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13 febbraio Memorie, ma non solo di Paolo Brunatto 13-17 febbraio Non ci resta che ridere. Il cinema di Roberto Benigni


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Vietato ai minori di anni 14
ore 21.15

Banditi a Milano (1968)

Regia: Carlo Lizzani; soggetto: C. Lizzani; sceneggiatura: Massimo De Rita, Dino Maiuri, C. Lizzani; fotografia: Giuseppe Ruzzolini; musica: Riz Ortolani; montaggio: Franco Fraticelli; interpreti: Gian Maria Volonté, Tomas Milian, Margaret Lee, Don Backy, Ray Lovelock, Ezio Sancrotti; origine: Italia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica; durata: 102’



La caduta della banda capitanata da Pietro Cavallero, che nella seconda metà degli anni Sessanta si rese protagonista di 17 rapine. «Lizzani ha mano felice nel rappresentare la natura impiegatizia, prosaica e piccolo-borghese di questi gangster padani: il mattino della rapina, Cavallero e i suoi si alzano di buon’ora, si recano da Torino a Milano in pullman e fanno la colazione al bar, come comuni pendolari. Rispetto a Svegliati e uccidi, la costruzione drammaturgica è più complessa e stratificata, affidata a una serie di flashback che intervallano l’interrogatorio del complice di Cavallero catturato subito dopo il colpo. La rapina al Banco di Napoli e il lunghissimo inseguimento in auto che segue posseggono un dinamismo e una forza visiva tuttora notevoli, mentre il capoluogo lombardo è uno scenario vivido e credibile» (Curti).
mercoledì 11

ore 17.00

La baraonda (1980)

Regia: Florestano Vancini; soggetto: Massimo De Rita, Lucio Battistrada, F. Vancini; sceneggiatura: L. Battistrada, F. Vancini; fotografia: Alfio Contini; musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Enzo Meniconi; interpreti: Giuliano Gemma, Edy Angelillo, Aschiei Bacchiella, Walter Avogadri, Andrea Roncato, Francesco Salvi; origine: Italia; produzione: A.M.A. Film, Uti produzioni Associate; durata: 107’



Durante la Sei giorni ciclistica al Palasport di Milano il giovane medico di turno rincontra una ragazza estroversa, dalla quale aveva avuto un figlio. È l’occasione per riavvicinarsi nella “baraonda” generale. «La “Sei giorni” come una corsa di matti condannati a darsi la caccia, il Palazzo dello sport di Milano come un girone dantesco nel quale un’umanità variopinta s’accalca, si spinge e recita una tragica festa. Cioè il gran bailamme dell’epoca nostra, kermesse e babele: la baraonda. […] Il film è un apologo pessimista (un po’ come lo fu L’ingorgo di Comencini) con venature agrodolci, ma medicato da due speranze: nel coraggio delle giovani donne, che ormai sanno affrontare da sole l’ignoto, e nell’avvento messianico di qualcosa o qualcuno, sia pure un disco volante, che fermi la trottola impazzita. […] Date come cornice alla recita la pista e la platea del Palasport, con le gare dei ciclisti e i numeri d’attrazione, e l’apologo di Vancini acquista tutto il suo sapore: appunto sul disordine e le contraddizioni di oggi, sulla società che diventa spettacolo, e la disperazione che potremmo trarne se il mondo non ospitasse anche ragazze intrepide come Erminia» (Grazzini). «Abbiamo girato in tre settimane: una settimana intera di notte, e nelle altre due abbiamo ripreso tutto quello che era al di fuori della pista, e non includeva la folla. Quando dico “girato in tre settimane” non lo faccio né per vantarmi né per altro: era il tempo che mi serviva, il tempo necessario» (Vancini).
ore 19.00

L’ingorgo (1979)

Regia: Luigi Comencini; soggetto: L. Comencini; sceneggiatura: L. Comencini, Ruggero Maccari, Bernardino Zapponi; fotografia: Ennio Guarnieri; musica: Fiorenzo Carpi; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Alberto Sordi, Annie Girardot, Fernando Rey, Patrick Dewaere, Marcello Mastroianni, Ugo Tognazzi; origine: Italia/Francia/Germania/Spagna; produzione: Clesi Cinematografica, Greenwich Productions, José Frade Producciones, Albatros Film; durata: 125’



«Ci sono delle automobili in una Roma che sembra impazzita. Tutte le strade sono intasate e le automobili confluiscono in un punto dove c’è un blocco totale. E non possono più muoversi. A bordo, i passeggeri passano presto dall’attesa all’esasperazione e poi all’angoscia. Fino ai limiti della pazzia. Incapaci di fare qualcosa, incapaci di aiutarsi gli uni con gli altri. Chiusi, anzi, in un caparbio rifiuto di ragionare su quello che sta accadendo e di trovarvi un rimedio. Aspettano. Ciechi e sordi. E alla fine moriranno. Perché quell’ingorgo diventerà una tomba per tutti. Ecco, ho pensato che oggi tutti quelli che vanno in automobile non si incontrano mai, non si conoscono, ciascuno preso dai propri problemi e totalmente incapace di pensare a quelli degli altri. Un nuovo tipo di incomunicabilità, se vuoi, di natura quasi tecnica» (Comencini).
ore 21.15

La violenza: quinto potere (1972)

Regia: Florestano Vancini; soggetto: dalla commedia La violenza di Giuseppe Fava; sceneggiatura: Massimo Felisatti, Fabio Pittorru, F. Vancini, con la collaborazione di Dino Maiuri, Massimo De Rita; fotografia: Toni Secchi; musica: Ennio Morricone; montaggio: Tatiana Morigi Casini; interpreti: Enrico Maria Salerno, Gastone Moschin, Riccardo Cucciolla, Julien Gujomar, George Wilson, Mario Adorf; origine: Italia; produzione: Dino De Laurentiis Cinematografica; durata: 101’



In un tribunale siciliano è in corso il processo contro due cosche mafiose in lotta fra di loro per una diga da costruire. Solo due imputati sono disposti a parlare… Grande prova di Ciccio Ingrassia in un ruolo, per lui inconsueto, drammatico. «Da poco era nata la prima commissione antimafia del parlamento italiano, presieduta dall’avvocato genovese Cattanei. Nel ’72 pubblica i primi atti, così noi ci precipitiamo alla libreria di Montecitorio. Erano documenti sconvolgenti, secondo me tuttora validissimi. Avevano capito tutto, compreso quello che sarebbe successo in seguito. Dai documenti risultavano coinvolgimenti di cariche politiche, con relativi nomi. Tutto questo materiale “politico”, naturalmente, nel dramma di Fava non c’era. Ce ne servimmo per la sceneggiatura. L’operazione consisteva nell’innestare all’interno del nucleo narrativo rappresentato dal dramma le trame politiche scaturite dagli atti parlamentari» (Vancini).

Vietato ai minori di anni 14
giovedì 12

ore 17.00

La neve nel bicchiere (1984)

Regia: Florestano Vancini; soggetto: dal romanzo omonimo di Nerino Rossi; sceneggiatura: Massimo Felisatti, F. Vancini; fotografia: Aldo Di Marcantonio; musica: Carlo Rustichelli; montaggio: Enzo Meniconi; interpreti: Massimo Ghini, Anna Teresa Rossini, Antonio Piazza, Luigi Mezzanotte, Marne Maitland, Anna Lelio; origine: Italia; produzione: Ve-Ga Produzioni, Rai; durata: 153’



Le vicende di una famiglia della Bassa Padana dal 1898 al 1927. «Il libro di Nerino Rossi, largamente autobiografico, arriva sino alla seconda guerra mondiale, e il film si arresta invece assai prima. Ma questo non gli nuoce, anzi forse gli giova sottolineare il senso d’un tragitto storico che si compie con l’inurbarsi di quella famiglia e il suo dischiudersi alla civiltà dell'istruzione. Un tragitto assai ricco di motivi, che Felisatti ha colto con sincera partecipazione ai valori morali e del costume, alle pieghe psicologiche e sentimentali, al significato di certe figure del tempo (Mussolini, Don Minzoni), e Vancini visivamente espresso con un realismo ben controllato onde evitare i rischi dell’agiografia demagogica e del pietismo nostalgico» (Grazzini). «Non conoscevo personalmente Rossi, solo in seguito siamo diventati amici. Leggendo il suo primo romanzo, dal titolo La neve nel bicchiere, mi resi conto che la storia della sua famiglia era per certi versi anche la storia della mia famiglia» (Vancini).
ore 19.45

Gli ultimi (1962)

Regia: Vito Pandolfi; soggetto: David Maria Turoldo; sceneggiatura: D. M. Turoldo, V. Pandolfi, con la collaborazione di Mario Casamassima; fotografia: Armando Nannuzzi; coordinamento musicale: Carlo Rustichelli; montaggio: Jolanda Benvenuti; interpreti: Adelfo Galli, Lino Turoldo, Margherita Tonino, Riedo Puppo, Vera Pescarolo, Elio Ciol; origine: Italia; produzione: Le Grazie Film; durata: 90’



«La dura vita di una famiglia di poveri contadini in un paesino della bassa friulana all’inizio degli anni ’30. La vicenda ha al centro il piccolo Checo (A. Galli, di Nomadelfia) con la sua infelicità di bambino che – in quanto diverso dagli altri per intelligenza, sensibilità, fantasia – è sbeffeggiato dai coetanei (lo chiamano “lo spaventapasseri”), incompreso dagli adulti. Tratto dal racconto autobiografico Io non ero un fanciullo (inedito fino al 1980) di padre David Maria Turoldo (1916-92), poeta e saggista, e girato interamente a Coderno (Udine), suo paese natale, con gli abitanti come attori, è l’austera rievocazione di una condizione umana e sociale (il mondo contadino che la nascente civiltà industriale pone in secondo piano e trasforma), la proiezione di una solitudine individuale (e spirituale) sullo sfondo di un’altra solitudine collettiva (e materiale). La rinuncia alla presa diretta (difficile in quel periodo), il doppiaggio in un italiano letterario, il ricorso alla voce narrante qua e là ridondante, la scelta del piccolo protagonista di una bellezza quasi aristocratica (in contraddizione col nomignolo beffardo) indeboliscono il film che, comunque, rimane un’opera unica nel panorama di quegli anni. L’insuccesso commerciale ebbe molte cause tra cui il boicottaggio da parte delle autorità ecclesiastiche che, non vedendo di buon occhio il sodalizio di Turoldo, frate scomodo, con Pandolfi, intellettuale laico e marxista, esclusero il film dal circuito delle sale da loro controllate. C’è una ragione più profonda: fu un film intempestivo, uscito troppo presto. Soltanto nel decennio successivo il legame tra cultura e mondo contadino fu approfondito, magari colorandosi di rimpianto e nostalgia. Il successo di L’albero degli zoccoli (1978) ne è un sintomo. Del film, cui contribuisce assai il suggestivo bianconero di Armando Nannuzzi, esistono copie con 2 finali diversi» (Morandini). «Storie di bimbi hanno commosso tanti artisti. Esse nella letteratura delinearono molte figure indimenticabili. Due mi sono particolarmente care per motivi diversi, e che non è ora il momento di esporre: il Moscardino di Enrico Pea e Poil de carotte di Jules Renard.
Il film dal titolo
Gli ultimi, su soggetto di Padre Turoldo, attuato per la regia di Pandolfi, presenta un bimbo. Dirò con pochissime frasi la mia commozione: è forte quanto quella provata alla lettura di Poil de carotte e di Moscardino. La suggestione cinematografica è, d’altra parte, questa volta solo paragonabile a quella da me provata guardando L’uomo di Aran [Robert Flaherty] o Vita di O-Haru donna galante [Kenji Mizoguchi]. Sarà la solitudine stupenda del Friuli nella quale ho vissuto nei primi due anni della prima guerra, alternandone il soggiorno con il Carso, sarà l’arte del bimbo incredibilmente spontanea e vera, sarà il modo semplice e assoluto di mostrare i terribili simboli della morte e della fame, so che si tratta di un film indimenticabile, infinitamente più bello dei pochi che quest’anno ho ammirato, si tratta dell’unico film di quest'anno unicamente dettato da schietta e alta poesia» (Ungaretti).

Copia restaurata dalla Cineteca del Friuli
ore 21.30

Bronte: cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972)

Regia: Florestano Vancini; soggetto: Benedetto Benedetti, Fabio Carpi, F. Vancini; fotografia: Nenad Jovicic; musica: Egisto Macchi; montaggio: Roberto Perpignani; interpreti: Ivo Garrani, Mariano Rigillo, Filippo Scelzo, Radan Kukic, Loris Bazzocchi, Anna Maria Chio; origine: Italia/Jugoslavia; produzione: Alfa Cinematografica, Rai, Histria Film; durata: 109’



Dopo l’impresa dei Mille, nella cittadina siciliana di Bronte la situazione non cambia. Un avvocato liberale cerca di procedere alla riforme e a riportare l’uguaglianza, mentre un carbonaro, insieme ai suoi picciotti, semina violenza. Il generale Bixio si reca a Bronte per spegnere i focolai di rivolta. «La cosa curiosa è questa: pur essendo girato nel ’70, Bronte era stato scritto dieci anni prima. Se lo avessi girato nel ’61, addirittura prima de La banda Casaroli, avrebbe avuto un impatto completamento diverso. Invece esce nel ’72, in una fase difficilissima per il paese, contraddistinta dall’estremismo di sinistra» (Vancini).
13-17 febbraio

Non ci resta che ridere. Il cinema di Roberto Benigni

Il documentario su Berlinguer ti voglio bene di Paolo Brunatto, grande esponente dell’underground italiano e da anni impegnato in una meritoria opera di consolidamento della nostra memoria cinematografica (con le serie Schegge di utopia e I clandestini del cinema italiano), offre l’occasione per un omaggio all’arte comica di Roberto Benigni, la personalità più complessa e dirompente del mondo dello spettacolo nostrano, capace di coniugare il riso con la poesia. Attore, regista, show-man, ma anche uomo di profonda cultura, Benigni attraversa la storia dell’Italia degli ultimi quarant’anni, dall’epoca delle sue folgoranti apparizioni televisive che hanno scosso il conformismo della tv pubblica, lanciando un personaggio dalla comicità esplosiva, ai suoi successi internazionali. La storia di Benigni regista e attore cinematografico è interamente incentrata sul tentativo, assolutamente riuscito, di inserire i tempi reiterati di questo personaggio, che raggiunge i suoi vertici nei monologhi, in un meccanismo narrativo in grado di valorizzare la magia dell’improvvisazione e gli sberleffi e i guizzi non-sense che rendono geniale il comico toscano. Un’operazione alla quale hanno giovato le interpretazioni in film diretti da registi del calibro di Ferreri, Fellini e Jarmusch, i quali hanno messo in sintonia il loro universo con quello di Benigni, costruendo dei personaggi adatti ai suoi tempi e modi di recitazione. Mentre per i film diretti dal comico, che si è rivelato col tempo regista raffinato e sensibile, l’apporto fondamentale dello sceneggiatore Vincenzo Cerami ha permesso di allargare gli orizzonti e di realizzare film sempre più congegnati, in cui la personalità dell’attore ha modo di dispiegarsi trasversalmente: vittima e carnefice (Il mostro e Johnny Stecchino), angelo e demone (Il piccolo diavolo e Pinocchio), il male e il bene che si confondono fino a capovolgere la realtà con la forza di un sorriso (La vita è bella). Del resto, la capacità di sovvertire l’ordine, qualunque esso sia, fa di Benigni un uomo di spettacolo imprevedibile e fuori da qualsiasi schema e rende ancor più apprezzabile il suo lavoro di cineasta che in ogni film ridefinisce il senso della sua comicità, rimettendosi sempre in gioco. Per continuare a stupirci e a divertirci.


venerdì 13

ore 17.00

Tuttobenigni (1985)

Regia: Giuseppe Bertolucci; soggetto e sceneggiatura: Roberto Benigni, G. Bertolucci; fotografia: Renato Tafuri; musica: a cura di R. Benigni; montaggio: Jannis Christopulos; interprete: R. Benigni; origine: Italia; produzione: Best International film; Rai; durata: 87’



«Nell’estate 1983, Benigni è in tournée con un suo spettacolo per le piazze d’Italia. Bertolucci segue l’amico e ne riprende le esibizioni. Il lavoro, che doveva costituire uno special per Raiuno, venne poi “congelato per il contenuto di certe battute”. Il diluvio verbale di Benigni è inarrestabile e non risparmia nessuno. Parte dalla realtà, e poi la stravolge, la trasforma, la rivolta in una girandola lessicale coinvolgente e stordente. Parla col pubblico, salta, si getta a terra, provoca, morde, aggredisce, regala la risata liberatoria. […] Dietro la macchina da presa, Bertolucci con il suo 16mm sembra non volersi muovere. Sceglie di riprendere immagini disordinate come aderenza totale al personaggio: mdp fissa su di lui, rapidi zoom, taglio affrettato, un po’ sporco, interviste fuori scena. La memoria di un rito sregolato deve essere anch’essa sgrammaticata» (Giraldi).
ore 18.45

Tu mi turbi (1982)

Regia: Roberto Benigni; soggetto e sceneggiatura: R. Benigni, Giuseppe Bertolucci; fotografia: Luigi Verga; musica: Paolo Conte; montaggio: Gabriella Cristiani; interpreti: R. Benigni, Olimpia Carlisi, Giacomo Piperno, Nicoletta Braschi, Claudio Bigagli, Carlo Monni; origine: Italia; produzione: Best International Film; durata: 89’



Il primo film da regista di Roberto Benigni, supportato alla sceneggiatura da Giuseppe Bertolucci, è costituito da quattro episodi indipendenti e senza alcun legame tra loro, che vedono il comico toscano alternare la sua fisicità grottesca e popolare alle acrobazie linguistiche e surreali che lo hanno reso famoso. «Tu mi turbi è un film che vuole dimostrare agli uomini che i miracoli esistono. Non c’è nessuna idea, nessun filo logico. Semmai ci sono dei generi di comicità, ogni episodio è il tentativo di affrontare un diverso genere comico» (Benigni).
ore 20.30

Incontro con Paolo Brunatto e Giuseppe Bertolucci


a seguire

Memorie, ma non solo... (2008)

Regia: Paolo Brunatto; fotografia: Marco Tani, Stefano Bonetti, Nicolas Franik; musica: Vittorio Santoro; montaggio: Mirella D’Angelo; origine: Italia; produzione: Prodigy - DBW Communication; durata: 62’



Il film documentario inizia con un brano dall’atto unico Cioni Mario di Gaspare fu Giulia: lo straordinario monologo di Roberto Benigni, messo in scena da Giuseppe Bertolucci, all’Alberichino di Roma nel 1975. Unico documento audiovisivo esistente, filmato da Brunatto all’epoca. Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci, les enfants terribile del teatro e del cinema italiano, ricordano oggi oltre all’esperienza del Cioni Mario, anche quella del film Berlinguer ti voglio bene. In un montaggio alternato, dove sono a confronto l’impetuosa vitalità dell’artista toscano e il carattere pensoso, discreto e seducente del regista parmense, prendono forma i giorni che i due trascorsero a Casarola (la casa di famiglia dei Bertolucci sull’Appennino emiliano) per partorire il copione del Cioni Mario: una memorabile seduta psicoanalitico a doppio senso. E le prime e memorabili apparizioni teatrali di Roberto Benigni. Le memorie di Benigni e Bertolucci ripercorrono poi il labirinto stilistico e contenustico che affrontarono per realizzare Berlinguer ti voglio bene nel 1977. Dopo lo struggente flash-back del ricordo, Bertolucci e Benigni, si tuffano in una riflessione a tutto campo sul futuro del cinema, nella quale Benigni disserta di filosofia, filologia, semantica e cosmogonia, nel suo stile zeppo di paradossi e di sottintesi allusivi e stravaganti. I ricordi di Bertolucci e Benigni sono contrappuntati da rari filmati d’epoca, quasi inediti, come il “Comizio” di Roberto Benigni, girato dallo stesso Brunatto nel 1978. «Penso che viviamo in un’epoca dalla memoria breve. Chi ricorda come esordirono Roberto Benigni e Giuseppe Bertolucci, nel 1975 con Cioni Mario di Gaspare fu Giulia, nella cantina dell’Alberichino di Roma? E quali furono i motivi culturali e politici che spinsero Bertolucci e Benigni, a realizzare un film come Berlinguer ti voglio bene, dove il turpiloquio si nobilita in una poetica del linguaggio parlato in una frenetica urgenza di sperimentazione, e dove la sessualità assume forme sovversive? Con questo mio film documentario ho voluto “ restaurare” il ricordo di un’epoca della cultura italiana, che ebbe in Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni due eccezionali protagonisti. Ma non solo: ho cercato anche di scoprire come Benigni e Bertolucci vedono il futuro del cinema» (Brunatto).

Ingresso gratuito
a seguire

Berlinguer ti voglio bene (1977)

Regia: Giuseppe Bertolucci; soggetto e sceneggiatura: Roberto Benigni e G. Bertolucci; fotografia: Renato Tafuri; musica: Pier Farri, Franco Coletta; montaggio: Gabriella Cristiani; interpreti: R. Benigni, Alida Valli, Carlo Monni, Mario Pachi, Maresco Fratini, Donatella Valmoggia; origine: Italia; produzione: A.M.A. Film; durata: 90’



Il film è tratto dal monologo teatrale scritto da Giuseppe Bertolucci e Roberto Benigni, Cioni Mario fu Gaspare di Giulia. Il protagonista, Mario Cioni, è un giovane sottoproletario della provincia toscana, un po’ naive e infantile. Legato morbosamente alla madre, è incapace di avere rapporti reali con le altre donne, e per questo subisce spesso le prese in giro e le cattiverie degli amici. La vera regina del film è però la lingua, la lingua di Mario, viva, beffarda, colorita e sapiente, il suo vero atto di ribellione contro una realtà frustrante e opprimente. «A proposito di Berlinguer ti voglio bene, […] voglio ricordare che quel primo piccolo film aspro, romantico ed eccessivo (così “mio”) può essere giustamente considerato (assieme al contiguo Ecce Bombo di Nanni Moretti) l’atto di nascita di una generazione di nuovi comici e di un genere che è stato – per tutti gli anni Ottanta e oltre – l’asse portante della nostra disastrata industria cinematografica» (Bertolucci).

Vietato ai minori di anni 18 - Ingresso gratuito
sabato 14

ore 17.00

Chiedo asilo (1979)

Regia: M. Ferreri; soggetto e sceneggiatura: M. Ferreri, Gérard Brach, con la collaborazione di Roberto Benigni; fotografia: Pasquale Rachini; musica: Philippe Sarde; montaggio: Mauro Bonanni; interpreti: R. Benigni, Dominique Laffin, Chiara Moretti, Carlo Monni, Girolamo Marzano, Luca Levi; origine: Italia/Francia; produzione: 23 giugno, A.M.S. Production, Pacific Business Group; durata: 112’



Una delle prime prove cinematografiche del giovane Roberto Benigni qui circondato dai bambini di una scuola materna bolognese. Benigni interpreta un giovane maestro che porta scompiglio in una scuola d’infanzia con il suo metodo educativo “rivoluzionario”, che segue i desideri dei bambini più che ammaestrarli. «L’amore, il gioco, il desiderio, il vivere dal basso la vita accanto ai bambini, la confusione vitale dell’infanzia costituiscono i materiali elementari di Chiedo asilo; […] in tal modo il cinema di Ferreri si riconsegna alla sensibilità del vivere che è passione visiva, accostamento appassionato dell’occhio del cinema alla palude odierna» (Grande).
ore 19.00

Il piccolo diavolo (1988)

Regia: Roberto Benigni; soggetto: Giuseppe Bertolucci, Vincenzo Cerami, R. Benigni; sceneggiatura: V. Cerami, R. Benigni; fotografia: Robby Müller; musica: Evan Lurie; montaggio: Nino Baragli; interpreti: Roberto Benigni, Walter Matthau, Nicoletta Braschi, Stefania Sandrelli, John Lurie, Franco Fabrizi; origine: Italia; produzione: Yarno Cinematografica, Cecchi Gori Group Tiger Cinematografica; durata: 105’



Padre Maurizio è un esorcista. Durante una seduta riesce a liberare una certa Giuditta dalla possessione ma si ritrova in compagnia del diavolo che la possedeva. Padre Maurizio non riesce più a liberarsi del diavoletto, che lo segue dappertutto, combinandone di tutti i colori, fino al momento dell’incontro con un’altra diavola, Nina, di cui si innamora. «Benigni indossa i panni del diavolo, una delle figure all’origine del suo archetipo comico, puntando esplicitamente sui moduli della commedia. L’ancestrale coincidenza tra comico e demoniaco, il buffone che assume le irridenti sembianze del maligno, che sta alla base delle rappresentazioni e delle feste popolari, si ricompone qui “all’insegna della leggerezza”» (Borsatti).
ore 21.00

Non ci resta che piangere (1984)

Regia: Roberto Benigni, Massimo Troisi; soggetto: R. Benigni, M. Troisi; sceneggiatura: R. Benigni, M. Troisi, Giuseppe Bertolucci; fotografia: Giuseppe Rotunno; musica: Pino Donaggio; montaggio: Nino Baragli; interpreti: M. Troisi, R. Benigni, Iris Peynado, Amanda Sandrelli, Paolo Bonacelli, Carlo Monni; origine: Italia; produzione: Yarno Cinematografica, Best International Film; durata: 112’



Il maestro Saverio e il bidello Mario rimangono bloccati con la loro auto davanti a un passaggio a livello in una zona di campagna. Vengono sorpresi da un temporale e si rifugiano in una locanda. Il giorno dopo scoprono di essere tornati indietro al 1492. Affrontano innumerevoli peripezie cercando di adeguarsi agli usi del tempo e poi intraprendono un viaggio picaresco nel tentativo di giungere in Spagna e bloccare la partenza di Colombo. «Provenienti da due universi comici tanto diversi, Troisi e Benigni inseriscono agevolmente i propri personaggi in una struttura narrativa libera e vivace che ne valorizza le reciproche virtù in un gioco verbale e mimico senza soste. Firmando insieme la regia, anche come autori Troisi e Benigni si dividono il merito già acquisito facendo l’uno la spalla dell’altro, improvvisando pause e battute, e favorendo quello straniamento linguistico e figurativo che dà gaiezza e passatempo» (Grazzini).
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