sui sistemi di governo e sui più importanti libri pubblicati. Attorno al 1820 uno dei suoi ospiti, di cui purtroppo non mi è stato possibile rintracciare il nome, gli suggerì di leggere il Principe del Machiavelli osservando come questo libro, per i suoi contenuti, rispecchiasse perfettamente l’indole del viceré.

Tale desiderio di “illuminarsi” e di scoprire un’altra realtà, quella occidentale, alimentando cosi la speranza di una rinascita nazionale dell’Egitto, non era però completamente disinteressato e altruistico: Mohammad Alì voleva conoscere, studiare l’altro modello di vita politica e sociale inviando i migliori studiosi egiziani in Francia, affinché – appunto – si “illuminassero”, e ordinando la traduzione di alcuni testi. Ma questa conoscenza non era destinata ai suoi sudditi, bensì solo a se stesso e a pochi eletti, in altre parole: solo a chi faceva parte della classe dominante. Questa limitazione spiegherebbe l’imbarazzo che Mohammad Alì provò dinnanzi ad alcuni testi occidentali e l’incertezza se sottoporli o no a censura.


[…] une autre gazette apparait en Egypte: Le journal de Smyrne83, resolument anti-govermental, animé par un journaliste francais Bousquet-Deschamp. Il avait offert ses services au Vice Roi. Rapidment brouillè avec lui, il s’est exile en Asie Mineure d’ou il crée son journal. Il tire à boulets rouges cotre le régime ègyptien qualifié de tragédie masquée par un opéra bouffe. Sa plume ne manque pas de verve: il se moque des étrangers de l’entourage du pacha […] Le coups portent. Néanmoins Méhémet Ali résiste à la tentasion d’interdire le journal, car il tient à montrer à l’opinion publique égyptienne et européen que la iberté de la presse existe dans son pays. […] Ce que qui est d’autant plus utile que la presse européenne se montre manitenent beaucoup plus réservée, comme les récits des voyageurs si enthousiastes de l’action du vice-roi au début de son règne. L’image du despote éclairé s’estompe et certains commentateurs parle plutot de l’ordre dans le despotismo. (Fargette 1996:27).
Mohammad Alì era consapevole che questo ammodernamento avrebbe aumentato il suo potere sui sudditi immersi nell’ignoranza più completa, tranne che per gli studi religiosi, praticati ad altissimo livello dall’università Azhar: per i sudditi di fede musulmana l’unica fonte di conoscenza e quindi di legislazione e di organizzazione sociale e politica era e doveva restare quella contenuta nel libro sacro, il Corano, e nel Hadith (i detti e i fatti del profeta Maometto). Mohammad Alì era ben consapevole dei limiti posti dalla religione,84 ma, se non fece nulla per “illuminare” il popolo, era perché gli faceva comodo che esso restasse impegnato in tutt’altro, mentre lui si ammantava del titolo di sovrano moderato e liberale che tollera tutte le fedi religiose.
Méhémet Ali, musulman de tradition, n’a rien d’un fanatique anticipant la formule de Karl Marx, “la religion est l’opium du peuple”, il encourage les Egyptiens à la pratique de l’Islam. Absorbé par ses crotances, le peuple le laisserait libre ainsi de développer à sa guise ses grands desseins. (Fargette 1996:27).
Non ha qui molta importanza se Mohammad Alì, definito da alcuni dernier Pharaon, da altri il fondateur de L’Egypte moderne, da altri ancora il crudele, Zalem85 (ingiusto) Bascià, un tiranno del quale il popolo egiziano desiderava la morte o un liberatore dall’oppressione turca, al cui funerale gli Egiziani piansero per giorni, fosse un vero eroe nazionale del suo paese di adozione per aver avviato per il bene del suo popolo importanti processi di modernizzazione, o se a muoverlo fosse un mero interesse personale. Ciò che importa in questa sede è che, grazie a Mohammad Alì e al suo interesse per la cultura occidentale, venne intrapresa su larga scala una attività di traduzione di testi occidentali, aprendo le porte del mondo arabo alla letteratura e alla cultura europea dopo una chiusura durata tre lunghi secoli. Sua fu per esempio l’idea di fondare la tipografia di Bulaq nel 1820.

Rifa’ah Al-Tahtawi (1801-1873),86 uno degli studiosi mandati da Mohammad Alì in Francia, studiò, analizzò e descrisse lo stile di vita sociale, il credo religioso e la politica di quella – per lui – ancora sconosciuta parte del mondo, ma rimase perplesso dinnanzi a una realtà per lui completamente nuova, finendo per trovarsi al centro di un conflitto culturale tra le due realtà diversissime che invano cercò di conciliare. Imam dalla preparazione unicamente religiosa, caratterizzata da un atteggiamento radicale che non avrebbe permesso nessuna conoscenza al di fuori dei limiti del Corano e della Sunna del profeta, imbottito di letture coraniche e profetiche, Al-Tahtawi non poteva rinunciare alla sua preparazione azharita87 e alla sua religione, ma allo stesso tempo non poteva sottovalutare o disprezzare la realtà che vedeva dinnanzi a sé a Parigi, dove si confrontò per la prima volta con concetti assolutamente nuovi, davanti ai quali, dopo lo stupore, si imposero l’accettazione e l’ammissione che erano superiori a quelli in cui fino ad allora aveva creduto.

La superiorità dei princìpi occidentali era talmente evidente che non si poteva negare la loro validità. La difficoltà non da poco che immagino Al-Tahtawi dovette affrontare fu come spiegare a se stesso e poi alla sua gente l’esistenza di una civiltà che risultava superiore e più progredita, nonostante non fosse musulmana. La cultura e la religione islamiche infatti si intendono come il momento di massima culminazione che possa mai essere raggiunto dall’umanità, come punto d’arrivo in assoluto, perfezione che non ha nulla da invidiare ad altre religioni e civiltà. Che il lavoro di Al-Tahtawi (Takhlis Al-Thahab Al-Nafiis fi Dirasat Paris) venisse già ai suoi tempi pubblicato dimostra che egli riuscì in questa impresa di esporre concetti nuovi sia alla lingua che alla mentalità araba, utilizzando argomentazioni strettamente religiose e stando molto attento a non “sorprendere”, perché l’effetto di sorpresa o di novità non era e non è tuttora gradito, e lui lo sapeva bene. Consapevole che era impossibile trasmettere nuovi concetti mettendoli a confronto o, peggio, in contrapposizione con l’Islam, Al-Tahtawi usò tutta la sua abilità dialettica per introdurre le nuove idee nel modo meno conflittuale possibile. Si notano nel suo libro uno sforzo enorme e alcune forzature, a mio avviso fastidiose, tendenti a rendere le nuove idee meno “nuove”. Ed è rimarchevole la precauzione con cui cercò di conferire loro un impatto meno traumatico, facendo precedere ogni osservazione da una adeguata presentazione rigorosamente religiosa e seguire da una sorta di giustificazione. Prendiamo per esempio vocaboli e quindi concetti come “patria”, “libertà”, “democrazia” e “fede” (in senso mondano) che sono ancor oggi del tutto sconosciuti nel mondo arabo musulmano. I risultati di questa operazione rimangono talvolta oscuri e contraddittori, come quando Al-Tahtawi sostiene che esiste la libertà nei limiti della legge islamica, e definisce la libertà di culto unicamente come libertà di abbracciare l’Islam, ma non di abbandonarlo. Si tratta insomma di una libertà che andrebbe sempre a vantaggio dell’Islam e mai a suo svantaggio. C'è da chiedersi se Al-Tahtawi avesse compreso veramente il significato dei concetti di “libertà” e “democrazia” o se fosse ancora sotto l’effetto ipnotizzante della religione.

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